E VIVA IL COMUNISMO E LA LIBERTÀ

Ritengo opportuno far precedere questo articolo da un inno appropriato.

Hasta i rifugiati del socialismo siempre!

Non sbarcano a Lampedusa, sono 9 milioni di venezuelani in fuga dal regime che ha realizzato l’uguaglianza: tutti poveri. Dai 5 Stelle ai Nobel, tutti compañeros alla “Mecca dei ciarlatani”

Le Nazioni Unite hanno avvertito che entro la fine del prossimo anno ci saranno 8,9 milioni di rifugiati venezuelani in tutta l’America Latina. Un esodo che supera di gran lunga quello siriano con 6,8 milioni di profughi. Ma se la Siria è finita così a causa di una guerra civile, il Venezuela ha fatto tutto da solo. Ha abbracciato il socialismo castrista, come racconta il Wall Street Journal.
Ma se per i migranti siriani e africani le tv, i giornali e le agenzie umanitarie sono tutte lì, alla frontiera polacca, nelle spiagge di Lesbo e nel porto di Lampedusa, per il grande esodo dei migranti venezuelani non c’è quasi nessuno.
“Nella prima metà del 2019, il Venezuela ha iniziato a soffrire di carenza di benzina” racconta il Journal. “La nazione aveva le più grandi riserve di petrolio del mondo. Eppure i conducenti si trovano ad aspettare giorni e giorni in fila davanti alle stazioni di servizio, ricordando la vecchia barzelletta su come se i comunisti si fossero impossessati del Sahara, la sabbia sarebbe finita. Allo stesso tempo, navi cisterna partivano dai terminal venezuelani pieni di petrolio dirigendosi… verso Cuba. Questa immagine racconta la storia fondamentale del disastro del Venezuela. I bisogni di Cuba vengono prima di tutto. Sempre”.
I dati sono spaventosi: “Il 95 per cento dei venezuelani è povero. Più di 3 venezuelani su 4 vivono in condizioni di estrema povertà e insicurezza alimentare. A 3 dollari al mese, il salario minimo legale non dà da mangiare a una persona per un giorno, figuriamoci a una famiglia per un mese. La metà della popolazione in età lavorativa ha abbandonato la forza lavoro. Il Pil pro capite è crollato a livelli che non si vedevano dagli anni ’50. La scarsità d’acqua è endemica in tutte le città. I blackout sono comuni. Le biciclette sono diventate il mezzo di trasporto preferito da coloro che possono permettersele. Il sistema sanitario è crollato, portando i tassi di mortalità infantile a livelli mai visti da una generazione. Malattie come la difterite e la malaria, che erano state debellate decenni fa, sono tornate. L’unico aspetto positivo? I tassi di omicidi sono diminuiti perché le munizioni scarseggiano”.
Un venezuelano in media ha perso 11 chili di peso…Il Venezuela è un luogo ideale per girare il sequel di “Hunger Games”. I giochi della fame. Nei giorni scorsi funzionari dell’Onu nello spiegare la gravità contrazione economica in Afghanistan hanno detto che “lo abbiamo visto soltanto in Venezuela”.
Perché curarsene? In fondo il Venezuela non siede forse nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, anche se ha gli stipendi più bassi al mondo e l’inflazione più alta del pianeta?
Perché i 9 milioni fuggono da un regime incensato dai pundit di sinistra in tutto il mondo, dagli attori di Hollywood, dalle ong e da tanti, troppi funzionari delle Nazioni Unite. Donne che combattono per un pezzo di burro, madri che non riescono a trovare il latte, bambini che frugano nella spazzatura, scaffali vuoti nelle farmacie, ospedali senza barelle e antibiotici, medici che operano alla luce di un telefonino, donne che partoriscono fuori dagli ospedali. Sul New York Times, Bret Stephens si è domandato dove siano i progressisti sul Venezuela. “Ogni generazione di attivisti abbraccia una causa di politica estera: porre fine all’apartheid in Sudafrica; fermare la pulizia etnica nei Balcani; salvare il Darfur dalla fame e dal genocidio. E poi c’è la causa perenne – e perennemente indegna – della ‘liberazione’ della Palestina, per la quale non c’è mai carenza di creduloni fanatici”. Del Venezuela nessuno parla. “Le sue vittime stanno lottando per la democrazia, per i diritti umani, per la capacità di nutrire i loro figli”.
“Chiunque in Venezuela sarebbe felice di frugare nei cestini americani: i rifiuti sarebbero considerati gourmet”, scrive Business Insider. Caracas era la Mecca della sinistra europea, latinoamericana e americana.
Lo avevano cantato come un paradiso, ma era “una fiesta infernale”, secondo la definizione della New York Review of Books. Il settimanale francese Le Point ha definito il Venezuela “il cimitero dei ciarlatani”. Ancora quattro anni fa, il Manifesto si permetteva di pubblicare un articolo a firma di François Houtart in cui si elogiava un regime “fedele all’emancipazione del popolo”.
In Europa di ammiratori quel regime orrendo ne ha sempre trovati tanti: in Francia, il capo del terzo partito, Jean-Luc Mélenchon; in Inghilterra, il leader del Labour, Jeremy Corbyn; in Italia il primo partito, i Cinque Stelle; in Spagna, Podemos. E si sapeva già tutto, del famoso miracolo venezuelano.
Lo scrittore britannico Tariq Ali proclamava che il Venezuela era il paese più democratico dell’America Latina. Alfred De Zayas, esperto dell’Onu per la “promozione di un ordine democratico ed equo”, ha visitato il Venezuela per valutare il suo stato sociale ed economico. Tornando a Ginevra, De Zayas ha detto di non ritenere che ci fosse una crisi umanitaria. “Sono d’accordo con la Fao che la cosiddetta crisi umanitaria non esiste in Venezuela” ha detto De Zayas. Il premio Nobel per la Letteratura José Saramago ha elogiato il chavismo. Adolfo Perez Esquivel, il pacifista argentino Nobel per la Pace, definì Chàvez “un visionario”. Harold Pinter, un altro Nobel per la Letteratura, appose la sua firma a un manifesto in cui si difendeva il regime. Anche Black Lives Matter è vicino al dittatore venezuelano Maduro. “Attualmente in Venezuela, un tale sollievo trovarsi in un luogo in cui c’è un discorso politico intelligente”, scrisse Opal Tometi, fondatrice di Black Lives Matter.
Dalla Gran Bretagna, la campagna di solidarietà con il Venezuela, con sede a Wolverhampton, inviava in missione i membri del sindacato.  Naomi Klein, l’autrice di No Logo, ha elogiato il Venezuela come un luogo in cui “i cittadini hanno rinnovato la loro fede nel potere della democrazia”, dichiarando che il paese era stato reso immune agli choc del libero mercato grazie al “socialismo del XXI secolo”.  Gianni Vattimo si vantava di partecipare alla “Prima settimana internazionale di filosofia del Venezuela”. Mentre i venezuelani cercavano cibo nei rifiuti, il governo Maduro veniva premiato dalla Fao per aver “raggiunto l’obiettivo del millennio delle Nazioni Unite di dimezzare la malnutrizione”. “Il Venezuela può essere considerato uno dei paesi, come il Brasile e la Cina, che ha contribuito alla cooperazione”, ha osservato Laurent Thomas, direttore della Fao per la cooperazione. 
Il premio Oscar Jamie Foxx si è presentato sorridente al palazzo presidenziale di Caracas per una foto con Maduro. L’attore Sean Penn ha incontrato i leader venezuelani in numerose occasioni, descrivendo quel paese come fautore di “cose incredibili per l’80 per cento delle persone che sono molto povere”. Dopo la morte di Chávez, Penn disse che “i poveri di tutto il mondo hanno perso un campione”. L’attivista afroamericano per i diritti civili Jesse Jackson ha visitato Caracas elogiando quel regime per la sua “attenzione al commercio libero ed equo”. Jackson ha offerto una preghiera al funerale di Chávez: “Hugo ha nutrito gli affamati”. L’attore Steven Seagal è appena andato a Caracas a regalare una spada a Maduro. L’economista Joseph Stiglitz, un altro Nobel, ha elogiato le politiche venezuelane per il “successo nel portare la salute e l’educazione alla gente nei quartieri poveri di Caracas”. Il senatore Bernie Sanders si è lanciato in una affermazione straordinariamente lungimirante: “Il sogno americano si è realizzato in Venezuela”. E un altro Nobel, Rigoberta Menchú, ha difeso il regime ancora lo scorso ottobre, dicendo che “per valutare un conflitto devi conoscere i dettagli dietro di esso”.
Se lo Yemen è piombato in un incubo umanitario a causa di una guerra, il Venezuela a causa del socialismo. “Nella sua incarnazione particolarmente virulenta e criminale” spiega il Journal. “Un’ondata di espropri iniziata nel 2005 ha messo gran parte dell’economia privata nelle mani dello stato. Salari, prezzi, assunzioni e licenziamenti, livelli di produzione, importazioni, esportazioni e investimenti: tutto è stato soggetto a regole minuziosamente dettagliate ideate da burocrati socialisti con poche nozioni su come gestire un’impresa. Caracas si era trasformata in un importante centro di riciclaggio di denaro, con cleptocrati neofiti in cerca di partner più esperti in grado di aiutarli a nascondere il loro bottino”.
Adesso il Venezuela, dopo averli mandati in bancarotta, sta tornando alla privatizzazione di ampi settori dell’economia, racconta Bloomberg.
Trent’anni fa, la notte di Natale del 1991, la bandiera rossa veniva ammainata sopra il cielo di Mosca. Era la fine dell’Unione Sovietica. Oggi – fra Corea del Nord, Vietnam, Cina, Cuba e Laos – 1,5 miliardi di esseri umani vivono ancora sotto dittature che, anche soltanto formalmente, si definiscono “comuniste” e “socialiste”.
I boia nordcoreani tormentano i prigionieri condannati, li mutilano dopo la morte e costringono le persone a guardare i cadaveri, afferma una inchiesta sulla pena capitale durante il decennio al potere di Kim Jong-un e rivelata dal Times. Il rapporto di un’organizzazione per i diritti umani di Seoul afferma che delle esecuzioni pubbliche che ha documentato, il maggior numero non sono per omicidio o stupro, ma per il reato di visione o distribuzione di video dalla Corea del Sud. “Il condannato è stato trascinato fuori da un’auto come un cane prima dell’esecuzione pubblica”, ha detto un testimone di un plotone d’esecuzione a Hyesan. “La persona che stava per essere giustiziata era già in una condizione di pre-morte e i suoi timpani sembravano danneggiati, impedendogli di sentire o dire qualsiasi cosa”. In un’altra esecuzione a Sariwon, nella provincia di North Hwanghae, il condannato è stato legato a un palo di legno con dei sassolini in bocca. Altri intervistati hanno descritto la mutilazione dei corpi. “A Pyongyang il corpo del giustiziato è stato bruciato con un lanciafiamme di fronte a una folla dopo l’esecuzione. La famiglia dell’imputato è stata costretta ad assistere all’esecuzione e a sedersi in prima fila per osservare la scena. Il padre è svenuto dopo aver visto suo figlio bruciare davanti ai suoi occhi”. A Hyesan, un bambino è stato giustiziato con i Kalashnikov. A studenti e lavoratori è stato ordinato di assistere alle esecuzioni, come avvertimento.
Come nella Germania dell’Est, in Venezuela manca anche la carta igienica.
Hasta el socialismo siempre!
Giulio Meotti

