LE OLIMPIADI DI MONACO VISTE DAL DI DENTRO

È un libro autobiografico, narrato in terza persona, di un giornalista e scrittore svedese trovatosi ad assistere alle Olimpiadi del ’72, che sto leggendo in questo momento; proprio ieri ho letto il capitolo relativo alla vicenda, e ritengo interessante proporlo.

È come dovrebbe essere, fino alla mattina in cui tutto diventa come non avrebbe mai dovuto essere.
Ricorda il momento preciso.
È mattina presto in sala stampa, l’incomparabile Mark Spitz mostrerà al mondo le sue sette medaglie d’oro, ma è in ritardo e il capo ufficio stampa, Klein, annuncia invece nel suo solito modo estremamente corretto e distinto che quella mattina presto, dieser frühe Morgen, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo; anche se utilizza parole diverse: che un gruppo di terroristi, verosimilmente arabi, si è introdotto negli alloggi israeliani, uccidendo un partecipante e prendendo gli altri in ostaggio. Il gruppo in seguito avrà un nome, Settembre Nero, e pretenderà la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi.
Poi, dopo una mezz’ora di attesa, viene fatto entrare Mark Spitz, pallido come un morto e con lo sguardo assente. Gli fanno domande a cui risponde a malapena. Poi iniziano le trenta ore di caccia.
Ha sempre sognato di trovarsi al centro quando la storia cambia direzione. Ma al centro, se per caso ci si ritrova davvero, è difficile vedere. In ogni caso vedere nel futuro: che le Olimpiadi di Monaco avrebbero segnato l’inizio di una nuova forma di guerra, basata non su eserciti che si affrontano in campo aperto per annientarsi a vicenda, ma sulla lotta tra eserciti invincibili ma impotenti e terroristi nei loro covi inaccessibili. Questo nessuno era in grado di vederlo.
Ma è quello che è successo. Il centro è un punto sopravvalutato.
Diciassette anni dopo si troverà a Praga nel novembre del 1989, nella notte in cui cade il muro e centinaia di migliaia di persone affollano piazza Venceslao, ma non capisce niente, si trova così vicino al centro che la folla oscura la storia, e vorrebbe più che altro dormire. Anche adesso non capisce niente, può solo provare dolore. Era tutto così divertente. Scriveva così bene. Si muoveva così facilmente, senza la minima stanchezza; aveva sognato di assistere a quei giochi sportivi per tutta la vita, di guardare e scrivere. Adesso solo dolore.
Si rende conto che quello che era il tema principale de Il secondo, il ruolo della politica nello sport, sarà spietatamente confermato.

Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto saperlo, era lui.
A Monaco si costruisce un palcoscenico fantastico. Il mondo intero ammira quello spettacolo, sono tutti lì. La scena è illuminata, le telecamere puntate, la stampa mondiale si dispone sugli spalti. Si annunciano dei giochi che parleranno solo di sport. Per due settimane la realtà se ne starà fuori.
Ci si sbagliava. Quel teatro e quel palcoscenico sono troppo ben illuminati, quell’attenzione troppo intensa e allettante. Dato che tutto il mondo guarda quel palcoscenico, sono in molti a volerci salire, attori freddi come il ghiaccio con scopi ben diversi dallo sport. E infatti arrivano. Saltano sul palco e mettono in scena un gioco che parla del mondo fuori. Uomini mascherati di nero saltano su, inscenano un dramma chiamato il Conflitto palestinese.
A posteriori, era così facile da capire. La politica avrebbe fatto un solo boccone di quello spettacolo sportivo, e il gioco sarebbe finito. Cosa aveva detto la signora Meckel? Non aveva forse pregato il Salvatore Gesù Cristo di risparmiarlo dal veleno della politica?
Si domanda cosa starà pensando adesso.

