NEL REGNO DI UTOPIA

Quel meraviglioso mondo perfetto in cui siamo tutti uguali e tutti fratelli, in cui abbiamo cancellato frontiere e stati, eliminato paradiso e inferno, abolito le religioni, in cui non c’è niente per cui valga la pena di morire, vivendo unicamente per l’oggi… Da qualche parte tutto questo è già realtà.

Lorenzo Capellini Mion

Svezia, Absurdistan

Per il rapimento e la violenza carnale di due adolescenti, che secondo le forze dell’ordine sarebbero stati scelti a caso, sono stati arrestati due “pacifici” maschi adulti sulla ventina entrambi noti alla polizia e con una lunga lista di precedenti condanne penali.
Forse il rapimento, lo stupro e la tortura di due ragazzini troppo giovani per essere nominati, salvati da alcuni passanti che li hanno trovati nudi e seppelliti vivi in un cimitero di Solna, meriterebbe una riflessione. Invece nemmeno una riga.
È vietato parlare della certificazione del fallimento del multiculturalismo che ha distrutto la società svedese, è vietato persino esprimere solidarietà alle vittime offerte sull’altare del globalismo ideologico.
In questo mondo al contrario sembrano tutti troppo impegnati a difendere i violenti e gli stupratori, per loro ci si inginocchia e non si gioca a basket.
Intanto le pagine che rompono il silenzio vengono censurate o hanno le ore contate.
La guerra è pace.
La verità è odio.

La colonizzazione inversa della Francia

di Guy Millière
28 agosto 2020

Lione, la terza città più grande della Francia, 20 luglio, alle 3 del mattino. Un quartiere borghese. Una giovane donna cammina con il suo cane in una strada tranquilla. Un’auto arriva ad alta velocità e travolge il cane. Il conducente dell’autovettura si ferma, fa marcia indietro e travolge anche la giovane. L’uomo prosegue la folle corsa e trascina il suo cadavere per più di 800 metri. Le persone svegliate dal rumore annotano il numero di targa. Gli agenti di polizia accorsi sul posto sono inorriditi. Il corpo della giovane donna è stato smembrato. Una gamba è stata ritrovata su un lato della strada; il resto del corpo era a brandelli. Un braccio era vicino al corpo del cane. L’altro teneva ancora il guinzaglio dell’animale. Si chiamava Axelle Dorier. Era un’infermiera e aveva solo 23 anni.
Il Dipartimento di Giustizia francese ha chiesto alla polizia di non divulgare il nome dell’assassino. Un poliziotto anonimo lo ha comunque rivelato su un sito di social network. Il nome del killer è Youssef T. Guidava in stato di ebbrezza, senza patente. Il pubblico ministero lo ha accusato di “omicidio colposo”. È in prigione in attesa di processo. Rischia una pena massima di dieci anni. Gli abitanti di Lione volevano organizzare una marcia pacifica per rendere omaggio alla giovane infermiera. Hanno chiesto al governo di essere inflessibile nei confronti della criminalità. I parenti della giovane donna hanno disapprovato la marcia, affermando che “non nutrono odio” nei confronti dell’assassino.

Questo non è l’unico atto di barbarie perpetrato in Francia nel mese di luglio. Il 4 luglio, in una stradina di Lot-et-Garonne, nella parte sudoccidentale della Francia, una giovane gendarme, Mélanie Lemée, 25 anni, ha cercato di fermare Yassine E., un conducente di un’auto che andava a velocità eccessiva. L’uomo ha accelerato e l’ha intenzionalmente travolta. La giovane donna è morta sul colpo. Gli altri gendarmi accorsi sul posto hanno rintracciato rapidamente il conducente dell’auto. Un poliziotto ha fornito il suo nome a un giornalista: si chiama Yassine E. Anche lui guidava in stato di ebbrezza, senza patente. I familiari di Mélanie Lemée hanno acconsentito a una marcia pacifica, affermando però di “non nutrire odio” nei confronti dell’assassino. Hanno anche aggiunto di aver avuto compassione di lui, perché “la sua vita è distrutta”.

