Un’onda. Un’altra onda. Un’altra onda. Un’altra onda… Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono. Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono. Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono… Tutte uguali. Tutte con la stessa forza. Tutte con lo stesso ritmo. Un’onda. Un’altra onda. Un’altra onda. Un’altra onda… E in questo susseguirsi di onde sempre uguali, di ritmi sempre uguali, finisco per perdere la dimensione del tempo. Cammino, lentamente, al di fuori della dimensione del tempo, con lo sguardo sfocato sull’orizzonte mentre le onde lontane che vanno a morire sulla sabbia sfiorano distrattamente la retina, e finiscono per farmi perdere anche la dimensione dello spazio. E mentre continuo ad avanzare fuori dal tempo, fuori dallo spazio, percepisco, per un istante, la dimensione dell’assoluto. Divento, per un istante, l’ASSOLUTO.
barbara
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TRAMONTO
Il braccio destro intorno alle spalle della figlia. Si avvicina la moglie e lui apre il braccio sinistro, affinché si unisca all’abbraccio, poi avvicina le braccia per stringere il cerchio, in modo che la donna e la ragazza possano abbracciarsi tra di loro. Lento, quasi guardingo, si avvicina il figlio adolescente, ostentando superiorità verso tutto quel tenerume. La madre apre il braccio sinistro, senza parlare, guardandolo. Alla fine si annida anche lui in quell’abbraccio tenerissimo, tutti e quattro con sorrisi vaghi e gli occhi persi in quel tramonto bellissimo, struggente.
Più in là un ragazzo e una ragazza, intrecciati stretti. Talmente stretti che sarebbe arduo capire fin dove arrivi l’intreccio. Forse lo stanno sentendo, il tramonto, ma sicuramente non lo stanno vedendo, persi unicamente l’uno negli occhi dell’altra.
Due bambini, sordi ai richiami della madre, continuano ostinatamente a giocare, per rubare ancora un minuto, ancora un secondo, ancora un respiro all’estate finché dura, finché c’è.
E io continuo nella mia camminata lenta, lentissima, nella luce che a poco a poco svanisce mentre le onde, con sensuale delicatezza, venendo a morire sulla battigia, con l’ultimo respiro mi accarezzano i piedi.
barbara
E PER CONCLUDERE (11/17)
Per concludere, in realtà, ci sarebbero ancora tantissime cose da raccontare, emozioni da rievocare, momenti speciali da rammentare. Per esempio il bunker sul Golan dove, il buio rischiarato unicamente da microscopici lumini regalatici da Moti,
è stata letta la preghiera Unetanneh Tokef,
composta, secondo la tradizione, nell’XI secolo da Rabbi Amnon di Magonza mentre attendeva di morire con le mani e i piedi amputati come punizione per non essersi voluto convertire. Poi, in quell’atmosfera surreale, ce l’ha fatta sentire cantata, dal cellulare. Adesso chiudi gli occhi, immaginati dentro un bunker in cui non arriva alcun rumore dall’esterno, le volte che si rimandano i suoni, il buio quasi totale, tante persone, vicinissime le une alle altre, in religioso silenzio, il suono un po’ incerto di un cellulare, e ascolta:
E quella lunga camminata – mentre i compagni tiravano fuori e aprivano la bottiglia e preparavano i bicchieri – con i piedi in acqua, e poi anche le caviglie, e poi anche i polpacci, e le onde che ogni tanto si alzavano a inzupparmi il vestito, nella luce sempre più evanescente del tramonto telavivino, avanti e indietro, avanti e indietro, ultima e poi esco, no dai ancora una e poi esco, questa è proprio ultima e poi esco davvero, vabbè, penultima, ma poi veramente…
E il bagno nel mar Morto, con la compagna R. che appena entrata si mette a strillare ahiahiahi mi brucia la jolanda! La cosa buffa è che fra i vari nomi e nomignoli in uso, jolanda non l’avevo mai sentito, e probabilmente neanche gli altri, e ciononostante ci siamo messi tutti a ridere, perché nessuno ha avuto il minimo dubbio sul significato di quella parola – potenza dell’oggetto che riesce a superare quella del nome!
