STATUS QUO

E lo so che parlare male dei morti non sta bene. Meno che mai quando si tratta di un eroe nazionale, di una leggenda, di un mito; ma quando si parla di storia servono i fatti, non le buone maniere, e i fatti parlano chiaro: Moshe Dayan ha commesso il più catastrofico errore che mai si potesse fare, dando il via a un disastro che continua a provocare sciagure e che difficilmente potrà diventare reversibile – a meno di una guerra, che naturalmente nessuno vuole. Ma torniamo indietro, a quel giugno del 1967 in cui la cosiddetta Gerusalemme est fu finalmente liberata, dopo 19 anni, dall’illegale occupazione giordana, che aveva provocato l’espulsione di tutti gli ebrei che lì vivevano, distruzione di sinagoghe, devastazione di cimiteri, divieto di accesso a tutti i luoghi santi ebraici per tutti gli ebrei del mondo e pesanti limitazioni a quelli cristiani. E qual è la geniale idea di Moshe Dayan? Sicuramente grandissimo genio militare ma, come molti militari, col deprecabile vizio di essere un inguaribile pacifista e tanto tanto comprensivo nei confronti dei palestinesi, la prima cosa che fa, è di rassicurare i musulmani e affidare loro la sovranità sul Monte del Tempio. Quella cosa su cui Salomone aveva costruito il Primo Tempio. Quella cosa su cui Erode aveva costruito il secondo Tempio. Quella cosa su cui dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani era sorta una chiesa cristiana. E poi, buoni ultimi, sono arrivati i musulmani e hanno detto che quella è roba loro, e Moshe Dayan gli ha dato ragione e gli ha consegnato su un piatto d’argento il più prezioso luogo sacro ebraico, affinché provvedessero a devastarlo per cancellare il più possibile le tracce della presenza ebraica, e infatti adesso anche l’Unione Nazisti Esperti in Stravolgimenti Ciclopicamente Obbrobriosi ha stabilito che quella è tutta roba musulmana da cui gli invasori ebrei devono togliere il disturbo.

Ecco, questo devastante disastro messo in atto da Moshe Dayan si chiama status quo: cioè le cose devono rimanere nello stato in cui sono, senza apportare alcun cambiamento. E gli arabi musulmani lo stanno rispettando alla grande:
status quo
il primo status si chiamava Kamil Shnaan e aveva ventidue anni
Kamil Shnaan
il secondo si chiamava Ha’il Satawi: aveva trent’anni e un bambino di tre settimane, il suo primo figlio.
Ha'il Satawi
barbara

 

DEGANIA

Degania è stato il primo kibbuz, sorto nel 1909 sulla riva sud del lago di Tiberiade (alias mare di Galilea, alias Kinneret, da kinor, cetra, a causa della sua forma);
Degania 1
per la precisione, incuneato fra il lago e il fiume Giordano che ne esce.
Degania 2
Erano stati dodici giovani, dieci uomini e due donne,
Degania alef
a farlo sorgere dal nulla – come quasi tutto, in Terra d’Israele, è sorto dal nulla.
Degania A
Il suo nome deriva dall’ebraico dagan, grano, ossia la coltivazione su cui si sarebbe dovuto basare
deganiah_aleph_schild
deg 1
(oggi la coltivazione è molto più variegata). Quando la terra fu acquistata (sì, la terra coltivata dai pionieri ebrei è stata TUTTA acquistata, e regolarmente pagata. Pagata a peso d’oro, per la precisione, anche se erano deserti e paludi e pietraie, clic e clic), il contratto fu firmato – come di consueto all’epoca – dai dieci uomini, ma non dalle donne, che protestarono vigorosamente per questa inaccettabile discriminazione nei confronti di chi, con quegli uomini, divideva equamente fatiche e difficoltà e responsabilità. La cosa singolare è che mentre da noi le femministe lottavano per avere accesso agli stessi diritti degli uomini, le donne in Terra d’Israele lottavano per avere accesso agli stessi doveri degli uomini.
E il kibbuz – che ha la caratteristica unica di non avere mai avuto un dormitorio per i bambini: i bambini hanno sempre dormito con le proprie famiglie – cominciò a prendere forma;
degania
DeganiaFirstShack
una delle prime cose ad essere costruite, per la ferma volontà di una delle due donne, Miriam, fu la stalla,
Building-the-stables-and-cowshed-back-in-the-early-1910s
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che partì con tre mucche che poi diventarono tredici. Il primo bambino nato nel kibbuz fu Gideon Baratz, figlio di Joseph e di Miriam Ostrovsky, nel maggio del 1913; il secondo, esattamente due anni dopo, fu Moshe Dayan, figlio di Shmuel e di Devorah Zatolowsky, che negli anni Sessanta fu definito l’uomo più sexy del mondo.
Moshe Dayan
Degania alef (nel 1920 fu fondato il kibbuz “gemello” Degania bet) è molto piccolo, ma è un autentico gioiello (Israele è piena di autentici gioielli, in effetti).
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barbara