Un terzo atto barbarico è avvenuto il 5 luglio a Bayonne, una cittadina dei Paesi Baschi francesi. Un autista di un bus, Philippe Monguillot, 59 anni, si è rifiutato di consentire a due giovani di salire a bordo senza biglietto e senza mascherina. I due hanno iniziato a colpirlo con violenza, costringendolo a scendere dall’autobus. Altri due giovani si sono uniti agli aggressori e hanno cominciato a picchiarlo. L’uomo è stato lasciato coperto di sangue e agonizzante sul marciapiede. In ospedale, gli è stata diagnosticata la morte cerebrale. I familiari hanno detto che il suo viso era completamente distrutto. Due giorni dopo, l’uomo è morto. I quattro aggressori sono stati identificati e si trovano in prigione. I giornalisti conoscevano i loro nomi, ma hanno deciso di non pubblicarli. Agenti di polizia li hanno comunque resi noti. Si tratta di Mohamed C., Mohammed A., Moussa B. e Selim Z. È stata organizzata una marcia pacifica. La moglie di Philippe Monguillot ha affermato che la sua vita è distrutta e dubita che i tribunali faranno il loro lavoro.

Episodi di violenza altrettanto orribili, e sempre più numerosi, si verificano quotidianamente in Francia da anni. I perpetratori sono in genere giovani poco più che adolescenti o ventenni. Sono tutti immigrati dal mondo musulmano. Non sono islamisti e non hanno motivazioni politiche o religiose. Di solito, non mostrano segni di pentimento.
Vengono descritti dagli psichiatri che li esaminano come “individui che esercitano atti di violenza gratuita“: una violenza il cui unico scopo è quello di godere nell’infliggerla. Sembrano non avere alcun rispetto per la vita umana o per le leggi.
Maurice Berger, uno psichiatra incaricato di trattare giovani con questi problemi, ha di recente pubblicato un libroSur la violence gratuite en France (Sulla violenza gratuita in Francia). “La violenza gratuita”, scrive Berger, ora può scoppiare sempre, ovunque e può colpire chiunque. “In Francia,” egli osserva, “si registra un episodio di violenza gratuita ogni 44 secondi. (…) Ogni cittadino potrebbe doverla affrontare. Per non compromettere le possibilità di sopravvivenza, occorre sottomettersi, abbassare gli occhi, accettare l’umiliazione”.
A volte, come nel caso di Axelle Dorier, sottomettersi non è possibile: la giovane donna non aveva avuto alcun contatto con il suo assassino fino al momento in cui lui l’ha travolta con l’auto. Talvolta, se si è, ad esempio, un conducente di autobus o se si fa parte della polizia, questo tipo di professione non consente alcun tipo di sottomissione.
Ma i familiari delle vittime possono sottomettersi e spesso lo fanno, per poi essere sommersi da messaggi di congratulazione da parte delle autorità politiche e dei media. Alcuni giorni dopo l’attacco terroristico al Teatro Bataclan di Parigi, nel 2015, Antoine Leiris, marito di una donna orribilmente torturata e uccisa all’interno della sala concerti, ha postato su Facebook una lettera aperta ai terroristi, in cui l’uomo affermava di aver compreso le loro motivazioni e di non odiarli. Leiris ha aggiunto che non era arrabbiato e che doveva continuare a vivere la propria vita. La lettera è stata immediatamente condivisa da centinaia di migliaia di persone sui social media. Una casa editrice ha chiesto all’uomo di trasformare la missiva in un libro poi pubblicato col titolo Non avrete il mio odio, che è diventato subito un best-seller.

Le autorità giudiziarie abbassano lo sguardo e si sottomettono: è quello che fanno. Chiedere alla polizia e ai media di non rendere noti i nomi degli assassini è un tentativo di nascondere la verità e impedire all’opinione pubblica di sapere esattamente chi in Francia perpetra quegli atti. Nascondere il nome mostra un desiderio di rabbonire quei criminali: quando un assassino ha un nome, quel nome viene immediatamente sbattuto in prima pagina. Nascondere l’identità mostra di aver paura delle comunità a cui appartengono gli assassini e dei sentimenti di rabbia nel resto della popolazione francese.

Le autorità politiche si comportano allo stesso modo. Sanno che i voti dei musulmani contano più che mai. Commentando le uccisioni di Axelle Dorier, Mélanie Lemée e di Philippe Monguillot, il presidente Emmanuel Macron ha parlato di atti di “inciviltà” e ha definito “deplorevoli” questi episodi di violenza, per poi rapidamente passare a un altro argomento. Il neo-ministro della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, un avvocato, ha risposto a un giornalista che gli aveva chiesto cosa ne pensasse di chi invitava il governo a essere inflessibile nei confronti della criminalità dicendo che “la giustizia deve essere garante della pace sociale”. Il suo compito più importante in questo momento, egli ha aggiunto, è quello di garantire il rimpatrio in Francia dei jihadisti francesi imprigionati in Siria e in Iraq, “perché sono cittadini francesi ed è dovere della Francia assicurarsi che evitino la pena di morte”.
Soltanto Marine Le Pen, leader del Rassemblement National , è sembrata più ferma:

“Quale livello di barbarie dobbiamo raggiungere perché il popolo francese dica basta a questa crescente ferocia nella nostra società? Quanti poliziotti, gendarmi, conducenti di autobus, giovani donne e ragazzi massacrati ci vogliono?”