La sala stampa dei giochi di Monaco, che veniva chiamata la Fossa, diventa il centro del mondo.
Per chi scriveva, la Fossa era il cuore stesso dei giochi: un’enorme buca imbottita al centro dell’edificio, piena di poltrone in pelle e tavolini bassi, con centinaia di monitor che in ogni istante trasmettevano lo spettacolo molteplice delle varie arene. Ci si poteva nascondere lì dentro, senza mai mettere piede negli stadi, ma quella frühe Morgen all’improvviso la Fossa sembrava logora, quasi sudicia. Normalmente non era popolata solo da quelli che scrivevano, ma anche dalle hostess incredibilmente belle e vestite di azzurro, il cui compito era assistere, guidare, sorridere e rispondere alle domande; si diceva che fossero cinquemila. Aveva notato che all’inizio dei giochi apparivano non solo belle e gentili ma anche quasi asetticamente irraggiungibili, plastificate, quasi divine.
Poi in un certo senso persero la loro freschezza.
Quelle con cui parla il giorno dell’inaugurazione, due settimane dopo non sono più le stesse: hanno qualcosa di rassegnato. Le Campanule, come venivano chiamate, verso la fine sono molto stanche, quasi implorano un po’ di contatto. Non sono più distanti, ma esauste; all’inizio consapevoli della loro incredibile bellezza, a mano a mano che passano i giorni e le settimane sembrano stancarsi dei giochi olimpici e della troppa birra, ne hanno abbastanza della Fossa e dei monitor, ingrassano quasi impercettibilmente, vogliono attaccare discorso su qualunque argomento tranne lo sport, qualsiasi cosa, e alla fine, fumando disperate in cerca di contatto per rompere la noia, non vedono l’ora che i giochi finiscano, per liberarsi dalla prigione dei media e riprendere i loro ruoli naturali in tutta libertà.
Qualunque questi siano. Supplente a Enköping, o regina di Svezia.
C’è qualcosa nell’appassire delle Campanule che lo tormenta in modo confuso. È forse al romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, che pensa, il romanzo sul ritratto che invecchia, mentre il modello umano resta per sempre giovane?
Sta osservando il suo stesso ritratto?
E poi le Olimpiadi di Monaco del 1972 esplodono.

Le settimane prima dell’esplosione sono meravigliose. Scriverà un reportage sulle Olimpiadi, ma si rende conto di avere le sue debolezze.
È un osservatore timido. Alto e silenzioso, passeggia e osserva. È quello il suo metodo.
Un pino ambulante.
Nelle ore successive all’annuncio del rapimento, va a cercare alcuni amici della delegazione svedese al villaggio olimpico. È ancora possibile muoversi quasi liberamente. Per il momento niente sbarramenti attorno al villaggio e agli ostaggi, sempre che si riesca a sbarrare un posto del genere. Il villaggio è un formicaio, con innumerevoli corridoi e passaggi sotterranei, non sorvegliati. Quei giochi dovevano essere caratterizzati dalla gioia, die Heiterkeit, non dalla disciplina tedesca e dai controlli militari. Le Olimpiadi di Monaco avrebbero dovuto lavare via la germanicità dalla storia.
I dodici anni sotto Hitler sarebbero stati cancellati.
Se ne è reso conto e gli ha fatto piacere, fino al momento in cui, come tutti gli altri amanti dell’homo ludens, sarà colpito dalle conseguenze sotto forma di morte violenta. Tutte le regole di sicurezza erano state adattate a quell’ideologia della gioia, era possibile muoversi liberamente, quasi senza ostacoli, cosa di cui si erano accorti anche i terroristi, che perciò erano riusciti a entrare senza difficoltà negli alloggi israeliani.
Era quello dunque il centro della storia?
Gli danno una dritta su come arrivare agli alloggi israeliani, attraverso un corridoio sotterraneo. Scende dunque sottoterra come un Dante accreditato, per raggiungere il seminterrato degli alloggi israeliani, che funge anche da parcheggio per gli atleti canadesi.
Ha in mente di liberarli? No, vuole solo arrivare fino a lì e avere conferma della correttezza del suo metodo di lavoro, l’innocenza osservatrice.