MASADA

Favoriti così dall’aiuto del dio i romani fecero ritorno festanti nell’accampamento, essendosi stabilito di scatenare l’attacco contro i nemici il giorno dopo, e nella notte rafforzarono la vigilanza perché nessuno di quelli avesse a eclissarsi. Ma né Eleazar meditava di fuggire, né avrebbe permesso di farlo ad alcuno dei suoi. Vedendo il muro rovinato dal fuoco, non scorgendo più nessun’altra possibilità di scampo o di eroica resistenza, immaginandosi quello che i romani, una volta vincitori, avrebbero fatto a loro, ai figli e alle mogli, deliberò la morte per tutti. Persuaso che in simili circostanze era questa la risoluzione migliore, raccolse i più animosi fra i suoi uomini e prese a spronarli con tali parole:
“Da gran tempo noi avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del Dio, perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini; ed ecco che ora è arrivato il momento di confermare con i fatti quei propositi. In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna, noi che prima non ci siamo piegati nemmeno a una servitù che non comportava pericoli, e che ora assieme alla schiavitù ci attireremo i più terribili castighi se cadremo vivi nelle mani dei romani. Siamo stati i primi, infatti, a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo poi che sia una grazia concessaci dal Dio questa di poter morire con onore e in libertà, mentre ciò non fu possibile ad altri, che furono vinti inaspettatamente. Per noi invece è certo che domani cadremo in mano al nemico, e possiamo liberamente scegliere di fare una morte onorata insieme con le persone che più ci sono care. Né possono impedirlo i nemici, che pur vorrebbero a qualunque costo prenderci vivi, né possiamo noi ormai superarli in battaglia. Forse fin dal principio, quando noi decidemmo di batterci per la libertà, e ci toccò sia di infliggerci a vicenda ogni sorta di colpi sia di subirne ancor più gravi dai nemici, bisognava subito indovinare l’intenzione del Dio e capire che la stirpe dei giudei, a lui un tempo così cara, era stata ora condannata alla distruzione. Che se egli ci fosse rimasto propizio, oppure non ci avesse preso tanto a malvolere, non sarebbe rimasto indifferente allo sterminio di tanti uomini né avrebbe abbandonato la sua città santa alle fiamme e alle devastazioni dei nemici. Ci aspettavamo forse che solamente noi fra l’intero popolo dei giudei saremmo sopravvissuti conservando la libertà, come se non avessimo arrecato offese al Dio e non ci fossimo macchiati di alcuna iniquità, mentre ne siamo stati perfino maestri agli altri? E allora, guardate come egli ci dà la dimostrazione che vane erano le nostre aspettative, infliggendoci nella sventura colpi più gravi di quelli che potevamo attenderci; non solo infatti questa fortezza per sua natura inespugnabile non è valsa a salvarci, ma, dato che avevamo abbondanza di viveri e gran copia di armi e di ogni altro rifornimento, è stata evidentemente opera del Dio se ci troviamo ridotti a disperare della salvezza. Le fiamme che si protendevano contro i nemici non si sono rivoltate da sole contro il muro costruito da noi, ma ciò è avvenuto a causa dello sdegno divino per le molte scelleratezze che nel nostro cieco furore abbiamo osato commettere a danno dei nostri connazionali. Di tali colpe conviene che paghiamo il fio non ai nostri nemici più accaniti, i romani, ma per nostra stessa mano al Dio, e così il nostro castigo sarà anche più lieve di quello che c’infliggerebbero i vincitori. Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù, e dopo la loro fine scambiamoci un generoso servigio preservando la libertà per farne la nostra veste sepolcrale. Ma prima distruggiamo col fuoco e i nostri averi e la fortezza; resteranno male i romani, lo so bene, quando non potranno impadronirsi delle nostre persone e vedranno sfumare il bottino. Risparmiamo soltanto i viveri, che dopo la nostra morte resteranno a testimoniare che non per fame siamo caduti, ma per aver preferito la morte alla schiavitù, fedeli alla scelta che abbiamo fatta fin dal principio”.