I media mainstream l’hanno immediatamente accusata di gettare benzina sul fuoco e di essere un’estremista irresponsabile.

“La Francia sta subendo una colonizzazione inversa” ,” ha commentato in televisione il giornalista Éric Zemmour.
“Le popolazioni provenienti principalmente da Paesi precedentemente colonizzati dalla Francia si sono stabilite in Francia senza alcuna intenzione di integrarsi. La maggior parte di loro vive in quartieri dove le leggi dell’Islam ora regnano e dove gli imam diffondono l’odio verso la Francia. I governi che si sono susseguiti hanno permesso a questi quartieri di crescere nella convinzione che l’odio contro la Francia e i francesi non sarebbe uscito da questi quartieri.
“L’odio per la Francia e per i francesi è venuto fuori e ha preso forma di rivolte e di terrorismo. Ora assume la forma di aggressioni e di omicidi: un’espressione generalizzata di odio verso la Francia e i francesi. E in un gesto di sottomissione, le autorità francesi affermano che l’odio non proviene da chi uccide, ma da chi vuole reagire e dice che bisogna porre fine alle aggressioni e agli omicidi. È un atteggiamento suicida.”
“La Francia è in una fase di coma e di morte avanzata”, ha detto in un’intervista lo scrittore e filosofo Michel Onfray. Il segno principale, egli ha affermato è stata la scomparsa del Cristianesimo, su cui si fondano i valori e l’etica che da secoli hanno pervaso il Paese. Onfray ha osservato che le chiese sono vuote, le cattedrali vengono bruciate e che è in atto la profanazione dei luoghi di culto cristiani, e si moltiplica di fronte all’indifferenza generale. “Il Cristianesimo sta svanendo rapidamente”, egli ha aggiunto. “Siamo in una civiltà esaurita. Amiamo solo ciò che ci odia, tutto ciò che ci distrugge è percepito come qualcosa di formidabile. Si vuole distruggere la verità, la storia”. Il filosofo ha rilevato la radice della distruzione: “Noi non insegniamo più la storia della Francia e non diciamo più ciò che la nostra civiltà ha realizzato. Parliamo solo della nostra civiltà per disprezzarla”.
Onfray ha arguito di non credere in un risveglio, ma di essere determinato a lottare sino alla fine: “Occorre resistere, opporsi”.
Negli ultimi anni, è aumentato il numero degli atti anti-ebraici perpetrati in Francia. Decine di migliaia di ebrei hanno lasciato il Paese, un’ondata migratoria che sta gradualmente svuotando la Francia della sua popolazione ebraica. Molti ebrei che ancora risiedono nel Paese hanno abbandonato le città e i quartieri in cui vivevano e si sono trasferiti in zone temporaneamente più sicure. Nelle no-go zones, i cristiani francesi vengono considerati infedeli dagli imam e sono anche facili prede di giovani uomini pervasi da sentimenti di odio per la Francia e per i francesi, giovani che non sono certamente dissuasi dall’atteggiamento sottomesso delle autorità.

Il 30 maggio scorso, a Parigi, si è tenuta una manifestazione di solidarietà a favore degli immigrati irregolari, provenienti principalmente dall’Africa del Nord e subsahariana. Sebbene la marcia fosse stata vietata dal governo, alla polizia è stato ordinato di non intervenire. Anche se tutti i manifestanti violavano la legge, ne sono stati fermati solo 92 – e poi rapidamente rilasciati. Due settimane dopo, sempre a Parigi, si è svolta un’altra manifestazione a sostegno della famiglia di Adama Traoré, un giovane di origine africana morto nel 2016 durante il suo movimentato arresto. Anche quella manifestazione è stata vietata dal governo e alla polizia è stato ordinato di non intervenire. “Morte alla Francia”, gridavano i manifestanti e, a volte, “Sporchi ebrei“. Ma né il governo né i media mainstream sono rimasti sconcertati. I giovani francesi appartenenti alla Génération Identitaire (Generazione identitaria), un movimento per la difesa della Francia e della civiltà occidentale, sono saliti su un tetto e hanno sventolato uno striscione con la scritta “Giustizia per le vittime del razzismo anti-bianco”. Un uomo si è arrampicato sul tetto dell’edificio con l’evidente intento di sollevare lo striscione. Durante le interviste trasmesse dalle emittenti televisive è stato descritto per giorni come un eroe della “lotta al fascismo”. Nel frattempo, i giovani francesi che mostravano lo striscione sono stati arrestati e accusati di “incitamento all’odio”.