L’ovvia domanda è: tutti questi intellettuali, politici e paccottiglia varia, questi uomini senza fallo (e anche senza gli annessi), semidei che dall’alto dei loro castelli inargentati guardano l’umano desolato gregge a cui dichiarano di sentirsi vicini e stringono calorosamente la mano al suo carnefice, sono ritardati o sono prostitute in totale malafede? Io propendo per una combinazione delle due cose.

barbara

E IL VAMPIRO HA MORSO ANCORA

e la giugulare, ormai semivuota, si sta afflosciando. Di cose da dire e citare ne avrei da qui all’eternità, ma per oggi mi accontento di questi due importanti articoli.
Le immagini che troverete inserite negli articoli, sono prese dalla rete e inserite da me
, e lo stesso vale per i video.

Così il Palazzo e i media complici cercano di screditare la protesta: i ceti invisi alla sinistra diventano fascisti e camorristi

È in atto un processo di cinesizzazione: i nuovi ultimi, piccoli imprenditori, bottegai e filistei invisi alla sinistra, non possono nemmeno lamentarsi. A Napoli, a Roma scendevano in piazza, miti anche da spaventati, da esasperati, ma con la complicità dell’informazione organica conviene dire che ogni protesta è infiltrata dalla delinquenza organizzata e dai fascisti, mai da altre forme. La sinistra sovversivista che sostiene le rivolte del Black Lives Matter in America, qui tiene i dimostranti in sospetto di criminali, di carogna e vuole sparargli addosso

L’infiltrazione è la strategia del potere quando vuole bloccare il malcontento. Ce la ricordiamo, noi figli del secolo scorso, avevamo imparato a sgamarli subito i personaggi targati alle manifestazioni sul terrorismo, la buonanima di Cossiga teorizzava apertamente la sedizione inscenata per poter domare quella vera. Serve a paralizzare la protesta ma, prima e meglio ancora, a ritorcerla, a strumentalizzarla. Roba da professionisti, ma l’hanno imparata subito gli avventizi attuali, che possono dire: avete visto, non siete affidabili; tumulti a Napoli, tumulti a Roma e noi chiudiamo tutto; lo facciamo per voi, per tenervi in sicurezza. È un colpo basso e lo sanno e lo sappiamo: a Napoli, a Roma scendeva in piazza la gente comune, i bottegai e i precari a vita, miti anche da spaventati, da esasperati, ma conviene dire che erano tutte escandescenze fasciste e camorriste. La verità essendo che in ogni adunata c’è una quota fisiologica di mattocchi o di provocatori e anche a Napoli, a Roma, a quelli di Forza Nuova si saldavano gli altri balordi dei centri sociali e la manovalanza delle famiglie di malaffare. A Napoli, poi! Dove i centri sociali sono tenuti in palmo di mano dal sindaco De Magistris che ha fatto assessora una di loro e di fronte allo spettacolo dei Masanielli magari si leccava i baffi.

e a proposito di infiltrati

Bello, vero?

Ma come la mettiamo col piazzale di Montecitorio, blindato ai cittadini e perfino agli operatori dell’informazione già sere prima degli scontri napoletani e romani, come ha fatto vedere Barbara Paolombelli? La mettiamo che il Potere – per una volta lasciatecelo identificare con la retorica maiuscola, pasoliniana – il Potere sa di essere inviso ai cittadini, per quanto l’informazione organica propali il contrario, e si premunisce; sa che le misure assurde, grottesche in gestazione potranno scatenare autentiche rivolte e agisce per neutralizzarle e per dirottarle.
C’è una tecnica del colpo di stato, ma anche una tecnica dello stato che colpisce, che protegge se stesso. Oggi la tecnica è elementare, sta in questo: dire che ogni protesta è infiltrata dalla delinquenza organizzata e dai fascisti – mai da altre forme. La sinistra sovversivista che sostiene le rivolte del Black Lives Matter in America, qui tiene i dimostranti in sospetto di criminali, di carogna e vuole sparare sulla feccia, come dice quell’esponente piddino.

occhio però, che a mandare le forze dell’ordine per sparare potrebbe andare a finire così

e per voi potrebbe non mettersi troppo bene

Annuncia la titolare del Viminale, la Lamorgese degli sbarchi incontrollati: sono pronta a militarizzare tutto il Paese.

