PINKWASHING

Volantino fotografato a una fermata dell’autobus a Torino (grazie a “Baron Litron”).
LGBT
A parte i soliti deliri che non perdo neppure tempo a commentare, mi domando: se l’atteggiamento aperto di Israele nei confronti di omosessualità e dintorni – al punto che numerosi omosessuali di Gaza riparano in Israele per poter vivere tranquilli (o, meglio, per poter vivere, checché ne dica la signora Rula Jebreal – terzo video, ma guardatevi anche gli altri, che sono un autentico spasso), è pinkwashing per distrarre l’attenzione dai propri orrendissimi crimini contro i palestinesi, le fabbriche di Giudea e Samaria che impiegano personale per metà israeliano e per metà palestinese, stesso orario di lavoro, stesso trattamento, stessa paga, che cosa fanno, jobwashing? E la Corte Suprema che in caso di contenziosi fra palestinesi e stato di Israele, nove volte su dieci dà ragione ai palestinesi, non di rado addirittura a scapito della sicurezza dello stato, che cosa fa, justicewashing? E lo stato che permette di sedere in parlamento a deputati arabi che da quegli scranni invocano la distruzione di Israele, che cosa fa, lawwashing? E gli ospedali che curano non solo palestinesi in genere, ma addirittura terroristi palestinesi, addirittura i capi palestinesi, quelli che il terrorismo lo programmano e lo finanziano, che cosa fanno, healthwashing? Se il giochino vi piace così tanto, cari propallisti, perché non tirate fuori per una volta un po’ di fantasia e lo ampliate?
E mentre voi vi consumate nel vostro odio, sapete che cosa facciamo noi? Noi balliamo!

Perché noi, qualunque cosa tentiate di farci, non smetteremo di danzare, non smetteremo mai. Mettetevelo in testa e fatevene una ragione.

barbara

MARK SPITZ

Mark Spitz 1
A chi non è sopra i cinquant’anni, difficilmente il suo nome dirà molto. E se, per riempire la lacuna, andate in Google, leggerete che è un ex nuotatore e che “Benché avesse solo ventidue anni, Spitz abbandonò il nuoto dopo i Giochi di Monaco”. Ecco, no, non è così, non è esattamente così che sono andate le cose. Mark Spitz non ha abbandonato il nuoto DOPO, le Olimpiadi di Monaco: lo ha abbandonato DURANTE le Olimpiadi di Monaco. Nel senso che ha proprio abbandonato le olimpiadi: anche se era solo ebreo, e non israeliano, non sapendo all’inizio se l’attacco si sarebbe esteso anche agli altri ebrei, è stato imbarcato in fretta e furia sul primo aereo e rispedito negli Stati Uniti. Suppongo che sia stato il trauma subito
atleti
a fargli lasciare per sempre il nuoto all’apice della gloria, proprio nel momento in cui era in assoluto il più grande nuotatore del mondo.


La leggenda vuole che lo abbia fatto perché, “avendo vinto tutto ciò che si poteva vincere, non gli era rimasto più niente per cui combattere”. Leggenda, appunto. Tanto più che a Monaco mancava ancora una gara da disputare, e da vincere.
Quanto alle olimpiadi maledette – nel senso di maledetti terroristi palestinesi (ma almeno quelli il Santo Mossad ha provveduto a sistemarli), maledetta polizia tedesca che ha rifiutato l’aiuto offerto da Israele, provocando il macello che ha provocato, maledetto comitato olimpico che ha fatto proseguire i giochi, maledetti tutti coloro che hanno continuato a guardarle e fare il tifo e divertirsi come se quella in corso fosse ancora una competizione sportiva – se ne è parlato in questo blog qui e qui, e ci si è indignati qui, e poi bisogna assolutamente rileggere questo, perché le cose che trovate qui non le avete mai lette in nessun giornale. Adesso finalmente, dopo quarantaquattro anni, l’infaticabile lotta delle due vedove Ilana Romano e Ankie Spitzer
ilana-romano-e-ankie-spitzer
contro il silenzio, contro il rifiuto, contro l’ipocrisia, contro l’ignobile CIO, è arrivata (e chissà che, nel nostro piccolo, non siamo riusciti anche noi a portare la nostra microscopica gocciolina d’acqua) la vittoria: è stato inaugurato al villaggio olimpico il memoriale per le vittime della strage.
memorial 1