Dal 16 al 18 giugno, a Digione (una città di 156 mila abitanti), capoluogo della Borgogna, la lotta tra bande ha visto contrapporsi una banda di trafficanti di droga ceceni e una di trafficanti arabi. Sono state utilizzate armi di tipo militare – questo accade in un Paese senza diritto costituzionale di portare armi. Il governo ha chiesto ancora una volta alla polizia di non intervenire. Il conflitto è stato alla fine risolto in una moschea, sotto la supervisione degli imam. La polizia ha chiesto agli abitanti di Digione di non uscire di casa e di fare molta attenzione sino alla fine di questa guerra tra bande. Sono stati effettuati alcuni arresti, ma solo dopo la fine degli scontri.

Il 26 luglio scorso, è stata organizzata una cerimonia a Saint-Étienne-du-Rouvray, un piccolo villaggio della Normandia dove, quattro anni fa, l’86enne don Jacques Hamel venne assassinato da due giovani islamisti mentre stava celebrando la Messa. Quest’anno, il ministro dell’Interno Gerard Darmanin ha pronunciato un discorso di condanna della “barbarie islamica”. “Uccidere un prete in chiesa”, egli ha affermato, “è tentare di assassinare una parte dell’anima nazionale”. Darmanin non ha però detto che al momento dell’omicidio la chiesa era semivuota, con solo quattro anziani fedeli che hanno assistito impotenti all’omicidio. Tuttavia, il ministro ha aggiunto di essere soddisfatto che i francesi non si siano arresi alla rabbia, scegliendo piuttosto la “pace”. (qui)

Ma anche nel momento in cui tutto fosse davvero perduto, rassegnarsi, rinunciare a lottare, sarebbe l’errore più grave.

barbara

LE TRE DOMANDE DA PORSI PER RESISTERE ALL’ISLAMIZZAZIONE

Domande che molti di noi, in effetti, si pongono; quelli che non se le pongono sono quelli che più dovrebbero farlo, ossia i nostri governanti.