Segnali preoccupanti, che l’informazione controllata non raccoglie e, se li raccoglie, è per legittimarli, per propagandarli. Il ministro Speranza va da Fazio a gettare il suo ballon d’essai, quasi a far intendere che si potrebbe mandare la polizia politica casa per casa, contando sullo spionaggio diffuso. Com’è ovvio ci rimette la faccia ma niente paura, c’è pronto lo Scanzi non più antipiddino il quale lo ospita nel suo piccolo talk show, gli stende rossi tappeti d’amore.

Ai tempi si chiamava collaborazionismo, oggi conviene dire senso di responsabilità. Come i testimonial del Covid, cantanti, sportive, perfino politiche in fama di gossippare che annunciano orgasmiche: anche io sono positiva! Sono spontanee o ispirate simili pagliacciate? Lo sanno o non lo sanno che così facendo contagiano di isteria somatizzante migliaia di anime semplici? Ma sì, ma quante storie, l’importante è esserci, mettersi in mezzo, ci può sempre scappare un affare, la logica influencer ha contagiato anche loro, ha contagiato tutti.
Il ceto medio che fu, la borghesia mercadora sempre in fama di meschina e farabutta, non ha più voce in capitolo; se scende in piazza la confondono coi fascisti e i mafiosi, se protesta in televisione la prendono in giro, la zittiscono. Pierluigi Bersani, che proviene dal PCI, ha fatto capire senza timor di vergogna che non meritano alcun sostegno perché tanto sono più o meno tutti evasori. Il governo che chissà perché si ostinano a definire rosso-giallo quando è semmai rosso antico, cambogiano o socialfascista, per l’intera filiera produttiva ha stanziato l’elemosina di 6 miliardi e il Pd è chiaramente per un atteggiamento punitivo, basta sentirli parlare. E più ci si sposta all’estrema e più si avallano misure concentrazionarie: chi è che spalleggia senza scrupoli le trovate devastanti e repressive di Conte? La sinistra fantasma delle sigle evanescenti di Liberi e UgualiSinistra e Libertà.
È in atto un processo di cinesizzazione, o, come diceva il Mussolini proveniente dal socialismo massimalista rivoluzionario: “Tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato, niente contro lo stato”. Ma lo stato è in braghe di cartone e i soldi dell’Europa non arriveranno. I nuovi ultimi, i piccoli imprenditori, i bottegai e filistei invisi alla sinistra, e purtroppo anche alla destra romantica e parolaia, muoiono senza potersi neppure lamentare, ma solo chi ci è passato sa che abbassare una saracinesca per l’ultima volta non è la morte di un’attività ma della propria vita, dei propri sforzi, delle speranze, della fatica, della libertà di una vita.
Max Del Papa, 26 Ott 2020, qui.

Una Caporetto sanitaria, economica, giuridica. Ma ora guai a farsi tentare da “governissimi”

Che il governo fosse allo sbando, del tutto inadeguato ad affrontare questa emergenza, noi di Atlantico Quotidiano l’avevamo ben chiaro già dal marzo scorso [beh, non solo voi, ma chiunque avesse occhi da vedere, orecchie da sentire e neuroni da connettere]. Che l’uso, anzi l’abuso dei Dpcm fosse una deriva pericolosa, uno strappo allo stato di diritto e alla dinamica democratica, anche. Sulla comunicazione irresponsabile di Palazzo Chigi siamo tornati più volte. Ma tutto si sta ripetendo.

Sì, ma non proprio proprio uguale:

La linea dello scaricabarile sugli italiani non cambia: il governo è capace solo di scaricare l’emergenza su cittadini e attività economiche, cioè sulla sfera privata, prima imputando loro l’aumento dei contagi, poi disponendo obblighi e divieti, mentre continua a dimostrarsi totalmente incapace di occuparsi di ciò di cui è responsabile: la sfera pubblica. Le misure contenute nell’ultimo Dpcm – il terzo in dieci giorni! – ne sono la prova. Dopo nemmeno un mese di risalita dei contagi, il sistema sanitario (e di protezione civile) si trova nuovamente del tutto impreparato dinanzi a ciò che era ampiamente e da tutti previsto, nonostante il governo abbia avuto 5-6 mesi di tempo per rafforzarlo e riorganizzarlo.
Quello che andava fatto, e non è stato fatto, è sotto i nostri occhi

e oggi, a differenza della primavera scorsa, è sotto gli occhi dei cittadini, aumentandone l’esasperazione. Non sono state aumentate a sufficienza le terapie intensive né create strutture temporanee idonee a ospitare malati Covid; non è stato potenziato a sufficienza il personale negli ospedali e nelle Asl, per cui l’esito dei test non è ancora tempestivo come dovrebbe, il tracciamento dei contatti è lento ed è andato subito in tilt; non è stato potenziato il trasporto pubblico locale né sono stati implementati test rapidi per le scuole; non esistono protocolli per seguire nelle loro case i pazienti meno gravi, che invece vanno a intasare gli ospedali con ricoveri al 20-30 per cento non necessari.
Ad agosto, ricorderete, la telenovela del bando per i banchi a rotelle… Non sapevamo, all’epoca, che il bando per le nuove terapie intensive sarebbe arrivato solo a ottobre. E solo sabato scorso, 24 ottobre, la Protezione civile si è degnata di far partire i bandi per 1.500 unità di personale medico e sanitario e 500 addetti amministrativi a supporto del contact tracing.
Insomma, un disastro. Il conto, salato, è arrivato con il Dpcm di ieri a cittadini e imprese. Subdolamente: un inizio di lockdown senza chiamarlo lockdown.
Misure adottate con l’unico scopo di far vedere che il governo sta facendo qualcosa, purchessia. Il loro impatto sulla diffusione del virus sarà probabilmente trascurabile, visto che non sono supportate dai dati dei contagi nelle attività che si vanno a chiudere e limitare.

Si tratta quindi di misure prive di logica, ragionevolezza e proporzionalità, principi cardine che dovrebbero guidare le decisioni quando sono in gioco limitazioni così profonde delle libertà fondamentali. Esiste una stima dei contagi avvenuti nei locali di quelle attività, nelle ore in cui saranno obbligate a chiudere? Una rapida verifica si potrebbe fare: quanti ristoranti e locali sono stati chiamati dalle Asl per risalire ai contatti di un positivo tramite i loro registri? L’emergenza Covid sembra ormai autorizzare in astratto qualsiasi limitazione di diritti che, al pari della salute, sono tutelati dalla Costituzione. E per di più, con atto amministrativo, non avente forza di legge.
Bar e ristoranti, piscine e palestre, cinema e teatri, che in questi mesi hanno investito tempo e denaro per adeguare i loro locali, applicato i protocolli, insomma si sono preparati a tenere duro, rispettando le regole e accettando di dover comunque perdere clienti e fatturato, ora sono costretti di nuovo a chiudere da un governo che invece non ha fatto la propria parte, li ha (e ci ha) traditi.