Ah, Mark Spitz, dicevo: gran bell’uomo anche da vecchio.
Mark Spitz 3
barbara

 

LA NUOVA, STESSA SHOAH

(Traduzione dall’inglese di Giovanni Quer)

http://www.israelnationalnews.com/Articles/Article.aspx/11537

Dopo il Giorno della Shoah (la giornata della memoria israeliana), Israele celebra Yom ha-Zikaron, la giornata del ricordo dei soldati caduti in guerra e delle vittime del terrorismo, e Yom ha-Atzmaut, la giornata dell’indipendenza.
Ho deciso di scrivere un articolo da un punto di vista personale e lo ritengo necessario a fronte dell’ipocrisia nei dibattiti israeliani sull’uso del termine Shoah in riferimento all’Iran.
Non perché sia impedito ai primi ministri far riferimento ai sei milioni di morti nel commentare le nuove minacce dirette al popolo ebraico; così la pensano ormai solo i deboli e gli ingenui. Ritengo necessario parlarne perché in realtà una mini-Shoah è già accaduta, ma la comunità israeliana si è categoricamente rifiutata di definirla così.
Solo la nuova Shoah che in realtà è già accaduta può aiutarci a capire le probabilità che un’ulteriore Shoah si abbatta sul popolo ebraico.
Per sei anni ho rintracciato e intervistato i testimoni israeliani delle atrocità del terrorismo, le famiglie delle vittime e i sopravvissuti. È stato un lavoro che è durato sei anni, portato avanti con determinazione, in solitudine e, oso aggiungere, con accanito impegno morale.
Il frutto di questo lavoro è il mio libro “Non smetteremo di danzare: le storie mai raccontate dei martiri di Israele“.
Quando ho incominciato a lavorare a questo progetto sapevo che sarebbe stato quasi impossibile per i sopravvissuti raccontare le storie in prima persona. La loro testimonianza è una sorta di conoscenza periferica, tenuta nell’ombra, ma che avrebbe potuto esser portata alla luce al momento opportuno. Testimonianza dopo testimonianza mi avvicinavo a comprendere la verità e cresceva in me il senso del passato che esiste dentro al presente.
Non ho scritto “Non smetteremo di danzare” come una raccolta di documenti d’archivio, bensì come denuncia di una piccola Shoah: una Shoah non di milioni di ebrei uccisi solo perché erano ebrei che vivevano in Europa, ma una nuova Shoah di due mila ebrei uccisi solo perché erano ebrei che vivevano in Israele.
È un immenso buco nero che in quindici anni ha inghiottito 1.557 vittime innocenti, lasciando 17.000 feriti: uomini, donne e bambini. In termini di percentuale di popolazione, per avere eguali proporzioni alle vittime israeliane del terrorismo arabo, ci vorrebbero 53.756 americani morti e 664.133 feriti. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, attacco dopo attacco.
Mentre i media erano occupati a denunciare Israele, i terroristi suicidi palestinesi continuavano ad imperversare nelle strade delle città israeliane. Nessun luogo è stato in quel periodo completamente al sicuro, anche se alcune città sono state colpite più di altre.
Gerusalemme ha avuto il numero più alto di attentati suicidi; le comunità ebraiche di Giudea e Samaria erano sotto attacco quotidiano; gli insediamenti a ridosso del confine pre-1967 hanno sofferto innumerevoli attacchi; le città marine di Haifa e Tel-Aviv, Hadera e Netanya sono saltate tutte in aria.
C’è stato un tempo in cui l’Aeroporto Ben Gurion aveva più agenti di sicurezza che viaggiatori. Ai pochi che si avventuravano in quel periodo in Israele, ed io ero uno di loro, arrivato nel 2003 a girare un documentario sull’Intifada, il Paese di presentava come uno spettacolo surreale.
C’erano pochi danni visibili. Subito dopo un attacco, squadre di volontari specializzati e medici raggruppavano i morti, si prendevano cura dei feriti e letteralmente raschiavano i resti umani prima di metterli in borse di plastica.
Il personale delle municipalità si affrettava quindi a riparare i danni strutturali. Era solo questione di ore prima che la vita tornasse a scorrere “normalmente”, indipendentemente dalla brutalità dell’attacco o dal numero di vittime.
Il bisogno divorante di normalità di Israele si è manifestato in maniera inusuale qualche settimana fa, durante il decimo anniversario dall’inizio della Seconda Intifada.
Sorprendentemente, solo pochi articoli nei media israeliani si sono occupati del trauma decennale e delle vittime israeliane. Anche il silenzio degli scrittori ebrei, che dura da tempo, è stato sconcertante.