Quando scrive di sport, non sa bene qual è il suo ruolo. È quello dell’Investigatore, come quando lavorava ai Legionari, o quello del bambino che al riparo della siepe di rosa canina sentiva i rumori delle partite dei Komet?
Quattordici anni dopo, nel 1986, si troverà in Messico per i Mondiali di calcio; ricopre ancora il ruolo di pino ambulante, molto alto ma silenzioso, a parte il fatto che durante le sue goffe passeggiate vede cose che nessun altro nota.
Ai mondiali del Messico ’86, tutto è accuratamente sorvegliato da migliaia di soldati. Nessuna traccia di Heiterkeit. Ci si aspetta che assista alla partita tra Uruguay e Germania dalla tribuna stampa. Arrivato davanti allo stadio, tra file e file di militari pesantemente armati che devono impedire qualsiasi dimostrazione, vede una troupe televisiva tedesca che, trascinando cavi e telecamere, viene fatta passare tra le truppe in tenuta antisommossa. Un lungo cavo penzola a terra: armato di buona volontà, lo solleva e in quel modo segue la zdf nei meandri della cittadella ben sorvegliata, reggendo passivamente l’estremità di un cavo.
La troupe si piazza dietro una delle porte, a pochi metri dalla linea di fondo. Si siede sull’erba e osserva pensosamente il primo tempo e il lavoro del portiere uruguayano. Una volta dopo l’altra, i bufali tedeschi si lanciano su di lui a folle velocità, facendo rintronare il terreno; dato che ricorda i suoi contributi da portiere nel Bureå if, e la sua codardia quando arrivavano i bufali, prova una profonda empatia. Da quella prospettiva, che non è quella della tribuna alta, la stessa dello spettatore televisivo, la logica del gioco si trasforma. La profondità di visione si riduce, le superfici libere si nascondono e spariscono. Ammira i giocatori che nonostante la prospettiva orizzontale riescono a vedere le superfici, ad agire secondo la prospettiva rialzata della tribuna. Ma lì, da quel punto a poche decine di centimetri dall’erba, ogni idea della “scacchiera del campo” scompare. Proverà poi, per verificare le sue osservazioni, a giocare una partita a scacchi con la scacchiera all’altezza degli occhi: perde rapidamente, e reputa confermate le osservazioni.
Durante l’intervallo si alza con calma e passeggia a bordo campo. È bello potersi sgranchire le gambe. Una volta all’interno di quel muro di Berlino messicano, la sorveglianza è praticamente nulla. A metà della linea laterale, sente un bisognino improvviso e si infila nella discesa da cui sono spariti i giocatori, in cerca di un bagno.
I corridoi sono quasi deserti.
Prosegue verso sinistra per una trentina di metri, niente guardie in giro, c’è una porta aperta, si dirige in quella direzione ed entra. È lo spogliatoio della squadra tedesca, tutti i giocatori sono seduti sulle panche in un silenzio assoluto. Al centro c’è Franz Beckenbauer, l’allenatore, elegante e rilassato; volta la testa verso di lui, non commenta, ma la sua espressione è interrogativa, o forse cortesemente critica nei confronti dell’intruso. Lui dice brevemente, e senza scomporsi, Entschuldigung!, scusate!, poi ripercorre il corridoio deserto e chiede come arrivare alla tribuna stampa, da dove assiste al secondo tempo.
Che conclusioni trae l’Investigatore da tutto ciò? Quasi nessuna, se non la riconquista del ricordo del suo lavoro di portiere, rischioso e poco fruttuoso, nel Bureå if.

Attraverso innumerevoli telecamere, il mondo guarda col fiato sospeso un balcone del villaggio olimpico da cui di tanto in tanto si affaccia un terrorista mascherato; ma lui percorre i corridoi sotterranei nella direzione che gli è stata suggerita, verso il garage dei canadesi, sotto gli alloggi israeliani.
A un certo punto chiede a un poliziotto Potrebbe indicarmi i bagni degli alloggi canadesi, ma per tutta risposta ottiene solo un perplesso e preoccupato cenno negativo della testa. Che apparentemente si lascia dietro un vago senso di colpa per non aver mostrato la gentilezza e la disponibilità prescritte dal principio di Heiterkeit di quei giochi olimpici.
Si rende conto che le colombe non hanno ancora avuto il tempo di riflettere, anche se i falchi sono già arrivati con possenti colpi d’ala e ora stringono gli ostaggi tra gli artigli.
Il sotterraneo è scarsamente illuminato, il garage semivuoto. Più avanza, più si rende conto che è lì che si sta preparando la liberazione; poliziotti che corrono, ombre indistinte, civili armati, soldati che arrivano di corsa. Dato che tanti poliziotti sono in borghese per non attirare l’attenzione, non attira l’attenzione nemmeno lui.
Alla fine si ritrova nel seminterrato situato esattamente sotto gli alloggi israeliani. Non ha bisogno di chiedere. È lì. Si sta preparando la liberazione. Un gruppo di poliziotti e artificieri indica verso l’alto, parlottando a bassa voce. Al soffitto è fissata una massa simile a stucco metallico, probabilmente esplosivo al plastico, sostenuta da alcuni puntelli. Capisce subito cosa stanno progettando. Hanno intenzione di far saltare il pavimento degli alloggi israeliani.
Stanno discutendo sullo spessore della soletta. Qualcuno ha i progetti dell’edificio.
Si ferma vicino a loro, dopo un attimo chiede se hanno intenzione di coordinare l’esplosione con un attacco dall’esterno. Ritiene che dopo tutto sia una domanda importante. Lo guardano e gli chiedono chi è.
Mostra educatamente il cartellino di accredito che ha nascosto sotto la camicia. Lo buttano immediatamente fuori, con gentilezza.
Che conclusioni ne trae?
Parecchie.
Tra le altre cose, che il bel sogno tedesco dell’Heiterkeit viene annientato. Si era sognato di cancellare in modo aperto e giocoso tredici anni di Storia.
E in effetti la storia cambiò direzione, ma non nel modo sognato.