Così parlò Eleazar, ma le sue parole non suscitarono identiche reazioni nell’animo dei presenti; alcuni erano ansiosi di tradurre in atto la sua esortazione e per poco non gongolavano di gioia al pensiero di fare una fine così gloriosa, mentre i più pusillanimi fra loro provavano compassione per le mogli e i figli, e certamente anche per la loro prossima fine, e scambiandosi occhiate davano a vedere con le loro lacrime di non essere propensi al sacrificio. Eleazar, vedendo costoro avviliti e in preda allo scoramento di fronte a una decisione così grave, temette che con i loro gemiti e le loro lacrime disanimassero anche quelli che avevano accolto con fermezza le sue parole. Allora non rinunziò ai suoi incitamenti, ma riscaldandosi e lasciandosi trasportare da un gran fervore elevò il tono del suo discorso parlando dell’immortalità dell’anima […] “Magari fossimo tutti morti prima di vedere quella santa città crollare sotto i colpi dei nemici, e il sacro tempio empiamente distrutto fin dalle fondamenta. Ci fu di sprone la non ignobile speranza di poter forse un giorno far le sue vendette sui nemici, ma poiché tale speranza è ora svanita, e ci ha lasciati soli nell’ora suprema, non indugiamo a fare una morte gloriosa, muoviamoci a pietà per noi stessi, per le mogli e per i figli, finché possiamo ancora trovare misericordia da parte nostra. Siamo nati per morire, noi e quelli che abbiamo generato, e a questo destino nemmeno i più fortunati possono sottrarsi; invece l’essere sopraffatti e gettati in catene, e il vedere le mogli trascinate alla vergogna assieme ai figli, non sono mali inevitabili perché imposti all’uomo dalla natura, ma sono mali che per la sua viltà deve sopportare chi potrebbe evitarli con la morte e non vuole. Fieri del nostro coraggio noi demmo inizio alla ribellione ai romani, e ora che siamo alla fine abbiamo respinto le loro profferte di perdono. Chi non immagina la loro ferocia se ci prenderanno vivi? Sventurati i giovani, che per la robustezza del corpo resisteranno a molti supplizi, sventurati gli anziani, la cui età non potrà sopportare tali tormenti! Chi vorrà vedere la propria moglie trascinata a forza e sentire la voce del proprio figlio che invoca il padre, mentre le sue mani sono strette in catene? Ma finché queste sono libere e hanno una spada da impugnare, ci rendano un generoso favore; moriamo quando ancora i nemici non ci hanno ridotti in schiavitù, e da esseri liberi diamo un addio alla vita con le mogli e i figli. Questo c’impongono le leggi, questo ci chiedono supplichevoli le mogli e i figli; tale destino ci ha riservato il Dio, mentre i romani vorrebbero tutto il contrario, preoccupati che qualcuno di noi abbia a morire prima della tortura. E allora, invece dell’esultanza che speravano di provare impadronendosi di noi, affrettiamoci a lasciar loro lo stupore per la nostra fine e l’ammirazione per il nostro coraggio”.
Eleazar avrebbe voluto proseguire con le sue parole d’incitamento, ma tutti lo interruppero impazienti di metterle in atto sotto la spinta d’un’ansia incontenibile; come invasati, se ne partirono cercando l’uno di precedere l’altro e reputando che si dava prova di coraggio e di saggezza a non farsi vedere tra gli ultimi: tanta era la smania che li aveva presi di uccidere le mogli, i figli e sé stessi. Né, come ci si sarebbe potuto attendere, si affievolì il loro ardore nel passare all’azione, ma conservarono saldo il proponimento maturato ascoltando quelle parole e, sebbene tutti serbassero vivi i loro affetti domestici, aveva in loro il sopravvento la ragione, da cui sentivano di essere stati guidati a decidere per il meglio dei loro cari. Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali! Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio. Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari.
Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanthico.
I romani, che s’aspettavano di dover ancora combattere, verso l’alba si approntarono e, gettate delle passerelle per poter avanzare dai terrapieni, si lanciarono all’attacco. Non vedendo alcun nemico, ma dovunque una paurosa solitudine e poi dentro fiamme e silenzio, non riuscivano a capire che cosa fosse accaduto; alla fine levarono un grido, come quando si dà il segnale di tirar d’arco, per vedere se si faceva vivo qualcuno. Il grido fu udito dalle due donne che, risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l’accaduto e specialmente una riferì con precisione tutti i particolari sia del discorso sia dell’azione. Ma quelli non riuscivano a prestarle fede, increduli dinanzi a tanta forza d’animo; si adoperarono per domare l’incendio e, apertasi una via tra le fiamme, entrarono nella reggia. Quando furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto. […]
Qui ha termine la mia storia, che avevo promesso di scrivere con la più scrupolosa precisione per chiunque volesse conoscere quali furono le vicende di questa guerra fra i romani e i giudei. Dei suoi pregi letterari lascio giudicare ai lettori, ma per quanto riguarda la sua veridicità non avrei alcuna esitazione a dichiarare con sicura coscienza che in tutta la mia opera non ho avuto di mira che quella. (qui)