Perché ho deciso di usare il termine Shoah, che è un unicum nella storia dell’umanità, stando attento a non fare fallaci comparazioni?
Ciò che è successo a Israele, stretto dalla morsa del terrorismo, è uno specifico processo distruttivo. Le famiglie e le storie raccontate nel libro sono come un coro greco che esercita un potere quasi ipnotico, cantando un inno alla vita che si erge sopra l’esperienza della morte.
La parola “olocausto”, dalle connotazioni sacrificali, sarebbe stata inammissibile. “Shoah” è una parola che collega, almeno secondo me, la generazione dello sterminio agli israeliani sterminati nella loro terra. Per questo ho scelto “Una nuova Shoah” come titolo all’edizione inglese di “Continueremo a danzare”, perché il libro contiene un lamento funerario al più tragico passato, reso di nuovo presente. Volevo mostrare il carattere assoluto della tragedia ebraica. Volevo mostrare come gli ebrei siano stati vittimizzati e abbandonati dal mondo, oggi come allora. Le loro testimonianze, le loro lacrime, le loro emozioni sono più autentiche di molti documenti storici.
Sapevo che avrei pagato un prezzo molto alto per un libro simile.
Parlare oggi in tono amichevole di Israele, soprattutto in ambito giornalistico e accademico, significa rischiare una violenta reazione di condanna.
Le porte spesso si chiudono agli autori che rifiutano le bugie e rinnegano l’odio per Israele.
Ho deciso di mettere le vittime israeliane al centro di due storie, diverse e straordinarie: la grande storia delle loro società originarie (Europa, Nord Africa, Yemen, Russia e America), e la piccola storia che hanno scritto esse stesse venendo in Israele. La storia dei pionieri, la storia di dottori che curavano gli arabi prima di essere uccisi, la storia di soldati e professori, di laici e religiosi, insomma la storia dell’umanità di un piccolo Paese che ha una sola, imperdonabile, colpa: sopravvivere.
Non è un “libro israeliano”, perché lancio anche la sfida a considerare la realtà in un contesto nuovo e poco famigliare, dove il trionfalismo sionista si coniuga con una vulnerabilità inerente. Un popolo invincibile esprime sconcerto nel vedere il mondo che lo isola e aumenta le sue ferite. È il solito martirio del popolo ebraico, che invece di fucilazioni di massa e camere a gas da parte dei nazisti, deve ora affrontare un continuo, costante e cadenzato assassinio organizzato dai terroristi e presto dalla bomba nucleare dell’Iran.
I terroristi non puntano esplosivi, pistole e razzi contro obiettivi militari o soldati armati bensì contro una pizzeria, una discoteca, uno scuolabus, un ristorante, un hotel, una stazione ferroviaria e in ogni altro luogo dove ci siano ebrei da sterminare.
Civili come il padre, la madre, il fratello e il nonno di Menashe Gavish che ha perso i propri cari in una notte di terrore a Elon Moreh.
Civili come la quindicenne Malka Roth, che stava solo mangiando una pizza con un’amica, Michal Raziel prima di andare a casa, a Gerusalemme.
Civili come Gabi Ladowski, studente all’Università Ebraica di Gerusalemme. Civili come Yanay Weiss, che stava suonando la chitarra in un bar di Tel-Aviv giusto dietro il consolato USA. La settimana prossima ci sarà la commemorazione della sua morte.
Queste famiglie sono un esempio morale per il mondo intero. Ho descritto la bellezza delle loro vite per rendere l’insopportabile – sopportabile. Offro questo libro, opera di amore e lacrime, come un canto in memoria degli ebrei martiri. Ho tentato di onorarli con le parole di Simone Weil che ha scritto: “Se dovremo perire, prospettiva sempre più possibile, facciamo in modo di non perire senza esser esistiti”.
Non si può scrivere un libro come questo senza esser condannati alla solitudine. Più mi sono impegnato, più son diventato solo. Ma per dare al mondo un libro di questo tipo, uno scrittore deve amare profondamente la vita. Ed io amo la vita e la amo ancora di più dopo esser stato vicino a quelle famiglie e a quei testimoni. (Informazione Corretta)
Giulio Meotti

E nonostante l’odio e nonostante l’impegno e nonostante gli innumerevoli tentativi di annientarlo, AM ISRAEL CHAI, il popolo d’Israele vive.

barbara

DIALOGO CON GIULIO MEOTTI

Questo articolo è di un po’ più di due anni fa. L’avevo messo da parte perché ero certa che sarebbe arrivato il momento giusto per riproporlo. Ora il momento è arrivato.