Dodici ore più tardi era sullo spiazzo davanti agli alloggi israeliani, a faccia in su, come tutti gli altri, a guardare l’elicottero che prendeva il volo.
Era carico di morte, ma non lo sapeva ancora nessuno.
Da quel giorno non può vedere un elicottero di quel tipo senza pensare a Monaco ’72. I terroristi e gli ostaggi, come richiesto, sarebbero stati portati in elicottero fino a un aeroporto, per poi partire in aereo per il Cairo, dove sarebbero proseguite le trattative.
Nel frattempo, lo sanno tutti, non si poteva svolgere nessuna gara.
Una certezza improvvisa: o si liberano subito gli ostaggi, o i giochi di Monaco dovranno essere interrotti.
La logica del gioco pretende una liberazione immediata. A ogni costo.
Quella notte avrebbero scritto. Lången Olsson e Janne Mosander e Stig Bodin e Lennart Ericsson e lui, lavorarono in silenzio, con una strana calma, in modo molto tranquillo ed efficace. Quella notte consegnarono diciassette pagine, e a Stoccolma qualcun altro avrebbe proseguito il lavoro impaginando e formattando. Non aveva mai lavorato in quel modo per il giornale, aveva solo scritto degli articoli per la pagina della cultura.
Avrebbe ricordato quella notte per la calma, e per il piacere di lavorare insieme.
Erano come una squadra. Poteva essere anche così.

Quella notte la Fossa non si svuotò mai.
Verso il mattino – quando normalmente c’erano solo una ventina dei più resistenti e ubriachi, accasciati al bar o addormentati sulle poltrone – l’affollamento non fece che aumentare. L’elicottero era atterrato da qualche parte, non a Riem, forse a Fürstenfeldbruck, sì, era lì, un aeroporto militare. Venivano montate continuamente nuove telecamere, e man mano che passavano le ore invece della solita atmosfera alcolica si percepiva un clima più teso e aggressivo.
Fu annunciata una conferenza stampa per le quattro del mattino, ma lui seppe la verità già mezz’ora prima, da un giornalista israeliano che aveva conosciuto da studente all’università di Gerusalemme. Erano in mezzo alla sala stampa, e il giornalista israeliano gli disse con una calma e una precisione innaturali, Sì, li hanno uccisi tutti, lui chiese senza capire Tutti chi? e la risposta arrivò con la stessa gelida calma glaciale Hanno ucciso tutti gli israeliani, è vero, tutti, e poi lui confuso Chi, chi ha sparato? e la risposta, con un’ironia trattenuta appena percettibile, Tutti gli ostaggi sono morti, hanno sparato a tutti, nessuno sa chi è stato, probabilmente i tedeschi o gli arabi, e poi È vero? e con la stessa voce estremamente controllata Hell yes they are all dead it’s true.
A un’estremità della Fossa si accesero i riflettori. Era il momento di spiegare che il tentativo di liberazione era fallito. Che tutti gli atleti israeliani erano stati uccisi, oltre a cinque arabi e un poliziotto. Che in tutto quindici cadaveri restavano sul terreno dopo il massacro a Fürstenfeldbruck, l’aeroporto che fino a quel momento nessuno aveva mai sentito nominare. Tutti morti. Hell yes they are all dead it’s true. Quella notte cinque tiratori scelti tedeschi mal equipaggiati avevano cercato, al buio e da grande distanza, di abbattere i sequestratori che tenevano in ostaggio gli israeliani, e avevano fallito. Erano esplose delle granate, l’elicottero aveva preso fuoco. Nessuno in seguito sarebbe stato in grado di dire chi aveva ucciso chi.
Ma la caccia era finita.
Fu una notte senza stanchezza, ma dopo la conferenza stampa – Alle sind tot! – era sopravvenuto lo sbandamento. La Fossa non si era svuotata e quelli che erano rimasti si erano messi a bere. Si erano sparpagliati sui divani e sulle sedie e sul pavimento in quella sala gigantesca ormai puzzolente e invasa dal fumo delle sigarette, in quella mattinata grigia e chiara in cui regnava una confusione sorda e un senso di sporcizia indescrivibile. Sembrava quasi che un rigurgito di vino acido, di posacenere rovesciati e di vetri rotti si fosse riversato sulla Fossa, avvolgendo tutto in un’indescrivibile atmosfera di sconfitta e di rovina catastrofica. Molti dormivano sdraiati su tavoli e poltrone, con la bocca spalancata e il colletto sbottonato, con i tesserini di accredito, un tempo preziosi, amati e ben custoditi che gli pendevano dal collo, smaltendo col sonno l’abbattimento e la sbornia.
Si sedette in mezzo a loro.
I testi erano stati consegnati. La notte era finita e comunque fossero andate le cose, anche quei giochi olimpici di Monaco ’72 erano finiti. Poi probabilmente sarebbero iniziate le esequie, le Trauerfeier, che avrebbero scritto la parola fine sulle ventesime Olimpiadi dell’epoca moderna, e lui avrebbe assistito anche a quelle.