È la punta dell’iceberg. A volte alcuni episodi diventano oggetto di attenzione mediatica. Sono, verosimilmente, spie di cambiamenti diffusi, molecolari, quotidiani, che tendiamo per lo più ad ignorare. Si prenda il caso dei responsabili dell’ospedale di Parma che trasferiscono un’anziana assistita dal nipote per darla vinta a una islamica che non accetta la presenza di un uomo nella stanza in cui è ricoverata. Oppure il caso di coloro che, a Savona, coprono una statua per compiacere un gruppo di musulmani che sta per riunirsi in una sala. Non si tratta di folklore, forme di stupidità fastidiose ma innocue. Anticipano scenari che, in capo a pochi anni, potrebbero diventare drammatici. Tre domande meritano di essere poste. La prima: il passaggio dalla multietnicità (uno stato di fatto, in sé neutro: né buono né cattivo) al multiculturalismo (una seria minaccia per la democrazia) è inevitabile? La seconda domanda è una articolazione della prima: è possibile difendere la società aperta, o libera, dall’azione di minoranze culturali che le sono ostili senza sopprimere, mentre si cerca di difenderla, la società libera medesima? La terza domanda è: sarà possibile convincere gli italiani ad affrontare senza isterismi antistranieri ma anche facendo il contrario di ciò che si è fatto a Parma o a Savona, il difficile problema della convivenza fra immigrati extraoccidentali e noialtri indigeni?
La multietnicità non è in linea di principio incompatibile con la democrazia. Guidata nel modo giusto può anche infonderle vitalità mettendo i suoi cittadini a contatto con esperienze che in precedenza non conoscevano. In ogni caso, gli ostili alla multietnicità devono darsi pace: una società che ha scelto di non fare più figli non ha altri canali per alimentare la propria forza-lavoro o per mantenere la sua crescente popolazione anziana. Ma se la multietnicità è o può essere un’opportunità, diventa una minaccia se gli indigeni sono così sprovveduti, stupidi o sbadati da accettare che su di essa cresca la mala pianta del multiculturalismo. Il multiculturalismo è una situazione nella quale, di diritto o di fatto (per l’affermazione di nuove usanze), si accetta che l’insieme dei cittadini venga segmentato, diviso lungo le barriere che separano le diverse tradizioni culturali. Si afferma una disparità di trattamento: per i diversi «segmenti» valgono regole diverse, coerenti con le rispettive usanze. La formale uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge viene dapprima neutralizzata di fatto e, in seguito, anche di diritto (in virtù di adeguamenti normativi alla situazione di fatto). Non è difficile ritrovarsi in un «incubo multiculturale». È sufficiente che nei vari luoghi — dagli ospedali alle scuole agli uffici pubblici e privati — le domande di trattamenti speciali, in deroga, da parte delle minoranze culturali vengano accolte, un giorno qua e il giorno dopo là: il trattamento speciale, una volta concesso, diventerebbe, dal punto di vista della minoranza, un diritto, e i tentativi di revocarlo incontrerebbero dure resistenze. Nascerebbero controversie giudiziarie e non è impossibile che esse sfocino in sentenze volte a riconoscere il suddetto diritto. Ed ecco la società multiculturale, la frantumazione della cittadinanza, la fine dell’uguaglianza formale di fronte alla legge, l’affermazione di diritti speciali e diversità di trattamento a seconda del gruppo culturale di appartenenza.
Chi crede che quanto sta accadendo oggi in Belgio non ci riguardi è un incosciente. Il partito islamico, che si presenterà alle prossime elezioni amministrative, punta ad introdurre formalmente (di fatto, nei quartieri islamici è già operante) la sharia, la legge islamica, cominciando simpaticamente dall’idea di mezzi pubblici di trasporto separati per uomini e donne. Fin qui ho parlato dei rischi del multiculturalismo ma gli esempi negativi che ho citato hanno tutti a che fare con la presenza islamica. Benché problemi di vario genere sorgano anche in rapporto alle attività di altre minoranze, è quella presenza all’origine delle difficoltà maggiori. Non sto alludendo al tema della radicalizzazione pro jihad di giovani islamici (un problema speciale all’interno di un problema più generale). Mi riferisco alla delicata questione della convivenza — impossibile per i pessimisti, comunque difficile per gli ottimisti — fra comunità islamiche e democrazia occidentale. Il problema, nella sua potenziale drammaticità, è semplice. La società libera si fonda sul principio della separazione fra politica e religione, fra economia e religione, eccetera. Ma nell’Islam queste separazioni non hanno senso. Il che spiega perché le moschee (a differenza delle chiese) non siano soltanto luoghi di culto. Ne deriva una tensione inevitabile fra società aperta e comunità islamiche. È plausibile, come molti pensano, che la compatibilità fra Islam europeo e società aperta si realizzerà solo se e quando, un giorno, le donne musulmane, influenzate dall’individualismo occidentale, riusciranno a imporre l’abbandono di vecchie regole e principi. Fino ad allora bisognerà stare in guardia, essere consapevoli che si sta maneggiando materiale radioattivo: non bisognerà cedere alle richieste degli (fin troppo visibili) esponenti fondamentalisti delle comunità islamiche, bisognerà favorire solo i musulmani che abbiano già maturato un atteggiamento favorevole per le libertà occidentali, non bisognerà permettere, per eccesso di zelo, deroghe alle regole della nostra convivenza quotidiana. Si riuscirà a «educare» gli italiani? Si riuscirà a impedire che per un misto di ignoranza, opportunismo e desiderio di quieto vivere, passo dopo passo, permettano l’affermazione di principi incompatibili con la democrazia occidentale? Serve una buona dose di ottimismo per crederlo.

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 23/04/2018

E ricordiamo: gli islamici si sono insediati in tutto il Medio Oriente e TUTTI i popoli invasi hanno perso la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri abiti tradizionali, i propri nomi e, più d’uno, la propria lingua. Si sono insediati in tutto il nord Africa e TUTTI i popoli invasi hanno perso la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri abiti tradizionali, i propri nomi e TUTTI, SENZA ECCEZIONE, la propria lingua. Ora si stanno insediando in Europa (sì, lo so, siamo paranoici. E xenofobi. E islamofobi e razzisti e fascisti e naturalmente sionisti, che come tutti sanno è peggio che ladro assassino stupratore pedofilo messi insieme).

barbara