Questo il racconto di Giuseppe Flavio nel suo “La guerra giudaica”.
Ora, tu immagina un giovane archeologo, cresciuto con la conoscenza della “leggenda di Masada”: perché la strenua resistenza di Masada e il sacrificio finale sono storia, ma tutti i dettagli sono solo racconti di Giuseppe Flavio, un ebreo passato al servizio del nemico e forse convertito, molte descrizioni e narrazioni del quale sembrerebbero contraddette dai ritrovamenti archeologici, e chissà, dunque, quanto ci sarà di vero e quanto di fantasioso in quei racconti. Immagina dunque di essere questo giovane archeologo, che sta partecipando a una nuova missione di scavi a Masada. Immagina le tue mani che trovano una piccola fossa, e nella fossa toccano qualcosa di liscio. Lo tiri fuori: è un piccolo coccio. E sul coccio è scritto un nome. Le tue mani cominciano a tremare mentre continui a frugare nella fossa… Trovi un secondo coccio, un terzo, un quarto… Alla fine sono dieci, e uno dei nomi è Eleazar ben Yair: quello che ha pronunciato il discorso.
A fine giornata, nel corso della riunione di tutti i ricercatori, per esaminare quanto trovato da ognuno e fare il punto della situazione, posi anche tu il tuo cesto di reperti davanti al capo missione, senza dire niente. E lui prende in mano un coccio, lo guarda, impallidisce, comincia a tremare…
nomi
(Adesso l’esposizione è cambiata: ogni coccio è in una piccola bacheca a sé, sopra una colonnina, in una stanza buia, con le bacheche che si illuminano quando entra un visitatore, una cosa da togliere il fiato)