Ieri il presidente del Consiglio Conte ha assicurato che le “misure di ristoro” per i titolari delle attività interessate dalla chiusura saranno in Gazzetta Ufficiale “già martedì” [con potenza di fuoco, immagino]. Ma quanto? Entro quando? In che forma? Con quali criteri? Ha parlato addirittura di accredito in conto corrente. Ma se si può fare oggi, perché non si è fatto la primavera scorsa?
Il ministro dell’economia e delle finanze Gualtieri ha parlato di indennizzi “entro metà novembre” per 350 mila aziende, credito di imposta sugli affitti, eliminazione della rata Imu, cassa integrazione per i dipendenti e 1.000 euro per i collaboratori.
Sono evidentemente consapevoli che la rabbia sta montando. Ma quale residua credibilità hanno, visto che le “misure di ristoro” promesse nei mesi scorsi, e introdotte con il “Decreto Agosto”, convertito in legge il 13 ottobre, non sono ancora arrivate?
Il Paese è una pentola a pressione pronta ad esplodere. Avrebbero dovuto immaginare – Daniele Capezzone, dalle trasmissioni tv in cui è ospite, lo ripete da mesi, fino alla noia – che in autunno i nodi di misure di “ristoro” gravemente insufficienti sarebbero venuti al pettine, e la crisi economica e sociale si sarebbe manifestata in tutta la sua drammaticità.
E per quanto il Palazzo e i media compiacenti possano chiamare in causa criminalità organizzata e fascisti per screditare le proteste, come spiega bene Max Del Papa oggi, sarebbe un grave errore sottovalutare l’esasperazione diffusa – e acuita dalla ormai palese inadempienza delle istituzioni. Sapevamo che il lockdown era una misura “one shot”, che un secondo sarebbe stato insostenibile, ma l’hanno sprecato…
Uno degli effetti dell’uso dei Dpcm, combinato con un sistema mediatico “corrotto”, perché militante,

è anche un processo decisionale deviato e un dibattito politico schiacciato sulle dinamiche interne alla maggioranza. Esautorato il Parlamento, le opposizioni si trovano in un cono d’ombra. Le misure da inserire nei Dpcm sono discusse in riunioni informali tra il premier, alcuni ministri e i capi delegazione dei partiti di maggioranza, poi tra governo e presidenti di regione,

e se i presidenti di regione – TUTTI i presidenti di regione – sono contrari, nessun problema: li si ignora, e si procede oltre:

quindi anticipate e commentate dalla stampa, e infine diventano esecutive senza passare per le aule parlamentari (che vengono “edotte” solo diversi giorni dopo). Le obiezioni di chi è fuori da questo circuito valgono quasi zero.
Da qui derivano, per esempio, le difficoltà del leader della Lega Matteo Salvini nel formulare una linea coerente, che rischia di venire contraddetta nella dialettica tra i governatori leghisti e il governo. E d’altra parte, farebbe il gioco dei suoi avversari se entrasse in conflitto aperto con essi su questa o l’altra misura. Non si parlerebbe d’altro.
In questa situazione di emergenza sanitaria ed economica, e di estrema debolezza del governo Conte, non sorprende che si torni a parlare di governo di unità nazionale – anche se ci sembra che non stiano arrivando segnali in questo senso dagli ambienti della maggioranza o dal Quirinale, e che si tratti più di un wishful thinking di alcuni commentatori e di settori dell’opposizione ansiosi di tornare in gioco.
Ma dopo essere state emarginate per mesi, le opposizioni dovrebbero davvero mettere la faccia nella gestione di un simile disastro? E per fare cosa esattamente?
Non vediamo all’orizzonte un “Dream Team” in grado di fare in 2-3 settimane ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare in 5-6 mesi. La prima misura da adottare, condividendone la responsabilità, sarebbe un nuovo lockdown. L’unità nazionale sarebbe stata auspicabile all’inizio di questa emergenza, o al più tardi alla fine del lockdown della primavera scorsa, fissando una data certa entro cui tornare al voto. Ma oggi, se dovesse giungere un simile invito, sarebbe unicamente perché Pd e 5 Stelle non vogliono essere i soli a intestarsi il secondo lockdown. Hanno fatto un disastro e le opposizioni dovrebbero arrivare in soccorso per spartirsi le colpe? Ricordiamo, tra l’altro, che l’ultima volta, dopo le “larghe intese”, ci siamo ritrovati con un certo movimento prima al 25, poi al 33 per cento…
Basta isteria. Non si può ridurre alla fame metà della popolazione, i partiti di maggioranza e più alti sponsor di questo governo si assumano per intero la responsabilità della totale impreparazione alla seconda ondata, dei decessi e dei fallimenti, e si voti in primavera. Un governo di unità nazionale, oggi, servirebbe solo ad annacquare le responsabilità, non certo per trovare ricette miracolose.
“Quella di far passare gli anti-lockdown per negazionisti è forse una delle truffe intellettuali più miserabili degli ultimi decenni”, ha osservato su Twitter il nostro Enzo Reale. E, ha aggiunto:

“Se sul merito delle misure adottate o da adottare le opinioni possono essere divergenti, è stupefacente come si accetti senza fiatare la loro imposizione al di fuori delle minime garanzie costituzionali, rinunciando in nome dell’emergenza ai principi dello stato di diritto. Ancora più sorprendente se si pensa che questa rinuncia proviene da quella parte dello spettro politico che ha fatto della legalità la sua bandiera contro gli avversari politici negli ultimi tre decenni. Ma evidentemente è una legalità selettiva, come la memoria”.
Federico Punzi, 26 Ott 2020, qui.

Poi chi ha ancora un po’ di tempo ed è interessato ai numeri completi e non taroccati, può magari andare a dare un’occhiata qui.
Ricordiamo, in ogni caso, che il mondo ci guarda e ci ammira, ma proprio tanto tanto tanto

Comunque non è il caso di preoccuparci eccessivamente, dal momento che adesso sappiamo esattamente come si diffonde il contagio

e abbiamo a disposizione un modo sicurissimo per evitarlo

e sappiamo con certezza che prima o poi smetterà di piovere e sorgerà l’arcobaleno

So che c’è poi una domanda, di carattere lessical-giuridico, che vi tormenta, ma io ho trovato la risposta, eccola:

Un’altra ottima notizia è che, alla faccia di quel genio del virologo (VIROLOGO eh, ho detto VIROLOGO!) Fabrizio Pregliasco che raccomanda alle coppie sposate o comunque conviventi l’astinenza o il fai-da-te (separato, mi raccomando, non reciproco!) perché lì è tuttotuttotutto pericolosissimo, anche le variazioni sul tema, anche le posizioni diverse che permettono di non respirarsi in faccia, il pericolo è annidato ovunque, alla facciaccia sua, dicevo, il sesso sicuro esiste anche al tempo del coronavirus

e comunque dobbiamo stare tranquilli, perché sappiamo con certezza che

ANDRÀ TUTTO BENE!

barbara

IL PIANOFORTE SEGRETO

Nata nell’anno del trionfo della rivoluzione comunista, Zhu Xiao-Mei rivela un precoce talento per la musica, in particolare per il pianoforte; viene perciò iscritta prima a una scuola musicale e poi al Conservatorio. Sulla sua strada si abbattono però due sciagure, una più spaventosa dell’altra: prima il “grande balzo in avanti” che produce miseria generalizzata e decine di milioni di morti, e poi la rivoluzione culturale, ossia quella cosa che stabilisce che letteratura, musica, arti figurative, storia, cinema, teatro e tanto altro ancora sono cose inutili e malsane e quindi via, distruggere tutto, bruciare tutto, svuotare le scuole, cancellare le lezioni, dare la caccia ai nemici della rivoluzione che si nascondono dappertutto – e dei cadaveri di questi nemici, a mucchi, si riempiono le inutilizzate aule del conservatorio, oltre ai suicidi di chi, dopo una vita integerrima, non regge alla vergogna di essere additato al pubblico ludibrio con le accuse più infamanti. E infine l’invio ai campi, anni di lavoro durissimo, di privazione di tutto, di fame, di indescrivibile sporcizia, di malattia e di morte. E nel frattempo il lavaggio del cervello dà i suoi frutti anche in Zhu Xiao-Mei, come in tutti gli altri: vergogna per la propria famiglia di origine borghese, peccato originale dal quale purgarsi diventando la più entusiasta dei rivoluzionari, la più implacabile accusatrice dei “nemici della rivoluzione”, con un piccolo rimorso per avere rifiutato alla vecchia nonna una visita, o anche solo una lettera, ma anche con la coscienza di avere fatto la cosa giusta; e se il partito dice che il padre è una spia, come si potrebbe dubitarne? La strada per i dubbi, per la presa di coscienza, per il recupero della propria lucidità mentale, per la conquista infine della libertà anche fisica e il ritorno alla musica sarà molto lunga, e dolorosissima, ma alla fine vittoriosa. Riporto alcune cose. Innanzitutto un breve ma illuminante capitolo.