Trauerfeier, che strana parola. Festeggiare il lutto.
A cosa aveva assistito? Forse a una svolta della storia, non solo la vittoria del terrorismo sullo spirito ludico come sogno, ma anche un esempio concreto del passaggio della guerra moderna da lotta tra eserciti a terrore contro i civili, dalle analisi del grande stratega militare Clausewitz sull’efficacia dei grandi movimenti di truppe all’intifada, all’undici settembre, all’Iraq e alle perquisizioni delle cucine di periferia per identificare il nemico. Se doveva andare così, e in seguito ne sarebbe stato ancora più convinto, le Trauerfeier erano sicuramente giustificate, per rimarcare che la storia aveva ruotato attorno al suo perno.

Mi sembra che di spunti interessanti ce ne siano diversi; in particolare quello che nessuno, credo, ha mai osato dire ad alta voce e che l’autore apprende dall’amico israeliano: nessuno sa per quale mano siano morti gli ostaggi israeliani.

Per Olov Enquist, Un’altra vita, Iperborea (pp.207-217)

barbara

MA LUI NON SI FERMA

Shaul, la marcia del coraggio

Ancora una volta l’ospite d’onore sarà lui (assieme all’ex maratoneta Franca Fiacconi, anche lei alla partenza della manifestazione). L’ex podista israeliano Shaul Ladany torna alla Run for Mem, la corsa per una Memoria consapevole organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane insieme a Uisp e Maccabi Italia. L’appuntamento è per domenica 28 mattina a Bologna, con il via previsto alle 11. Due percorsi, uno da dodici e l’altro da cinque chilometri. Tante tappe, nel percorso, per ricordare i luoghi che maggiormente hanno segnato la città sotto il nazifascismo. Shaul, malgrado le 81 primavere, tra l’altro splendidamente portate, c’è da scommettere che sarà alla partenza del primo. Perché, come ha più volte raccontato anche a Pagine Ebraiche, nella vita non ha mai smesso di camminare, marciare, correre. Un passo dopo l’altro, con la prospettiva costantemente rivolta al futuro. Parla per lui il drammatico passato di bambino sopravvissuto alla Shoah, ma anche di atleta olimpionico che scampò per miracolo all’azione terroristica palestinese ai Giochi di Monaco di Baviera del 1972. Una doppia ferita che l’ha inevitabilmente segnato, ma che non gli ha mai fatto alzare bandiera bianca. ”Marciare forse è il mio modo ambizioso di avere sempre successo. Gli sportivi seri non amano partecipare a una competizione, amano soprattutto portarla a termine” ha raccontato lo scorso anno in una intervista alla vigilia della prima Run for Mem, svoltasi a Roma. Anche quest’anno il suo sorriso, la sua grinta e il suo coraggio saranno motivo di ispirazione per tutti i partecipanti.
Moked, 14 gennaio 2018
shaul ladany
“Non gli ha mai fatto alzare bandiera bianca”. Perché un eroe può anche perdere, ma non arrendersi. Vai, Shaul, e corri per tutti quelli che, malgrado l’impegno e il coraggio, non ce l’hanno fatta.

barbara

MARK SPITZ

Mark Spitz 1
A chi non è sopra i cinquant’anni, difficilmente il suo nome dirà molto. E se, per riempire la lacuna, andate in Google, leggerete che è un ex nuotatore e che “Benché avesse solo ventidue anni, Spitz abbandonò il nuoto dopo i Giochi di Monaco”. Ecco, no, non è così, non è esattamente così che sono andate le cose. Mark Spitz non ha abbandonato il nuoto DOPO, le Olimpiadi di Monaco: lo ha abbandonato DURANTE le Olimpiadi di Monaco. Nel senso che ha proprio abbandonato le olimpiadi: anche se era solo ebreo, e non israeliano, non sapendo all’inizio se l’attacco si sarebbe esteso anche agli altri ebrei, è stato imbarcato in fretta e furia sul primo aereo e rispedito negli Stati Uniti. Suppongo che sia stato il trauma subito
atleti
a fargli lasciare per sempre il nuoto all’apice della gloria, proprio nel momento in cui era in assoluto il più grande nuotatore del mondo.