E poi immagina me, seduta sui gradoni, che ascolto la lettura del discorso di Eleazar là dove il discorso è stato pronunciato,
Synagogue_massada
e il racconto di quanto avvenuto dopo, e delle mani dell’archeologo che toccano quel coccio con il nome… Forse (forse), se hai molta immaginazione, riuscirai ad avere una vaga (vaga) idea dell’emozione che ho vissuto in quei momenti. Forse. (E grazie Angela, che riesci a trasmettere emozioni così)

Ed è qui su questa spianata che dal 1967, dopo la liberazione dall’occupazione giordana, per volontà di Moshè Dayan ogni anno le reclute di Tzahal (Tzavah haganah leisrael, esercito di difesa di Israele) vengono a pronunciare il loro giuramento: Metzadà shenìt lo tippol! Metzadà shenìt lo tippol! Metzadà shenìt lo tippol! Masada non cadrà una seconda volta! Masada non cadrà una seconda volta! Masada non cadrà una seconda volta!
giuramento Masada
E adesso ti porto a fare un giro. A Masada, se non vuoi farti il micidiale “serpente”,
serpente
ci arrivi con la funivia.
funivia
Una volta su ti si offre questo panorama
panorama 1
panorama 2
panorama 3
panorama 4
Poi ci sono loro
tristamit
che potrebbero sembrare corvi, ma non lo sono: si chiamano tristamit e vivono solo qui. Invece del becco, hanno arancione le punte delle ali. E poi c’è lui
soldato
che anche se non sembra, ci sta proteggendo. In Israele c’è sempre vicino a te qualcuno che ti sta proteggendo, anche se il più delle volte non te ne accorgi affatto.

barbara

HAKOTEL B’YADEINU – IL KOTEL È IN MANO NOSTRA

7 giugno 1967: dopo 19 anni di illegale (e devastante) occupazione giordana, finalmente Gerusalemme è liberata, e torna ad essere una sola città, come era stata per tremila anni. E bisogna, paradossalmente, ringraziare re Hussein: perché Israele non avrebbe mai ingaggiato una battaglia per liberarla, e solo per il fatto che re Hussein ha attaccato per primo è stata costretta a rispondere (a dire la verità, anche allora l’ordine era stato, fino all’ultimo, di non entrare in città, e sono stati i militari a prendere l’iniziativa; ma su queste piccole intemperanze Moshe Dayan, all’epoca ministro della difesa, sceglieva, come si diceva allora, di chiudere un occhio).

Non importa se non capite l’ebraico: lasciatevi trasportare dalle emozioni che vengono dalla voce e dalle immagini.

barbara

SABENA – OPERAZIONE ISOTOPE QUARANT’ANNI DOPO

Operazione “Isotope”

Aeroporto di Lydda (Ben Gurion), 9 Maggio 1972


Nel 1972, l’uso dei dirottamenti aerei da parte delle organizzazioni terroristiche mediorientali quali strumenti di pressione politica, aveva preso piede già da diverso tempo. Il 23 Luglio di quattro anni prima, un commando del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), aveva dirottato il volo El Al 426 da Heathrow a Fiumicino (Roma). L’incidente si risolse senza spargimento di sangue quaranta giorni dopo ad Algeri, con la liberazione dei quarantotto ostaggi ed il rilascio dei tre dirottatori.
Nel Settembre del 1970, l’FPLP si guadagnò nuovamente le prime pagine dei rotocalchi internazionali con il dirottamento di tre aerei, fatti atterrare a Dawson’s Field (Giordania) e successivamente distrutti con gli esplosivi, dopo che tutti i passeggeri erano stati rilasciati. Un quarto velivolo venne fatto atterrare al Cairo, mentre il dirottamento del quinto, il volo El Al 219, fallì grazie alla reazione del personale di sicurezza a bordo.
Gli apparati di sicurezza israeliani, dopo aver previsto l’intensificarsi degli atti di pirateria aerea, decisero di dispiegare agenti armati a bordo dei voli El Al. Si trattava di giovani riservisti del
Sayeret Mat’kal(una delle unità antiterrorismo di punta delle Israeli Defense Forces), ai quali lo Shabak (il servizio segreto interno) offriva la possibilità di lavorare a bordo dei voli, quando non in servizio con la propria unità di appartenenza. Addestrati a reagire a qualsiasi tipo di minaccia, non vi è ombra di dubbio come la loro presenza (insieme alla pratica del profiling dei passeggeri) abbia notevolmente contribuito a rendere impossibile il dirottamento dei voli El Al.
Rimaneva comunque l’incognita di come intervenire nel caso di una presa di ostaggi su di un volo straniero, ma in territorio israeliano. Gli apparati di sicurezza affidarono quindi al
Sayeret Mat’kal, il compito di sviluppare tattiche di intervento per la liberazione di ostaggi a bordo di aerei. Esse sarebbero ben presto state utilizzate da quello stesso reparto, nel corso di un’operazione che avrebbe costituito negli anni a venire un vero e proprio case study per i reparti di controterrorismo di tutto il mondo.