  1. Campo 4619

Che contrasto tra le strade deserte di Pechino, svuotate dei loro abitanti, e la stazione brulicante di gente, ricoperta di banderuole in onore della Rivoluzione!
Mi apro un varco nella folla compatta cercando di orientarmi e, alla fine, intravedo il binario indicato come nostro luogo di ritrovo. I miei futuri compagni arrivano uno dopo l’altro. Ci sono allievi di tutte le scuole artistiche di Pechino: Conservatorio, Istituto d’Arte, Scuola di Cinema, Scuola di Danza, Scuola dell’Opera di Pechino. Un soldato indica ogni nuovo arrivato e ci affida a una sezione. Sono stati prenotati due vagoni speciali su un treno passeggeri diretto a Zhangjiako.
In attesa di partire, mi guardo intorno. Le famiglie si salutano, le coppie si scambiano le ultime parole tenere, i nonni sussurrano addii ai nipoti. Le persone si guardano, alcuni pensando che non si rivedranno mai più.

In lontananza, vedo giovani mamme affidare i loro neonati alle famiglie. A quella vista, ho un conato di vomito e sento vacillare il coraggio. Poi mi riprendo. È ridicolo. Una vera rivoluzionaria ignora ogni tipo di sentimentalismo.
In tutto siamo circa un centinaio. I soldati ci fanno salire sui vagoni. Una prima scossa e il treno oscilla. La stazione di Pechino si allontana, lentamente, tranquillamente. Poco dopo la partenza, il nostro Jigifenzi, l’attivista affidato alla nostra sezione, ci invita a intonare dei canti rivoluzionari in onore del presidente Mao e a leggere a voce alta alcuni estratti del Libretto rosso. A metà viaggio, il cielo si scurisce. Guardo fuori dal finestrino. Le nuvole sono talmente imponenti che si ha l’impressione che faccia già buio. Non si distingue più niente del paesaggio, tranne qualche luce, di tanto in tanto.
Arriviamo a Zhangjiako a fine giornata. I soldati ci fanno scendere dal treno e, dopo averci riunito nella piazza della stazione, ci stipano in due camion militari, una cinquantina di studenti per veicolo. Direzione: il campo 4619, a Yaozhanpu.
Attraversiamo la città di Zhangjiako. Ci troviamo a soli cinquecento chilometri da Pechino, eppure abbiamo l’impressione di essere in capo al mondo. Le strade sterrate sono deserte; solo il rumore dei motori squarcia il silenzio. Guardo gli edifici, tutti moderni, tutti brutti. Zhangjiako è di passaggio in un’eventuale invasione sovietica. Probabilmente è per questo che la città ha l’aspetto di un paesone. Impossibile immaginare che abbia conosciuto un’epoca d’oro nel xvii secolo sotto la dinastia Manciù dei Qing; allora era il centro del traffico del tè e dell’oppio tra Cina e Russia. Oggi si respira solo povertà e tristezza.
All’uscita della città, imbocchiamo una brutta strada. Due ore dopo, arriviamo infine a destinazione, col viso ricoperto da una maschera di polvere. Somigliamo talmente poco a degli esseri umani che fatichiamo a riconoscerci. Una prefigurazione degli anni a venire.

Il campo di Yaozhanpu, situato in collina, è costituito da tre edifici bassi di mattoni rossi, tipici fabbricati dell’esercito, che circondano un’enorme piazza.
«Adunata!»
Restiamo in piedi, al buio e al freddo.
«Studenti, verrete divisi in sezioni. Poi andrete nelle vostre stanze».
Penetro insieme ai miei compagni nella stanza che ci è stata assegnata. È una camera di una ventina di metri quadrati, con una decina di pagliericci poggiati a terra, talmente stretti che mi domando come riusciremo a dormirci. Poso le mie cose sul mio; è ricoperto di scarafaggi. In quel momento entra un soldato.
«Studenti, in refettorio!»
All’ingresso del locale, ci viene data una gamella lurida che sembra essere stata usata più come vaso da notte che per consumare pasti. Ho lo stomaco talmente chiuso che non riesco a buttare giù nulla.
La prima notte fatico a prendere sonno. Penso agli scarafaggi. Finiranno per entrarmi nelle orecchie e perforarmi i timpani, ne sono sicura. Accanto a me c’è Ouyan, anche lei pianista. Ogni volta che si muove, mi sveglio. Alla fine, ci piazziamo una dalla parte della testa e una dalla parte dei piedi per riuscire a dormire meglio.
Il giorno dopo alle sei di mattina, un soldato arriva a svegliarci e veniamo subito radunati nella piazza d’armi. Un uomo sulla cinquantina, dagli occhi molto dolci, avanza verso di noi. È Tian, il capo-campo. Ci osserva a lungo, poi si rivolge a noi con voce grave.
«In mezzo a voi ci sono tigri e dragoni» espressione cinese per indicare eminenti personalità, «ma le vostre menti rimangono borghesi; per questo dovete essere rieducati».
Terminato il discorso di Tian, prendono la parola altri soldati, ci spiegano il programma delle attività e ci illustrano il regolamento del campo. Niente è lasciato al caso: abiti rigorosamente neri, grigi o blu, capelli corti, lo stesso cappello per tutti, niente gonne per le ragazze.
In pochissimi giorni, la mia speranza di trasformarmi in una vera rivoluzionaria sfuma. La vita al campo non è fatta per educarci; è fatta per abbrutirci. Tutti i giorni ormai si somigliano, scanditi dagli stessi lavori forzati. E questo, ancora non lo so, durerà cinque anni.
Ogni mattina, sveglia alle sei.