E poi basta, mi fermo. Fra una settimana sarò di nuovo lì, a inzuppare le chiappe nel Mar Morto e a vedere altre cose meravigliose che poi, come sempre, vi racconterò e vi farò vedere. Come ultimissima cosa, prima di chiudere la narrazione di questo undicesimo viaggio, vi lascio alcune foto prese dall’autobus mentre correvamo lungo il mar Morto (ho tolto le più storte e le più sfocate; di quello che rimane, pur storto e sfocato, vi accontenterete). Quegli arbusti che sorgono dal deserto di sale: ci era stato detto che cosa sono, ma non me lo ricordo; sono tuttavia sicura che arriverà la solita mano santa a provvedere.
E i solchi lasciati dai piedi delle capre in transito.
E questo per ora è tutto. Arrivederci al prossimo viaggio.
E la sapete una cosa curiosa? A scrivere questo ultimo post mi sento come se dal viaggio mi stessi congedando veramente solo in questo momento. Come se questo fosse un addio. E me ne viene come una sorta di tristezza.
barbara
MARE
Ci sono andata, oggi pomeriggio. Un paio di persone in acqua coi retini, per procurarsi di che condire la pasta della cena. Un paio di persone col cane. Una giovane coppia abbracciata stretta: nessun altro. Un silenzio profondo, accarezzato ma non rotto dal lieve sciacquio delle onde di un mare calmo, di quell’argento leggermente offuscato che assume sotto un cielo velato.
Ho camminato a lungo, lentamente, sulla battigia. La sensazione di pace era così assoluta da riuscire persino a stemperare gli effetti di un robusto trauma abbattutosi su di me nel primo pomeriggio.
Ho passato una vita a dire che il mare d’inverno è una delle più straordinarie meraviglie che la natura possa offrire – e pensare che c’è chi lo trova noioso o deprimente.
barbara
ESTATE
E continua questa lunghissima, caldissima, meravigliosa estate (di là a quest’epoca per fare la doccia occorre accendere la stufetta elettrica), che sembra non voler finire mai.
E mentre cammino con le onde che lentamente, dolcemente, ritmicamente mi battono sui polpacci, davanti l’ultima luce che arriva dal sole già da un pezzo tramontato, il cielo una fantasmagoria di colori che sfrangiano uno nell’altro, e quando faccio dietrofront una sfolgorante luna piena su un cielo blu cobalto che diventa di attimo in attimo più scuro, il pensiero corre a quando, mentre camminavo con le onde che lentamente, dolcemente, ritmicamente mi battevano sui polpacci mi dicevo ancora tre giorni e poi finito, ancora due giorni e poi finito, e adesso invece dico fra due giorni avrò ancora le onde che mi battono sui polpacci, e fra tre giorni avrò ancora le onde che mi battono sui polpacci, e se verrà un giorno di pioggia prima o poi tornerà un giorno di bel tempo e io avrò di nuovo le onde che mi battono sui polpacci, per sempre, per sempre, per sempre, in un paradiso senza fine…
(Io adesso vado in Israele, noi ci vediamo fra una decina di giorni)
barbara
UN ALTRO PO’ DI ROBE
L’appello. È stato durante il volo di andata, e mi ha fatto stare davvero male. Lo hanno ripetuto tre volte, due l’assistente di volo e la terza il comandante: se fra i passeggeri c’è un cardiologo, o almeno un medico qualsiasi, si rechi urgentemente in cabina. Io ero nelle prime file, l’ingresso alla cabina di pilotaggio stava davanti ai miei occhi, e non ho visto arrivare nessuno. Mancavano cinque ore all’arrivo, ed eravamo in mezzo all’oceano, vale a dire senza alcuna possibilità di effettuare uno scalo di emergenza.
La passeggiata. La penultima sera, dopo il tramonto, quando ormai era quasi buio, mi sono avviata lungo la battigia (si chiama battigia) per una lunga lunga lunga passeggiata nell’aria calda, coi piedi carezzati dalle onde che andavano a spegnersi sulla spiaggia, e il profumo di salso e il canto della marea e della risacca.