Il battesimo del fuoco

Nel 1971 i servizi di sicurezza israeliani inziarono a ricevere informazioni su di una nuova organizzazione fondata all’interno di al-Fatah e rispondente al nome di Settembre Nero. L’obiettivo dell’organizzazione, era quello di vendicare l’uccisione dei palestinesi che avevano cercato di rovesciare il regno di re Hussein di Giordania nel Settembre 1970. L’esordio di Settembre Nero sulla scena internazionale fu cruento ed inaspettato. Il 28 Novembre 1971, i terroristi assassinarono il primo ministro giordano Wasfi al-Tel, mentre si recava ad una riunione della Lega Araba all’Hotel Sheraton del Cairo. Dopo questo primo eclatante colpo, le operazioni di Settembre Nero si allargarono al di fuori del Medioriente. Potendo contare su di una vasta rete di simpatizzanti in Europa, il gruppo compì attentati e sabotaggi a Londra, nella Germania dell’Ovest ed in Olanda.
L’8 Maggio 1972, quattro terroristi appartenenti a Settembre Nero (due uomini e due donne) dirottarono il volo Sabena SN571, diretto da Vienna all’aeroporto israeliano di Lydda (oggi Ben Gurion), presso Lod. Il commando è guidato da un certo Ali Taha, e l’operazione fa parte di una campagna ideata da Ali Hassan Salameh, capo delle operazioni di Settembre Nero, e fondatore di Forza 17, unità speciale agli ordini di al-Fatah. Dopo venti minuti dal decollo, i terroristi fecero irruzione pistole in pugno nella cabina del Boeing 707, prendendone il controllo. “Come potete vedere, abbiamo degli amici a bordo”, fu l’ironico annuncio del Comandante del volo Reginald Levy ai passeggeri. Una volta atterrati al Lydda, i terroristi resero note le loro richieste, ordinando la liberazione di 317 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, in cambio della vita degli ostaggi.
Il Ministro della Sicurezza Moshe Dayan, dopo essersi consultato con il Primo Ministro Golda Meir, diede immediatamente ordine al Tenente Colonnello Ehud Barak (comandante del Sayeret Mat’kal e futuro Primo Ministro) di riunire riservisti e operatori in servizio attivo e prepararsi ad un intervento di salvataggio.