La leggenda vuole che lo abbia fatto perché, “avendo vinto tutto ciò che si poteva vincere, non gli era rimasto più niente per cui combattere”. Leggenda, appunto. Tanto più che a Monaco mancava ancora una gara da disputare, e da vincere.
Quanto alle olimpiadi maledette – nel senso di maledetti terroristi palestinesi (ma almeno quelli il Santo Mossad ha provveduto a sistemarli), maledetta polizia tedesca che ha rifiutato l’aiuto offerto da Israele, provocando il macello che ha provocato, maledetto comitato olimpico che ha fatto proseguire i giochi, maledetti tutti coloro che hanno continuato a guardarle e fare il tifo e divertirsi come se quella in corso fosse ancora una competizione sportiva – se ne è parlato in questo blog qui e qui, e ci si è indignati qui, e poi bisogna assolutamente rileggere questo, perché le cose che trovate qui non le avete mai lette in nessun giornale. Adesso finalmente, dopo quarantaquattro anni, l’infaticabile lotta delle due vedove Ilana Romano e Ankie Spitzer
ilana-romano-e-ankie-spitzer
contro il silenzio, contro il rifiuto, contro l’ipocrisia, contro l’ignobile CIO, è arrivata (e chissà che, nel nostro piccolo, non siamo riusciti anche noi a portare la nostra microscopica gocciolina d’acqua) la vittoria: è stato inaugurato al villaggio olimpico il memoriale per le vittime della strage.
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Ah, Mark Spitz, dicevo: gran bell’uomo anche da vecchio.
Mark Spitz 3
barbara

 