«In piedi!» urla il soldato affidato alla nostra camerata accendendo la luce.
La giornata inizia con una corsa a passo cadenzato. Poi per un’ora studiamo il Libretto rosso. Sempre gli stessi passaggi. Lavoriamo principalmente su due trattati fondamentali: Sulla pratica e Sulla contraddizione; e tre articoli: «Servire il popolo», «Omaggio al povero Chang Szu-teh», un soldato morto per il popolo, e «Come Yu Kong rimosse le montagne», storia di un vecchio che aveva deciso di rimuovere a colpi di piccone tre grandi montagne che bloccavano l’accesso alla sua abitazione. Il suo vicino di casa si prendeva gioco di lui, ma non il Cielo, che alla fine gli inviò due geni per portare via gli ostacoli sulle loro spalle. Le tre montagne di Mao sono l’imperialismo, il capitalismo e il feudalesimo.
Terminato lo studio del Libretto rosso, verso le otto di mattina ci rechiamo nei campi. La nostra missione: coltivare riso in uno dei luoghi della Cina che vi si presta meno. Terreni aridi e sterili, battuti da venti glaciali, imbrigliati in paesaggi gialli e neri, opprimenti. Prima cosa da fare: scavare canali di irrigazione con vanghe per lo più rotte. In seguito andiamo a prendere della merda nelle latrine da campo per spanderla nei canali.
Dopo qualche minuto dentro l’acqua ghiacciata, non sento più i piedi. Ho spesso la febbre che mi fa sudare. Ben presto smetto di avere il ciclo e ho male allo stomaco, ma nel campo non ci sono né medicinali né infermerie: saranno alcuni compagni, con qualche rudimento di agopuntura, ad alleviare un po’ il mio dolore. In estate siamo ricoperti di punture di zanzara e le sanguisughe ci si incollano alle gambe. Per quanto rifletta, il coraggio mi abbandona.
Per stimolarci, il nostro Jigifenzi, con l’aiuto dei soldati, ci mette in competizione l’uno con l’altro. In quanto tempo riusciremo a scavare questo canale? Chi sarà il più veloce a procurarsi dell’acqua? Chi porterà la maggior quantità di merda dalle latrine? Lui stesso dà il buon esempio lavorando più veloce di tutti noi. Faccio del mio meglio, angosciata all’idea delle critiche che mi aspettano, la sera, in sede di pubblica denuncia. Ma vista la mia corporatura minuta, non ho nessuna possibilità di vincere.
A mezzogiorno, pranziamo sul posto, nel campo. Uno di noi viene incaricato di andare a cercare dell’acqua calda e del cibo, spesso e volentieri patate che ogni giorno tagliamo in modo diverso, a dadini, a bastoncini, a fette, o che mescoliamo a qualche cavolo e carota, giusto per variare un po’. Talvolta, abbiamo diritto a della carne di maiale.
Più ancora delle mattine, i pomeriggi sono interminabili, e guardo l’orologio ogni cinque minuti. Lavoriamo fino al tramonto. Poi rientriamo alla base. Dopo una giornata passata a sudare, con i piedi immersi nell’acqua, siamo di una sporcizia ripugnante, ma dobbiamo andare dritti alla seduta di autocritica e di denuncia senza aver avuto il tempo di lavarci – non è un dettaglio da poco, ma gioca un ruolo fondamentale nella «rieducazione»: impedire di lavarci è un modo fra tanti di minare il nostro senso di dignità.
Riuniti in piccoli gruppi di dieci, passiamo sotto l’autorità di un soldato addestrato nell’arte di metterci gli uni contro gli altri. Gli esercizi di autocritica li pratico da tempo, ma queste sedute a porte chiuse, in capo al mondo, hanno un sapore particolare. In effetti capiamo quasi subito che la posta in gioco è cruciale, sebbene tacita: coloro che si comportano meglio, se ne andranno via prima. Diamo il via alla lotta. Sentiamo che questo è il prezzo della libertà.
Quando la tua esistenza è ridotta a delle mansioni snervanti, quando nessuno spirito superiore, sia esso culturale o religioso, ti aiuta a canalizzare gli istinti, l’unico modo di difendersi è aggredire.
«Zhang non ha lavorato abbastanza» grida un compagno. «È rimasto venti minuti in bagno». E Zhang risponde attaccando a sua volta: «Ho sentito Li lamentarsi del lavoro al campo, due volte!» Usciamo sfiniti da quelle sedute. Impossibile fare conversazione. Non osiamo neanche guardarci negli occhi. Eppure, dobbiamo continuare a convivere.
Torniamo in camera per cenare, seduti sui nostri pagliericci davanti alle patate, al cavolo e alla misera porzione di riso giallo. Solo una volta finito il pasto, possiamo finalmente lavarci. Chinati sopra un buco scavato in un angolo della stanza, a turno, ci spruzziamo addosso un po’ di acqua. Davanti agli altri. Qui non c’è posto per nessun tipo di intimità. L’idea stessa rivela sentimenti borghesi.
Dopo esserci lavati, osiamo finalmente guardarci, scambiare qualche parola. Ma l’unico posto dove possiamo parlare liberamente tra noi è una stanzina attigua dove andiamo a prendere l’acqua calda. Lì officia un personaggio eccezionale, Guo Baochang. Un giorno diventerà uno dei più grandi cineasti cinesi. Più grande di tutti noi, fin dal suo arrivo è stato considerato un accanito oppositore della Rivoluzione, per questo è stato incaricato di scaldare l’acqua per il campo. Ogni giorno, deve trasportare grandi quantità di acqua e carbone, passare dal freddo glaciale dell’esterno al calore umido della stufa. Il che non intacca il suo buonumore.
Così, qualche giorno fa, si è innamorato di una di noi, una cantante molto carina del Conservatorio. Per dichiararle il suo amore secondo la tradizione cinese, incarica un messaggero di consegnarle una lettera d’amore. La sua scelta, secondo lui, è appropriata: un giovane allievo dell’Opera di Pechino, che ha studiato talmente poco che fatica a scrivere le sue stesse autocritiche. Guo Baochang si crede al sicuro da qualsiasi indiscrezione.
Sfortunatamente il giovane artista non soltanto è ignorante, ma è anche curioso. Apre la lettera e scopre un testo talmente difficile che un dizionario non basta a decifrarlo. Allora consulta i suoi compagni… ed ecco che tutto il campo ne è a conoscenza prima ancora che la bella riceva la sua lettera.

La giornata è finita, ma le nostre pene non sono ancora terminate. Spesso le esercitazioni di allarme ci svegliano in piena notte per prepararci a un’invasione dei Sovietici. Sentiamo l’urlo della sirena e poi l’ordine di adunata:
«Allerta! Allerta!»
Allora dobbiamo urgentemente abbandonare il campo portandoci via le nostre cose. La prima prova è raccogliere le nostre cose nel buio totale della stanza, tanto che finisco per dormire completamente vestita, per maggiore sicurezza. In seguito dobbiamo correre in montagna per diverse ore di fila, in piena notte. Poi all’alba torniamo al campo senza aver potuto dormire.
Quando non è un allarme a svegliarci, è una voce che risuona in piena notte. Misteriosa, proveniente da non si sa dove, canta la gloria della Rivoluzione. La nostra Jigifenzi parla nel sonno. All’inizio eravamo sconvolti: una tale fedeltà, una tale lealtà, espresse anche nel sonno, non è ammirabile? A poco a poco, tuttavia, si insinua il dubbio. Non è un po’ troppo tutte le notti? E non è forse per verificare che abbiamo sentito bene la sua professione di fede che si preoccupa la mattina di averci disturbato? Allora mettiamo a punto una messinscena: ogni volta che ci porge le sue scuse, la rassicuriamo:
«Ma no, non ci hai affatto disturbato, non abbiamo sentito nulla».
La domenica è dedicata alle pulizie. Mentre laviamo le lenzuola, guardiamo il cielo nella speranza che un minimo di sole ci permetta di farle asciugare. Molto spesso, meno di un’ora dopo, si alza un vento sabbioso e le nostre lenzuola diventano tutte grigie e gialle, come il paesaggio, ancora più sporche di prima.
Talvolta, la domenica, possiamo guardare un film: albanese, di solito. La qualità lascia a desiderare ma non ne perdiamo uno, per i pochi baci – inimmaginabili in un film cinese dell’epoca. Ogni volta che si annuncia una scena spinta, il soldato responsabile della proiezione si precipita davanti allo schermo per nasconderci l’inconcepibile. Ma spesso arriva troppo tardi, con nostro grande piacere. Bisogna forse ricordare che abbiamo tutti fra i diciannove e i trent’anni?
In mezzo a quella miseria quotidiana rimane un raggio di sole: l’arrivo della posta. Quando non viene censurata e quando il destinatario non è costretto a leggerne pubblicamente il contenuto. Quello che è successo a un’amica in un altro campo: ha dovuto rivelare a tutti i suoi compagni i dettagli delle lettere del suo fidanzato.
Mi scrivo regolarmente con mia madre, rimasta a Pechino, e con Xiaoyen. Presto la mia sorella più piccola, che allora ha quindici anni, viene mandata a Beidahuang Anlun, nel Grande Nord selvaggio della Manciuria, da dove continua a scrivermi.
Le sue prime lettere sono spaventose. Durante i raccolti, deve lavorare dalle due del mattino alle undici di sera. Per poter pranzare, a mezzogiorno, deve precipitarsi dall’altra parte del campo dove viene consegnato il cibo. I primi arrivati mangiano più possibile. Essendo la più giovane del campo, corre meno veloce degli altri, e spesso si ritrova senza niente.
Tra le varie mansioni, deve occuparsi di un allevamento di cervi – in Cina i cervi vengono allevati per le corna, da cui si ricavano farmaci. Un giorno, mentre stava inseguendo uno degli animali scappati, ha quasi rischiato di morire sprofondando in una palude. Un’altra volta, mentre stava falciando, ha visto la sua migliore amica morire fulminata perché ha toccato un cavo caduto a terra. Si è incaricata di vegliare sulle sue spoglie fino all’arrivo dei genitori, ma una notte si è assopita e, al risveglio, ha assistito allo spettacolo del corpo rosicchiato dai ratti. Il padre della ragazza è impazzito. È morto poco tempo dopo.
Cosa rispondere a una lettera di Xiaoyen? Non posso fare altro che cercare di infonderle coraggio. In seguito, per tirarla su, le invierò una copia del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx.
Un giorno, ricevo una lettera da parte di mia madre. Anche lei ormai è in un campo di lavoro.