Gerusalemme, la danza degli amputati

di Guido Ceronetti

CERONETTI: «Caro Giulio Meotti, si fanno libri di attualità politica in quantità insensata, e per fortuna, dopo l’immancabile Dibattito, il Buco Nero li risucchia e amen. Ma il tuo libro-inchiesta su «Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele», i morti e i sopravvissuti del terrorismo islamo-palestinese, merita lunga vita e ritorni di attenzione: lo trovo un contributo importante, decisivo, alla verità, o non saremmo qui a parlarne, ad approfondirne un poco il rovente contenuto. Una verità appassionata che si fonda su eventi contemporanei dove ricompare un travolgente enigma metafisico: il destino di Israele. Un sangue su pavimenti e asfalti versato appena ieri, che il pensiero data plurimillenario, e teme di non poter escludere futuro. La danza di cui il tuo titolo parla è una danza di amputati.
«Dimmi come ti è nato questo libro di testimonianze».

MEOTTI: «Sei anni fa, mi trovavo a Haifa, per documentarmi, sulla seconda Intifada: Haifa, città tradizionalmente di reciproca tolleranza tra arabi ed ebrei… E quel giorno in un ristorante di proprietà palestinese una donna, alla fine del pasto, si alza e si fa esplodere, uccidendo venti persone, arabi ed ebrei. Di queste vittime sulla stampa estera non comparve nessuna descrizione – né un nome, né una storia. L’assassina suicida mirava a distruggere quel convivere pacifico degli uni e degli altri. Tra le famiglie massacrate ci fu anche il figlio, arabo, del proprietario. Compresi allora che dovevo raccontare la storia dei morti dimenticati di Israele.
«La mia inchiesta durò cinque anni: tratta di circa 1800 israeliani morti e di 10.000 feriti, una strage enorme, proporzionalmente agli abitanti di Israele, di cui nessuna delle molte guerre è costata tanto. Il libro parte dalla distruzione della squadra olimpica a Monaco nel 1972 e termina con la rievocazione delle Torri Gemelle e qualche storia dei meravigliosi shomrìm, i vigilantes, e altri impensati eroi che fermano i terroristi col loro corpo, sbriciolandosi con loro, salvando vite».

CERONETTI: «C’è da domandarsi: dopo, davvero, “Dio riconoscerà i suoi”? Delle giornate olimpiche del 1972 conservo un ricordo dei più vivi, le abbiamo vissute a Roma, mia moglie Erica, e io, con indicibile spasimo. Speravamo che Willy Brandt e la nuova Germania avrebbero compiuto il miracolo di salvare la squadra: rimandando l’attacco, la strage fu inevitabile. Resta l’immensa vergogna di non aver fermato i giochi. E qui non si può dimenticare l’articolo del giornale vaticano, compunto a raccomandare di continuare i giochi, altrimenti… pensa un po’!… i terroristi l’avrebbero avuta vinta… (Dicono che il papa Montini non si perdesse una gara). La teoria di non fermare tutto per non “far vincere i terroristi” prevalse facilmente: così il male ebbe la sua infame corona. Hai fatto il libro tutto da solo?
«E alle famiglie come ti presentavi? Come sei stato accolto?».