Mentre Dayan continuava le negoziazioni con i terroristi, utilizzando quale tramite membri della Croce Rossa, vennero passate al vaglio diverse possibilità di intervento. Un significativo vantaggio fu acquisito dai pianificatori, quando i terroristi inviarono il capitano Levy al terminal per mostrare un campione dell’esplosivo presente a bordo, e convincere le autorità della veridicità delle loro minacce. I servizi di sicurezza furono così in grado di conoscere da Levy la posizione dei terroristi a bordo, l’ubicazione dell’esplosivo e confermare che le uscite di sicurezza non fossero ostruite dai sedili.
Onde scongiurare un bagno di sangue, era necessario neutralizzare innanzitutto la carica esplosiva. Il primo operatore a fare irruzione, avrebbe quindi avuto il delicato compito di individuare l’ordigno e renderlo inoffensivo. “Affinché l’operazione abbia successo”, spiegò il Comandante Barak ai suoi operatori, “ho bisogno di uomini che conoscano perfettamente l’interno di questi aerei e che siano abili nell’uso delle pistole”. A fare la parte del leone, sarebbero quindi stati gli uomini già impiegati come sceriffi dell’aria. Proprio uno di questi, sarebbe stato l’uomo di punta incaricato di neutralizzare il congegno esplosivo.
L’operazione venne provata più e più volte su di un 707 all’interno di un hangar, finché tutti gli operatori non acquisirono un completo automatismo nei movimenti. Il 707 aveva due uscite di emergenza su entrambe le ali, due uscite posteriori e due anteriori. Quattro operatori avrebbero fatto irruzione in contemporanea dalle ali, fra questi anche Benjamin Netanyahu (anch’egli futuro Primo Ministro), che sarebbe entrato dall’ala di destra. Dato l’alto numero di ostaggi, venne ordinato agli uomini di non fare fuoco a meno che non fosse stato strettamente necessario. L’unico autorizzato ad aprirsi la strada con ogni mezzo, fu Mordechai Rachamim, venticinquenne riservista dell’unità, richiamato in servizio con una telefonata durante una lezione all’università. Rachamim sarebbe entrato dall’uscita d’emergenza collocata sull’ala sinistra, oltrepassato le prime tre file di sedili, e disabilitato l’esplosivo strappandone via le batterie. “Ero certo che non ne sarei uscito vivo”, ricorda Rachamim. “Dopo tutto sarei stato il primo ad entrare nell’aereo ed i terroristi non avrebbero esitato a spararmi non appena mi avessero visto”.
Quella stessa notte, Ehud Barak ed altri due operatori si avvicinarono al 707. Coperti dall’oscurità, i commandos sabotarono il carrello aprendo le valvole del liquido idraulico. Il mattino successivo, i terroristi scoprirono di essere immobilizzati sulla pista. Dayan, che aveva condotto le negoziazioni, assicurò che una squadra di tecnici sarebbe presto arrivata per riparare il guasto. Era il momento di agire.

Ora zero


Alle ore 10 circa, sedici commandos del Sayeret Mat’kal travestiti da meccanici furono riuniti sulla pista. I terroristi pretesero che i “meccanici” fossero perquisiti da un rappresentante della Croce Rossa il quale, all’oscuro del piano d’assalto, non si accorse delle armi nascoste addosso agli operatori. Una volta terminata la perquisizione, i militari salirono a bordo di due camion porta valigie, per essere trasportati verso il 707. Il governo israeliano aveva nel mentre acconsentito alla liberazione dei 317 prigionieri. O così almeno credevano i terroristi. Vestiti con delle kefiyah, un gruppo di militari venne portato a poca distanza dall’apparecchio al fine di distrarre i terroristi. Tutto sembrava andare per il verso giusto per il commando, che solo poche ore prima aveva dirottato il volo Sabena SN571.
Giunti dinnanzi all’aereo, e fingendo di dover iniziare le operazioni di riparazione, tutti gli operatori presero le posizioni assegnate loro. Dopo un breve momento di silenzio, Ehud Barak soffiò nel fischietto che portava appeso al collo. Era il segnale d’inizio attacco. Rachim fece irruzione dalle ali, venendo accolto da una scarica di colpi. Ritirandosi per un momento al di fuori dell’apparecchio, il militare diede tempo al collega al suo fianco di sporgersi all’interno dell’aereo ed abbattere il terrorista che aveva sparato. Poi Rachim si lanciò nuovamente dentro. Non sapendo che il terrorista che aveva cercato di colpirlo fosse stato ucciso, egli aprì il fuoco verso la direzione del suo aggressore, muovendosi contemporaneamente in avanti per individuare la carica, ma finendo nuovamente sotto i colpi di un secondo terrorista. Il militare rispose al fuoco muovendosi di fila in fila e riparandosi dietro un sedile per ricaricare. La tecnica impiegata dal Sayeret Mat’kal all’interno degli aerei, era la stessa utilizzata per la bonifica delle trincee: una volta che l’uomo di punta avesse esaurito le munizioni, egli si muoveva sul lato cedendo il passo a chi lo precedeva. Il terrorista che teneva sotto tiro gli operatori, terminate le munizioni, si rifugiò nel bagno, ma venne raggiunto da uno dei militari che lo uccise.
Nel frattempo entrambe le donne del commando, che avevano tentato di nascondersi, vennero individuate grazie all’aiuto dei passeggeri. Una di queste fu colpita alla testa dal calcio della pistola di uno degli operatori. L’arma fece fuoco accidentalmente, ferendo ad una spalla Benjamin Netanyahu.
Dal reggipetto della terrorista vennero strappate le batterie ed i detonatori per la carica che avrebbe dovuto distruggere l’apparecchio. Anche la seconda terrorista venne catturata, mentre Danny Yatom (futuro direttore del Mossad) ed un altro operatore, sopraggiungevano dalla cabina. L’esplosivo fu ritrovato sul retro e gettato fuori dall’aereo, mentre i passeggeri venivano evacuati scivolando giù dalle ali dell’aereo.
L’intera operazione, dal momento del segnale d’inizio, era durata meno di due minuti. Tutti gli ostaggi a parte una donna (uccisa dal fuoco incrociato) furono tratti in salvo.