MONACO ’72: L’INDIFFERENZA DEL MONDO

Immaginatevi un campus olimpico più o meno come quello che si è visto nelle scorse settimane alla televisione: gli atleti, belli e abbronzati dall’estate appena trascorsa, chiacchierano nelle ore di riposo davanti alle costruzioni approntate apposta per loro. Alcuni raccontano e ridono, altri scambiano fotografie della loro casa e della loro famiglia con giovani provenienti dalle più svariate parti del mondo, altri giocano a carte o a ping pong, altri prendono il sole in bikini o in mutandine, oppure mangiano un gelato in compagnia. Adesso provate a immaginare che pochi prefabbricati più avanti, da quella casetta bianca a due piani, si affacci sulla terrazza, e non è carnevale, un uomo mascherato, con un mitra sottobraccio. Si fa vedere più volte, con una certa ostentazione, gli atleti intorno gli lanciano poco più che occhiate distratte. Continuano ad abbronzarsi, devono riposarsi intensamente, perché fra poche ore gareggeranno. Pensano al record da raggiungere, al grande pubblico festoso che fra poco li accoglierà allo stadio. Tutto questo, mentre gli atleti israeliani muoiono nelle mani dei terroristi palestinesi. Non è un incubo, è una storia vera sulla quale non è stata spesa neppure una parola di commemorazione all’apertura delle Olimpiadi. Gli israeliani l’hanno commemorata da soli per l’ennesima volta, la strage dei loro undici atleti; da soli si sono ricordati l’indifferenza del mondo e la colpevole connivenza che accompagnò l’evento. E il dolore è stato attizzato da un documentario di Arthur Cohen dal titolo “Un giorno di settembre” che si è visto alla televisione israeliana nel giorno della ricorrenza del sequestro. Un documentario spietato, in cui si vedono gli atleti riversi nel loro sangue, si assiste alle conferenze stampa dei palestinesi travestiti da ‘Che Guevara’ antimperialisti, didascalici, sicuri di sé stessi, a contatto continuo fuori della baracca israeliana con i giornalisti senza che ci sia un tentativo di cattura, un autentico sforzo di aiutare le vittime. Lo spettacolo doveva assolutamente continuare mentre gli ebrei morivano. Una faccenda non nuova soprattutto a Monaco, in Germania, dove nel 72 si svolgevano le Olimpiadi che avrebbero dovuto dimostrare la completa riconciliazione della Germania col Mondo.
Alle quattro e mezzo di mattina del 5 settembre avvenne il sequestro: otto feddayn penetrarono oltre il filo spinato e poi nella casetta degli undici atleti israeliani. Due ragazzi israeliani furono immediatamente uccisi. I terroristi chiesero come merce di scambio la liberazione di un gruppo di prigionieri palestinesi in Israele contro le loro vittime innocenti. Le autorità tedesche cominciarono a tremare all’idea che le Olimpiadi potessero trasformarsi in un lago di sangue, o semplicemente all’idea che i giochi potessero fermarsi. Non riuscirono a mettere a punto un solo piano, o non vollero: né mentre fornivano cibo ai terroristi con continui contatti, né mentre la polizia incontrava senza tregua il loro capo, abbigliato con un drammatico cappello sessantottino, i capelli lunghi e l’aria soddisfatta, né quando finalmente salì sul tetto (fu filmato dalla televisione) un commando di teste di cuoio e all’improvviso, un minuto prima dell’operazione, la annullò senza motivi evidenti. Intanto i giochi andavano avanti. Israele insistette per tentare un’operazione di salvataggio in proprio, ma la Germania rispose senza esitazione con un diniego. Quando i terroristi chiesero un paio di elicotteri e un aereo per andarsene con gli ostaggi, la strada fu loro lastricata senza intoppi. Sembra incredibile che non fosse tentato nessun agguato, dato che la situazione era evidentemente disperata comunque. Solo all’aeroporto si appostò un misero gruppo di cinque cecchini su un tetto e un altro commando dentro |’aereo. Quest’ultimo, quando si avvide che i terroristi erano otto e non cinque, cancellò l’operazione e si ritirò. I cecchini cominciarono a sparare alla cieca nel buio, mentre un altro minuscolo gruppetto si dava da fare incongruamente. Il risultato dell’operazione fu che tutti gli atleti israeliani furono bruciati, smembrati. I feddayn furono uccisi in cinque, chissà come, mentre i tre che rimasero in vita furono imprigionati in Germania. Poco dopo un aereo della Lufthansa fu sequestrato da un commando palestinese che chiese l’immediata liberazione dei loro compagni, ciò che avvenne prontamente. Su quell’aereo che, guarda caso, era della Lufthansa, non vi erano, guarda caso, donne e bambini. Dei tre, due furono uccisi probabilmente dal Mossad, e l’ultimo invece – nel film di Cohen – ancora si vanta, in una lunga intervista dal suo nascondiglio in Sud America, dei magnifici risultati propagandistici ottenuti con l’operazione Monaco. E a giudicare dalla solidarietà che i palestinesi hanno ottenuto nonostante atti di questo genere, probabilmente ha ragione. Probabilmente la perversione dell’opinione pubblica è grande.
Forse Israele avrebbe dovuto agire comunque, forse gli atleti avrebbero potuto marciare compatti, tutti insieme, sul prefabbricato sequestrato sfidando il fuoco cui erano esposti i loro colleghi. Certo la Germania avrebbe dovuto mostrare un minimo di quella famosa efficienza che in questo caso, invece, si trasformò in assenza.
Quello che la memoria tramanda della realtà è soltanto che Andrei Spitzer, il campione israeliano di scherma, come prima cosa una volta giunto al Campus andò, fra lo stupore generale, a trovare gli atleti libanesi. Lo accolsero amichevolmente, contro ogni previsione. Parlarono, scherzarono, si dettero la mano. Spitzer tornò radioso: “Le Olimpiadi servono appunto a questo. A unire tutto il mondo intorno all’ideale di una grande collettività”. Durante il sequestro, il suo lungo viso triste, con gli occhiali scuri e il ciuffo liscio sulla fronte fu visto per l’ultima volta dalla moglie alla finestra della baracca per un secondo. La donna aveva in braccio la loro neonata, che non ha mai conosciuto il padre.

No, non è l’ennesimo articolo di contorno alle olimpiadi di Londra, fuori tempo massimo e con qualche dettaglio discordante: questo articolo di Fiamma Nirenstein, pubblicato su Shalom, è di dodici anni fa. Tocca, per l’ennesima volta, constatare, che intorno a Israele il tempo sembra essersi congelato. Ma chi si illude che questo congelamento sia la premessa per la morte definitiva, troverà pane per i suoi denti.

barbara

UN MINUTO DI SILENZIO

Quello che è stato chiesto al Comitato Olimpico per ricordare, nel quarantesimo anniversario, la strage degli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, e il comitato ha detto no. È stata allora organizzata una raccolta di firme per presentare una petizione. Io ho firmato – e fatto firmare gli amici della mia mailing list – e oggi mi è arrivata una risposta:

Hey Barbara,
We are almost at our goal of attaining 80,011 by the end of June! Please send the petition link out again to all your colleagues to help us surpass our goal.