Quest’altro pezzo è un breve brano del capitolo successivo, ancora più esemplificativo dell’abbrutimento, dell’annientamento di ogni umanità, dell’annichilimento della persona perpetrato dal partito comunista, che ben poco ha da invidiare al partito nazista.

Poco dopo il nostro arrivo, ci invitano a riflettere sull’esempio di una studentessa universitaria di un campo vicino che ha dato prova di eccezionale fedeltà a Mao. Due telegrammi successivi l’avevano informata che suo figlio era gravemente malato e che doveva tornare in fretta a Pechino. Ogni volta lei ha risposto che doveva curare un maialino, anche lui sofferente, che le era stato affidato. Un terzo telegramma le ha annunciato il decesso del figlio. Non ha versato una lacrima. Qualche giorno dopo, il maialino è morto. E lei ha pianto.
Rimaniamo perplessi. È davvero necessario spingersi così oltre per essere fedeli al pensiero del presidente Mao? Ma, superato un primo momento di stupore, ci abituiamo all’idea, e ben presto la maggior parte di noi considera questa donna lodevole: un maiale nutre la collettività, l’attaccamento che si prova per il proprio figlio è solo individualista e borghese. Le giovani madri intorno a me esprimono qualche riserva, ma finiscono per approvare. Ne sono davvero convinte? Mi ci vorranno altri cinque anni perché riesca a pormi la domanda con lucidità. Cinque lunghi anni di campo prima di accettare il dubbio, prima di lasciar nascere in me qualcosa che somigli alla lucidità.

E infine una battuta da un’intervista:

«Se Dio esiste, che cosa vorrebbe che le dicesse?»
«Sei stata abbastanza coraggiosa. Vieni, ti presento Bach».

È un libro che va letto, non solo perché è di straordinaria bellezza e intensità, ma anche perché, anche se da queste vicende sono passati diversi decenni e alcune cose sono, almeno apparentemente, cambiate, ci aiuta a capire meglio che cosa sta succedendo in questo momento, e perché.

Zhu Xiao-Mei, Il pianoforte segreto, Bollati Boringhieri
il-pianoforte-segreto
barbara

AGGIORNAMENTO: E tu guarda la combinazione.

PADRE E FIGLIO

Già una volta ho avuto modo di osservare che i libri sembrano vivere di vita propria, e questo libro lo conferma. Mi è stato regalato a Natale del 1965: è rimasto lì, dimenticato, ignorato per oltre mezzo secolo, sopravvissuto a una mezza dozzina di traslochi, alle lunghe assenze dei soggiorni africani, alle lune e ai soli, ai mesi e alle stagioni… Poi ho letto il libro di Simone; finito quello sono andata alla libreria dei libri non letti e la mano si è diretta su questo, di cui ignoravo del tutto l’esistenza, per non parlare del tema.

Questo, a differenza del precedente, è un libro rigorosamente autobiografico. I genitori dell’autore, calvinisti estremisti, non appena vengono benedetti, non più giovanissimi, dalla nascita di un figlio, si affrettano a “dedicarlo al Signore” e a dire che se il Signore vorrà riprenderselo presto, loro Glielo lasceranno volentieri, perché sicuramente Lui sa meglio di loro che cosa sia giusto fare, e con grande frequenza lo ripetono anche al bambino, che se dovesse morire loro saranno contenti di restituirlo al Signore, al quale fin dalla nascita è stato dedicato. Nella vita del bambino non entrano giochi, non entrano letture profane, non entrano bambini con cui giocare, non entrano argomenti diversi da quelli religiosi, se non quelli relativi all’attività del padre scienziato – ma scienziato alquanto sui generis. Non è previsto neppure che, una volta diventato adulto, svolga una qualche attività per guadagnarsi da vivere, perché la sua vita tutta intera deve essere dedicata al Signore. E tutta la sua vita si svolge nella piccolissima comunità dei “convertiti”, chiamati “i Santi”, ossia quelli che hanno visto la luce e, dopo un rigoroso esame, hanno ricevuto un secondo battesimo per immersione totale – e guardando con sufficienza, se non con disprezzo, quelli che “credono nel pedobattesimo”. Quando finalmente si decide a mandarlo a una scuola, gli ricorda a ogni istante che ai suoi compagni deve parlare di Dio, sempre, senza mai stancarsi, solo di Dio, e se non fanno parte della loro comunità, non deve frequentarli. Va da sé che solo i membri di quella piccolissima comunità sono destinati alla salvezza: tutto il resto dell’umanità, non importa quanto buoni, non importa quanto cristiani, non importa quanto osservanti e praticanti, non importa quanto devoti, non importa quanto dediti alla preghiera e alle opere di carità, bruceranno per l’eternità tra le fiamme dell’inferno.

Vi sentite soffocare? Immaginatevi quel povero bambino!

Quando poi è costretto a mandarlo a studiare a Londra, lo martella con lunghissime lettere quotidiane, in cui gli chiede assillantemente di confermargli che la sua fede è saldissima, che si sente sempre consacrato al Signore, che nella sua mente non vi sono pensieri se non quelli dedicati al Signore, esigendo risposte immediate, altrettanto lunghe e altrettanto dettagliate. E ancora non siamo arrivati al clou.

I nostri pensieri erano in quel tempo tutti assorti nell’aspettazione di una prossima venuta del Signore che, come mio Padre e quelli a lui uniti dalla stessa fede credevano, sarebbe apparso senza il minimo avvertimento e avrebbe assunto con sé in gloria eterna tutti coloro che accettando la Redenzione si erano assicurati l’immortalità. Questi erano, in complesso, ben pochi, e pensavamo che il mondo, dopo pochi giorni di sbigottimento per la totale sparizione di queste persone, sarebbe tornato alle sue normali abitudini di vita, solo affondando più rapidamente nella corruzione morale, data la partenza di quelle anime elette. L’interpretazione di una profezia aveva convinto mio Padre che questo evento era assolutamente imminente, e a volte, quando ci separavamo dopo cena, egli soleva dire, con una luce di rapimento negli occhi: «Chissà? magari domani potremo trovarci lassù, con tutta la corte dei Santi di Dio». […]
Mio Padre visse ancora per un quarto di secolo senza mai perdere la speranza di «non conoscere la morte», e quando si avvicinò agli ultimi momenti era profondamente amareggiato per quella che considerava una meschina ricompensa alla sua lunga fede e pazienza.

La rottura, naturalmente, è inevitabile. Estremamente dolorosa per entrambi, a causa del grande affetto che nonostante tutto li unisce, ma quando il giovane arriva ad avere ben chiaro che per accontentare la follia paterna dovrebbe sacrificare tutta intera la propria vita, la propria intelligenza, la propria creatività, la  propria capacità di comunicare col prossimo, ossia, da cristiano profondamente credente, tutti i doni che Dio gli ha dato, non può fare altro che scegliere la libertà.

Edmund Gosse, Padre e figlio, Adelphi
padre e figlio
barbara

QUAND ON EST CON ON EST CON

come cantava il grande Georges Brassens.

Papa Francesco: ‘Una triste notizia’

I profughi cubani (sì, profughi: quelli sono profughi veri) invece commentano così

Agli amanti di Castro di casa nostra, sicuramente a lutto stretto per la morte del vecchio porco, dedico invece questo.

barbara

SIRIA MON AMOUR

Mi piace l’Italia, mi piace da morire. Mi piaceva già prima di ciò che mi è accaduto, adesso adoro ogni sua sfumatura, ogni suo vicolo, ogni suo terrazzino fiorito, ogni sua testimonianza di libertà. Perché finché non te la tolgono, la libertà, non ti rendi nemmeno conto di averla. Tutto ciò che nella mia città italiana mi pareva ovvio, andare a scuola, telefonare a un’amica, sorridere a un ragazzo che ti offre da bere, a sei anni dal mio ritorno mi appare ancora un privilegio, una sorta di premio quasi immeritato, tanto mi strugge, a volte, e mi commuove.
Non ti rendi conto di quanto la libertà ti sia vitale fino a che non la perdi.
Ma quel giorno, seduta sul trolley, con la Pausini nelle orecchie, non lo sapevo. Ho preso l’aereo e sono partita felice.

