24 DICEMBRE 1977

Molti siti riferiscono il 25, ma non è vero: se fosse stato il 25 non avrei passato il pomeriggio in centro a fare spese. Altri più correttamente dicono “la notte di Natale”, che va già meglio, anche se neppure questo è del tutto preciso. In centro a fare spese, dicevo. E quando sono arrivata a casa ho trovato i miei genitori vestiti e pronti a uscire: aveva chiamato mia zia, la prima ad essere avvertita, per dire che la nonna stava molto male. Ci siamo precipitati all’ospedale, ma siamo arrivati troppo tardi.
Di ritorno a casa, abbiamo sentito al telegiornale che era morto anche lui, e poi hanno dato Luci della ribalta. Anni dopo, quando vendevano le videocassette insieme ai giornali, l’ho presa, ma ci ho messo quindici anni prima di riuscire a guardarla. E ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo, quelle cinque note sono sufficienti a trasformarmi in una fontana.
Un piccolo omaggio a lui (i primi due sembrano uguali ma non lo sono, fidatevi), e un pensiero a quella grande, coraggiosa e straordinaria donna che è stata mia nonna.

barbara

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN ESTERNO

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Padova, 1941. Mia nonna con figlia secondogenita (quattordicenne) e figlio ultimogenito (il quinto) – in braccio, perché le carrozzine le avevano solo i ricchi. Neanche io ho mai avuto una carrozzina. Le gambe belle, come si può constatare, sono da sempre una caratteristica di famiglia.
Shabbat shalom.

barbara

CHISSÀ DOV’È

L’inizio del libro appena recensito mi ha fatto ricordare un’altra storia, molto vicina a me, che avevo postato nel primo blog, circa otto anni fa, e sono andata a ripescarla. Eccola.

Lo sapeva, naturalmente, che avrebbe scatenato un finimondo, ma non era certo cosa che potesse preoccuparla. Così quando mia nonna, esterrefatta, strillò: «E quello …?» rispose, molto tranquillamente: «L’ho trovata». «Trovata?» «Trovata». «Come trovata?» «È di una ragazza. Era disperata, non sapeva cosa fare». «E lei se l’è portata a casa?» «E cosa dovevo fare? Lasciare che si buttasse nel fiume, lei e la bambina?» «E cosa ne facciamo?» «La teniamo: cos’altro dovremmo fare? Ne ho tirati su quattordici, posso tirare su anche la quindicesima». «Ma se non abbiamo da mangiare neanche per noi!» «Appunto: se siamo capaci di fare la fame in otto, possiamo farla anche in nove». E il discorso si chiuse lì: inutile provare a discutere con la suocera. Una suocera che a vent’anni se n’era andata in cerca di lavoro ed era tornata qualche anno dopo, a inizio secolo, con un figlio, e a chi azzardava commenti o insinuazioni rispondeva a muso duro: «Mì me’o gò fato, mì me’o mantegno, e vialtri feve i cassi vostri». E la bambina rimase. La madre, senza più il peso di lei, trovò un lavoro. Quando poteva andava a trovarla, quando poteva dava qualche soldo. Qualche tempo dopo trovò un brav’uomo che la sposò e riconobbe la bambina come sua figlia. Andarono a prendersela, e fu quasi un lutto per tutta la famiglia, che le si era affezionata. Passarono due anni. Una sera sentirono bussare: era il brav’uomo, con la bambina in braccio. La madre era morta, spiegò, lui lavorava tutto il giorno: potevano prendersene di nuovo cura loro? Avrebbe pagato per il mantenimento, naturalmente. Non per il disturbo, quello non poteva, era un pover’uomo anche lui, ma per il mantenimento sì. E la bambina tornò a far parte della famiglia: nove persone in due stanze, col gabinetto in cortile, ma ce n’erano tanti, a quei tempi, a vivere così e anche peggio. Ogni domenica lui tornava, portava i soldi e coccolava la bambina. Finché un giorno tornarono in due: aveva trovato una nuova moglie, disposta a prendersi cura della bambina, e quindi erano venuti a prenderla per portarsela a casa. Piansero, tutti e otto. Lo supplicarono di lasciargliela. Erano disposti a tenerla anche gratis, ma lui fu irremovibile: «Per me lei è mia figlia. Lei sta con me». Non la rividero più. Sono passati più di sessant’anni, e ancora, ogni tanto, sorprendo mia madre a fissare nel vuoto, sospirare e mormorare: «Chissà dov’è …».

barbara