Come sempre, quando c’è da impegnarsi per una buona causa, io rispondo: obbedisco! Vi propongo quindi innanzitutto il testo della petizione:

Tell the International Olympic Committee: 40 Years is Enough!

At the 1972 Munich Olympic Games, eleven members of the Israeli team were murdered. For forty years their families have asked the International Olympic Committee to observe a minute of silence, in their memory. Please help us by signing our petition.
I am the wife of Andrei Spitzer. My husband was killed at those Olympic Games in 1972.
I am asking for one minute of silence for the memory of the eleven Israeli athletes, coaches and referees murdered at the 1972 summer Olympics in Munich. Just one minute — at the 2012 London Summer Olympics and at every Olympic Game, to promote peace.
These men were sons; fathers; uncles; brothers; friends; teammates; athletes. They came to Munich in 1972 to play as athletes in the Olympics; they came in peace and went home in coffins, killed in the Olympic Village and during hostage negotiations.
The families of the Munich 11 have worked for four decades to obtain recognition of the Munich massacre from the International Olympic Committee. We have requested a minute of silence during the opening ceremonies of the Olympics starting with the ’76 Montreal Games. Repeatedly, these requests have been turned down. The 11 murdered athletes were members of the Olympic family; we feel they should be remembered within the framework of the Olympic Games.
We are asking again to be heard in time for the 2012 London Summer Olympics. In 2010 JCC Rockland, New York contacted me and offered their help and made it their mission for their 2012 JCC Maccabi Games to honor the Munich 11 through multiple events as well as spearheading this petition.
Silence is a fitting tribute for athletes who lost their lives on the Olympic stage. Silence contains no statements, assumptions or beliefs and requires no understanding of language to interpret.
I have no political or religious agenda. Just the hope that my husband and the other men who went to the Olympics in peace, friendship and sportsmanship are given what they deserve. One minute of silence will clearly say to the world that what happened in 1972 can never happen again. Please do not let history repeat itself.
For my husband Andrei and the others killed, we must remember the doctrine of the Olympic Spirit, “to build a peaceful and better world which requires mutual understanding with a spirit of friendship, solidarity and fair play,”  is more powerful than politics.

40 years is long enough to wait.

Go to www.munich11.org to learn more about how the JCC Rockland, in New York took up our fight to remedy injustice with the support & gratitude of the families of the Munich 11 and to learn the history of a day we should never forget.

Thank you,  Ankie Spitzer and JCC Rockland.

E poi il link al quale chi ancora non l’avesse fatto può andare a firmare:

http://www.change.org/oneminute?utm_source=supporter_message&utm_medium=email

Anche se, devo dire, qualunque cosa decida il comitato Olimpico, non so se avranno il coraggio di farlo in questa Inghilterra qui:

barbara

NESSUN GIUSTO PER EVA

Eva e Ada e Giovanna ed Ester ed Emma e il rabbino e soprattutto Sara, per ben due volte sfuggita alle fauci fameliche e due volte riacciuffata, perché a chi ha sangue giudeo nelle vene non è consentito sfuggire al destino assegnatogli.
Questa accurata e appassionante ricerca storica riporta alla luce le vicende dei 71 ebrei padovani – solo tre i sopravvissuti – cui non è stato dato in sorte di incontrare un giusto nel proprio travagliato cammino. E, come sempre in questo genere di storie, colpisce, almeno quanto la cattiveria dei cattivi, l’indifferenza di chi cattivo sicuramente non si definirebbe: quell’indifferenza che ha fatto sì che una manciata di fanatici riuscisse a impossessarsi di un’intera nazione e da lì partire per la devastazione di un intero continente e che, nel piccolo di una cittadina di provincia, quasi un centinaio di concittadini venisse portato al macello senza provocare reazioni di sorta. E grazie dunque a chi, non potendo restituire a loro la vita, si è impegnato per restituire almeno a noi la memoria.

Francesco Selmin, Nessun “giusto” per Eva, CIERRE edizioni

(E indifferenza e complicità, come siamo quotidianamente costretti a constatare, continuano ancora oggi)

barbara