Non è un romanzo: è la storia autentica di Amani El Nasif, cresciuta in Italia e riportata dalla madre nella natale Siria con un pretesto, per tenervela segregata per sempre, “per il suo bene”, per farle smettere la vergognosa abitudine di portare jeans e maglietta, di andare in giro con le amiche e parlare con i ragazzi. Un marito che la frusti e gli occhi di tutta la tribù addosso sono la cura ideale.

Preferivo stare nei campi che in casa, ma gli zii avevano deciso che non ci sarei più andata perché avrei potuto conoscere qualche ragazzo e comportarmi male.
Ero italiana, ero una ulech, una puttanella.
Nonostante il caldo, anche le pulizie di casa le dovevo fare con i tre vestiti e con i calzini o le scarpette, più insopportabili dei vestiti.
Mi pareva impossibile che le mie cugine non si ribellassero a quelle regole, che erano tortura pura.
Quando io chiedevo: «Ma non avete caldo? Ma perche non camminate scalze? Ma perché non vi tenete un solo vestito addosso?» esclamavano allarmate:
«Haram, Haram!».
Haram significa peccato, e nel villaggio di Al Karatz il peccato per le donne sta nel solo fatto di esistere, con i loro corpi, con la loro pelle profumata, con i loro sguardi.
Haram è quando ti sbuca un ricciolo dal velo, anche se tra le mura ti possono intravedere soltanto i familiari.
Haram è quando lavi i piatti e le maniche della veste ti salgono ai gomiti, impunemente, e allora devi coprirti le braccia con dei manicotti ricavati da vecchi calzini.
Haram è quando stai cucinando da ore e hai talmente caldo che ti togli i calzini e rimani a piedi nudi.
«Metti i calzini!» ti dice tuo zio. «La porta è aperta! La gente passa, ti vede!»
Haram sei tu che dici: «Fa caldo, tanto passano solo i parenti».
Haram sei tu che ti impunti e i calzini non li metti.
Allora lui srotola il berim, la corda che gli tiene sul capo la kefiah, e comincia a dartelo sui piedi, fino a farteli diventare viola.
Haram sono quei piedi colpevoli, doloranti e gonfi, ai quali infili i calzini perché non ce la fai a prendere un’altra frustata.
Haram è tutto, haram ero io, che non avevo fatto niente.
Reagivo, gridavo, mi ribellavo. Nessuno veniva in mia difesa, nessuno mi dava ragione. Nemmeno mia madre, nemmeno mia sorella. Mai.

Solo la sua incrollabile determinazione a resistere (prendete nota: questa è resistenza, questa ha il diritto di portare il nobile nome di resistenza) a pressioni e intimidazioni e minacce e ricatti e violenze fisiche di ogni sorta per farle sposare il detestabile e detestato cugino – oltre, alla fine, un inaspettato colpo di fortuna – la salveranno dal condividere la sorte dei settanta milioni di spose bambine nel mondo.

Amani El Nasif – Cristina Obber, Siria mon amour, Piemme
Siria mon amour
Poi, non del tutto fuori tema, andate a vedere anche questo.

barbara

AMA IL FUTURO

Che sarebbe una cosa, libro e CD, pubblicata da Feltrinelli, su Ai Weiwei, quel poliedrico artista e dissidente cinese a cui hanno chiuso il blog e poi lo hanno messo in galera e poi gli hanno dato una multa pari a circa un milione e mezzo di euro e un po’ di queste cose le avevo lette in giro e così quando ho visto il libro sullo scaffale della libreria mi era sembrato che fosse una buona idea prenderlo. Mi era. Perché il libro comincia con una intervista che dire che due palle dovrebbe rendere l’idea ma invece non la rende mica, perché altro che due palle, saranno almeno una dozzina, e di una cretinitudine che se lo fate fare come esercitazione ai bambini delle elementari non ci riescono mica, a fare domande e commenti altrettanto cretini.

Incredibile!
Trovo interessante che il blog sia cominciato con una frase scritta.
Anche tu trovi che, rispetto agli inizi del Ventesimo secolo, ora ci sia un rapporto meno stretto tra arte e letteratura?
Come definiresti la poesia?
Trovo affascinante che tu, come rarissimi altri artisti, sia riuscito a sviluppare una vera pratica architettonica, accanto a quella artistica.
È estremamente affascinante. Quindi per te Wittgenstein [il filosofo, ndb] è stato molto più importante di qualsiasi architetto?
È un’ottima rivista.

Poi c’è una roba che non mi ricordo più, poi qualche pagina dal suo blog e poi un po’ di articoli di Mauro Del Corona pubblicati sul Corriere della Sera. Insomma, se lo volete comprare, per carità, siamo in democrazia, non vengo mica a prendervi a botte, però insomma vedete voi.
amailfuturo
barbara

CORREVA L’ANNO 1953

Cioè tanto tanto tanto tempo fa, quando io da poco avevo cominciato a reggermi in piedi e molti di voi che mi state leggendo eravate di là da venire. Tempi antichi, dunque, con mode antiche e consuetudini antiche e costumi antichi. Diciamo pure arretrati.
A quei tempi lontani si riferisce un video degli anni Sessanta che ci giunge ora, in cui possiamo ammirare un Gamal Abdel Nasser che ammicca e gigioneggia di fronte a un pubblico divertito mentre racconta un suo incontro con i Fratelli Musulmani avvenuto, appunto, nel fatidico anno 1953.
Un’avvertenza: nei sottotitoli in francese c’è un’inesattezza, o meglio, un adattamento a uso di chi, non conoscendo la storia antica dell’Islam, avrebbe difficoltà a cogliere le sfumature. Per chi non conosce l’arabo e se la cava male con il francese, comunque, metto più sotto la traduzione in italiano pubblicata qui.

Nasser: “Nel 1953 noi volevamo veramente, onestamente, collaborare con i fratelli musulmani, al fine di farli avanzare sulla strada giusta. Ho incontrato il consigliere generale dei fratelli musulmani. Ha presentato le sue richieste.
Che cosa ha chiesto?
‘Prima di tutto – mi ha detto – bisogna che tu imponga il velo in Egitto. E che ordini a tutte le donne che escono in strada di velarsi.’
[RISATE]
“A ogni donna in strada –“
[grido dalla platea “CHE SE LO METTA LUI!” seguito da RISATE del pubblico e di Nasser]
“E io, ‘Sarebbe un ritorno all’epoca di Al Hakim Bi Amri Allah, che proibiva alle donne di uscire di giorno, e allora esse uscivano di notte.’
[RISATE]
“Io ho detto, ‘A mio avviso, ognuno è libero di fare le sue scelte.’ E lui mi ha risposto: ‘No! Sta a te decidere, in quanto governatore responsabile ‘
Io gli ho risposto, “Signore, voi avete una figlia che frequenta la facoltà di medicina, e non porta il velo.
[RISATE e APPLAUSI]
Perché non la obbligate a portare il velo? Se voi—
[APPLAUSI , grande sorriso di Nasser, che assapora il boato di approvazione finale] “Se voi non riuscite a far portare il velo a una sola figlia, che per di più è la vostra, come potete pensare che riesca io a far indossare il velo a 10 milioni di donne egiziane?”

Poi magari fate un salto da lui, che al video aggiunge un interessante documento.
E per concludere, una bella carrellata di immagini dell’università del Cairo, in cui possiamo ammirare le magnifiche sorti e progressive della società islamica.
cairo-uni-1
cairo-uni-2
cairo-uni-3
cairo-uni-4
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2009

barbara

Piccola nota a margine: e mentre i buoni cristiani pregano e digiunano, i buoni musulmani massacrano i cristiani. Un po’ meno digiuni e un po’ più azione no, eh?