Quando sono tornata indietro era praticamente notte, e qui devo tornare un momento indietro. Per tutto il giorno due ragazzi avevano infaticabilmente lavorato a scavare una grande buca. Si erano perfino portati dietro il grande ombrello in dotazione a ogni camera per poter continuare a lavorare anche nelle ore più calde; io ogni tanto li guardavo e mi dicevo: quando viene buio, o se la marea la copre, va a finire che qualcuno ci casca dentro. E adesso vi faccio la domanda da trecentomila miliardi di dollari: indovinate chi è che ci è finito dentro. Sì, bravi, esatto. Fino quasi alla vita ero dentro, e non ho le gambe corte, ma proprio proprio per niente. E poi arrampicarmi fuori, strofinando sulla sabbia le mie povere ginocchia martoriate e le gambe malconce. Vabbè, ma non era di questo che volevo parlare, bensì della borsa da spiaggia con tutte le mie cose che non c’era più. Ho ripercorso avanti e indietro tutto quel pezzo di spiaggia per quattro volte, scrutando attentamente ogni lettino, ma la borsa proprio non c’era. Dentro c’era il vestito, e pazienza, potevo anche rientrare in bikini, ma nella tasca del vestito c’era la tessera-chiave, e un’ultrasessantenne che attraversa l’albergo e si presenta alla reception in microbikini per spiegare tutta la storia e chiederne un duplicato non è che faccia tanto un bel guardare. In spiaggia sto come mi pare e chi non gradisce lo spettacolo cambi canale, ma se vado in giro io ad esibirmi il discorso cambia un po’. E poi c’erano le creme, e pazienza. E poi c’erano gli occhiali da sole e quelli da vista, e lì pazienza mica tanto. E poi c’era il kindle (sì, mi è stato regalato un kindle. E chi dice che non è la stessa cosa che girare le pagine di un libro ha perfettamente ragione, ma in viaggio è una mano santa: io ho letto dieci libri con un peso totale di 165 grammi più 40 del cavo per ricaricarlo. Se mi fossero capitati dieci giorni di pioggia tutti di fila e fossi rimasta in camera a leggere altri dieci libri, c’erano, senza aumentare il peso di un grammo). Non ero veramente preoccupata, a dire la verità: ero quasi sicura che l’avesse presa qualcuno del personale, pensando che fosse stata dimenticata; il problema era scoprire dove fosse stata portata, e trovare qualcuno a cui chiederlo, visto che in giro non c’era più nessuno. Poi ho visto due tizi tra le palme e li ho chiamati e ho spiegato la cosa, quelli hanno parlottato un momento tra di loro, dopodiché uno dei due si è diretto a un lettino sopra il quale, ben nascosta sotto un asciugamano, c’era la mia borsa. Dopo una breve ricerca abbiamo ritrovato anche gli zoccoli (gran bella cosa sapere le lingue, anyway). La sera dopo, comunque, l’ultima, la passeggiata seminotturna l’ho fatta con la borsa in spalla.
Le gambe. Naturalmente sapevo benissimo che mi facevano un male bestia, ma fino a quel momento non mi ero resa conto fino a che punto. Il primo segno è arrivato quando sono entrata in acqua, e le onde che mi colpivano i polpacci mi provocavano un discreto dolore. Poi un’onda più forte mi ha fatto perdere l’equilibrio e sono caduta, toccando con l’esterno della gamba destra il fondo sabbioso. Toccando, non sbattendo. Sono quasi svenuta per il dolore. (Il fatto è che ho sempre convintamente sostenuto di non avere mai perso i sensi. Ora, per avere l’esterno della gamba destra in quelle condizioni, ci devo avere preso un urto tremendo, e questo è il punto: io non ricordo urti a destra. L’auto mi ha raggiunta a sinistra, perché ero ancora nella prima metà della strada, e da lì veniva, e poi sono caduta sull’asfalto in avanti. Quando è arrivato questo colpo da destra, evidentemente, io non c’ero).
Il mango. Immensamente amato quando stavo in Somalia, e del quale ho sofferto quasi trent’anni di astinenza. È vero che arriva anche in Europa, e per due volte avevo ceduto alla tentazione di prenderne uno importato, una volta in Germania e una qui, ma è stato come (mi rivolgo ai miei lettori maschi) aspettarsi un incontro con B.B. (quella di mezzo secolo fa) e trovarsi nel letto una bambola gonfiabile a forma di L.L. Finalmente sono tornata a mangiarlo, raccolto maturo e portato in tavola in tempi brevissimi. Se esiste un paradiso, deve avere sicuramente il sapore del mango.