Alcuni giorni dopo l’operazione, venne organizzata una cena in onore del Sayeret Mat’kal. A presiederla il Primo Ministro Golda Meir, la quale, rispondendo alle critiche che la accusavano di aver messo a rischio la vita degli ostaggi, così dichiaró: “Quando ricatti come questi hanno successo, non possono che portare ad altri ricatti”. Rima Tannous e Teresa Halasseh, unici membri del commando sopravvissuti all’assalto, vennero processate e condannate da una corte israeliana.
L’operazione “Isotope” (o “Mabat”, in israeliano) rappresenta il primo intervento di salvataggio ostaggi mai effettuato a bordo di un aeromobile. Solo l’effetto sorpresa, la violenza e la velocità messe in campo nell’esecuzione dell’attacco, evitarono che l’ordigno esplosivo venisse raggiunto ed attivato dai membri del commando terrorista. Le lezioni apprese nel corso dell’operazione, sono ancora oggi analizzate dalle unità antiterrorismo di tutto il mondo, al fine di perfezionare le proprie procedure d’intervento a bordo degli aerei di linea dirottati. (qui)

Non c’è molto da aggiungere a questa dettagliata ed esauriente ricostruzione di una delle molte straordinarie imprese dei corpi speciali israeliani (e magari Israele non avesse bisogno di istruire corpi così straordinariamente speciali…). Quindi metterò solo un paio di postille.
La prima riguarda Reginald Levy, eccezionale pilota di quel drammatico volo: per tranquillizzare il più possibile i passeggeri, con incredibile sangue freddo, per tutto il tempo del volo li ha intrattenuti parlando ininterrottamente attraverso l’altoparlante su ogni sorta di argomenti, dalle informazioni sul volo alle barzellette spinte. Contemporaneamente, per mezzo di messaggi in codice, ha provveduto a informare Israele di ciò che stava accadendo.
La seconda riguarda la questione delle misure di sicurezza. In un suo articolo del 24 febbraio 2003 su WorldNetDaily Joseph Farah, giornalista arabo americano, scriveva:
When I fly to the Middle East, I often fly El Al. In fact, it is my preferred carrier. Why? Because it has great security. I know, because of my name and my Arabic ancestry, I’m going to have my bags searched more scrupulously than the average American. Do I mind? Absolutely not. In fact, I am grateful. Because I know these security people are not only protecting the other passengers, they are protecting me.” C’è chi ritiene più importante la (anche propria) sicurezza, e chi il piccolo fastidio di qualche controllo in più.
barbara