MEOTTI: «Sì, tutto da solo. Nessuno mi ha aiutato, eccetto, si capisce, i famigliari delle vittime. E dato il silenzio, l’apartheid intellettuale e politica che isola oggi Israele, tutti gli interrogati capivano l’importanza di un simile lavoro. Un giornalista non ebreo, di un paese dove prevale sulla stampa un’informazione più o meno sfavorevole allo Stato ebraico, era là per interrogarli umanamente, non per fini politici, sul loro dolore. I soli che hanno rifiutato la mia richiesta sono stati gli ultraortodossi, chiusi nel loro ghetto e nella loro estraneità all’Erez, in attesa di Qualcuno che sempre sta venendo e che non verrà. Anche i coloni oltranzisti, che hanno pagato un tributo di sangue altissimo, gente che non abbandona mai il fucile, perché il loro vivere è un perpetuo rischio, tutti mi hanno parlato… Così è nato questo libro, che non rifà la storia del conflitto, che cerca soltanto di raccontare il martirio ebraico, mezzo secolo dopo la fine della Shoah, negli ultimi anni del XX secolo e nel primo decennio del XXI…
«Spero che molti miei lettori siano toccati da fremiti e lacrime dov’è rievocata la strage degli otto giovani seminaristi della yeshivah di Merkaz Harav, la scuola dei talmudisti (le loro belle facce e i loro nomi, così vicini ai personaggi di un Isaac Singer, sono a p. 320)… Merkaz Harav, cuore spirituale della nazione, dov’è accesa giorno e notte, inestinguibile, la lampada della Torah… E se pensiamo che il terrorista autore dello scempio era un palestinese israeliano perfettamente integrato, che godeva di piena fiducia, che guidava gli scuolabus – ma nascondeva il seme dell’odio, la bramosia di un raccapricciante martirio… Nella scuola si festeggiava il mese lunare di Adar, l’avvicinarsi della primavera, quando irruppe quell’orrenda pianta del male…».

CERONETTI: «È vano darsi spiegazioni politiche: atti simili sono male-per-il-male. Hai fatto bene a non trascurare mai i nomi, le identità, le genealogie, il principium individuationis, perché il terrorismo vuole l’opposto: la perdita del volto, la distruzione della persona morale, lo spegnimento della nazione nei figli macellati, rendere “la Mano e il Nome” irriconoscibili… Così anche altrove: in ogni popolo preso di mira si vede l’azione di una volontà di annientare l’uomo. Ma in Israele anche da una dentiera sbriciolata sull’asfalto traggono la voce di un nome, come tu dici. Immagino però che la situazione psichiatrica sia delle più amare».

MEOTTI: «Dietro tanto amore per la vita e tante prove di coraggio senza limiti, c’è una società di anime morte: là, nelle pieghe dell’anima, è impressa la VU spaventosa di vittoria del terrorismo suicida. Andare in cerca di un bottone, di una traccia di tuo figlio, trovarli sotto la testa (che di solito rimane intatta) di chi ha compiuto il massacro, che cosa produrrà in un povero cervello umano? Il sonno naturale è utopistico, in Israele. A Sderot, nella Striscia, dove a centinaia sono caduti i missili di Hamas, ci sono generazioni invalide nell’anima, molti bambini in regressione psichica. Il piano terrorista mira a creare una società di questo tipo. Atlete amputate nelle gambe, giovani musicisti promettenti accecati; nelle città colpite un abitante su due ha disturbi psichici, i soldati stessi sono avvolti nelle depressioni, come reggere a una guerra che non ha fronti, che non ha fine?
«Ad Ashkelon ho parlato con una ginecologa, ferita da schegge di missile mentre era con una paziente. Una scheggia nella spina dorsale l’ha paralizzata per sempre. Se vai nelle case dei superstiti, dei feriti, dei mutilati, il martirologio di Israele lo tocchi con mano – là, un popolo invincibile confessa il suo smarrimento, la sua sfinitezza muta. Neppure la Shoah ha prodotto simili piaghe. E sempre quello sforzo intenso, spossante, per ricordare “quel che ti ha fatto Amalèk”. Il mondo che ormai apertamente detesta Israele ne ravviva, ne allarga le ferite. Perciò ho ritenuto necessario scrivere questo racconto sui morti d’Israele. Non sanno che farsene, loro, dei nostri coccodrilli!».

CERONETTI: «Permettimi di chiudere questa nostra intervista con un verso di Giorgio Seferis: “Dove c’è umanità c’è dolore. / Ma non è il fine dell’uomo / Essere solo dolore”».
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Giulio Meotti è autore del libro Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele (ed. Lindau, pp. 353, € 24)

(La Stampa, 17 dicembre 2009)

La mano e il nome. Ricordiamoli, dunque, i nomi degli ultimi martiri:

Jonathan Sandler
Arieh Sandler
Gabriel Sandler
Myriam Monsonego

E ricordiamo i loro volti:

Martiri che a quanto pare, con l’evolversi delle indagini, sembrano proprio anch’essi vittime di quella “religione” di morte che ordina, nel proprio libro sacro, di sterminare tutti gli infedeli. Cominciando dagli ebrei.

barbara