E QUANDO CREDI CHE ABBIANO TOCCATO IL FONDO

loro sono già al settantaquattresimo piano interrato. Quella credevo essere il fondo è la gender archaeology: la conoscevate? L’ho trovata ieri girando per FB:

Galatea Vaglio

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La gender archaeology continua ad interessare il pubblico: qui la mia intervista su Radio Immagina. 
La gender archaeology è un arbitro che controlla che i reperti non siano interpretati attraverso pregiudizi di genere: non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere, solo evitare che sulla base di pregiudizi la loro presenza venga negata o sottostimata. 
( E grazie, come semore, alle #lezionidistoria su Valigia Blu e ad @Arianna Ciccone

Stendiamo un velo pietoso sull’italiano (che se dovessi correggere non saprei da che parte cominciare), da parte di una che ha scritto un libro per insegnare come si parla e scrive correttamente in italiano, ma apprezziamo moltissimo che “non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere” – e si noti l’indicativo, che sembrerebbe suggerire che le donne avrebbero effettivamente avuto il potere, il che induce a chiederci come mai poi lo abbiano perso fino a ridursi, non di rado, a mera proprietà dell’uomo. Poi non mi è molto chiaro il ruolo di quel “necessariamente”, soprattutto in quella posizione, ma sarà sicuramente un limite mio. Quello che invece mi è proprio del tutto oscuro è a chi mai potrebbe venire in mente di negare la presenza delle donne, se non altro per il piccolo dettaglio che le persone hanno continuato a nascere. Cioè, è vero che i teorici del gender, di cui la Signorina è una strenua sostenitrice, negano categoricamente che solo le donne possano partorire, però di prove finora non mi sembra che ne abbiano portate molte. Bon, come dice il buon Andrea Marcenaro. Questo è il fondo, dicevo. Che ho inviato a un gruppetto di amici. Uno dei quali mi ha risposto:

Perché voi non sapete che c’è il gender climate change. Basta cercare con google. E poi c’è questa perla:

Il Pene come Causa del Climate Change

Pubblicato da Massimo Lupicino il 23 Maggio 2017

Tenetevi forte perché l’argomento è decisamente…hot.

Due accademici americani: Peter Boghossian, insegnante di filosofia all’Università di Portland e James Lindsay, dottore in matematica con studi in fisica, hanno pensato bene di dimostrare quanto fosse ridicolo, assurdo e politicamente motivato il processo di peer-review di paper che trattano argomenti cari al versante liberal. Per farlo, hanno deciso di inventarsi di sana pianta un paper con il seguente titolo: “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale”. Un paper-bufala, volutamente privo di alcun senso, basato su due cavalli di battaglia molto cari al versante liberal più militante: ovvero la critica di qualsiasi espressione di mascolinità in ogni sua forma e, ovviamente, il Climate Change. Il tutto condito da termini ed espressioni roboanti quanto del tutto prive di significato.
Il loro esperimento ha avuto successo: il paper-bufala in questione è stato infatti referato e pubblicato dalla rivista Cogent Social Sciences, che orgogliosamente si definisce “rivista multidisciplinare che offre peer-review di alta qualità nel campo delle scienze sociali”.

L’Abstract:

Cominciamo subito con l’Abstract, semplicemente esilarante nonostante l’obbiettiva difficoltà che si incontra nel tradurre un testo volutamente sconclusionato:

Il pene anatomico potrebbe anche esistere, ma come le donne transgender hanno un pene anatomico prima dell’operazione, allo stesso tempo si può sostenere che il pene a fronte del concetto di mascolinità è un costrutto incoerente. Noi sosteniamo che il pene concettuale si comprende meglio non come organo anatomico, ma come costrutto sociale isomorfico ad una tossica mascolinità prestazionale. Attraverso una dettagliata critica discorsiva post-strutturalista e basandoci sul’esempio del climate change, questo paper sfiderà la visione prevalente e dannosa che il pene venga concepito come organo sessuale maschile, e gli assegnerà, piuttosto, il ruolo più consono di elemento di prestazione maschile”.

Con un Abstract del genere, si può intuire facilmente che l’articolo è ricco di perle. Come questa, per esempio:

Così come la mascolinità è intimamente legata alla prestazione, allo stesso modo lo è il pene concettuale (…). Il pene non dovrebbe essere considerato come onesta espressione dell’intento dell’attore, quanto piuttosto dovrebbe essere presentato in un’ottica di performance di mascolinità o super-mascolinità. Quindi l’isomorfismo tra il pene concettuale e quello che la letteratura femminista definisce “super-mascolinità tossica” è definito attraverso un vettore di “machismo braggadocio” culturale maschile, con il pene concettuale che gioca il ruolo di soggetto, oggetto, e verbo dell’azione

Il giudizio dei reviewers

Cogent Social Sciences ha accettato l’articolo con giudizi incredibilmente incoraggianti, e assegnando voti altissimi in quasi tutte le categorie. Uno dei reviewer ha commentato: “L’articolo cattura l’argomento della super-mascolinità attraverso un processo muti-dimensionale e non lineare”. L’altro reviewer l’ha giudicato “Outstanding” in ogni categoria. Tuttavia prima della pubblicazione Cogent Social Sciences ha richiesto alcune modifiche per rendere il paper “migliore”. Modifiche che gli autori hanno apportato in un paio d’ore senza particolari patemi, aggiungendo qualche altra scempiaggine come il manspreading (la tendenza che certi uomini hanno a sedersi con le gambe allargate), e “la gara a chi ce l’ha più lungo”.

E il Climate Change?

Gli autori hanno sostenuto nel paper che il climate change è concettualmente causato dai peni: “Il pene è la fonte universale prestazionale di ogni stupro, ed è il driver concettuale che sottende alla gran parte del climate change”.

Approfondendo l’ovvio concetto nel seguente modo:

Gli approcci distruttivi, insostenibili ed egemonici maschili nel mettere sotto pressione la politica e l’azione ambientalista sono il risultato prevedibile di uno stupro della natura causato da una mentalità dominata dal maschio. Questa mentalità si comprende meglio riconoscendo il ruolo che il pene concettuale riveste nei confronti della psicologia maschile. Applicato al nostro ambiente naturale, specialmente agli ambienti vergini che possono essere spogliati facilmente delle loro risorse naturali e abbandonati in rovina quando i nostri approcci patriarcali al guadagno economico li hanno privati del loro valore intrinseco, l’estrapolazione della cultura dello stupro inerente al pene concettuale appare nella sua chiarezza”.

Il pensiero degli autori

Gli autori dell’articolo-bufala dedicano ampio spazio ai motivi che li hanno spinti a scrivere il paper in questione, e criticano senza pietà i fondamentalismi legati all’ideologia liberal prevalente. Fondamentalismi che sottendono anche alle pubblicazioni scientifiche e, in particolare, a quel processo in sé delicatissimo di peer-review che dovrebbe aiutare a distinguere la cattiva ricerca da quella buona.
Gli autori intendevano provare o meno l’ipotesi che l’architettura morale costruita dai settori accademici più liberal fosse la discriminante prevalente nella decisione se pubblicare o meno un articolo su una rivista. In particolare, la tesi degli autori era che gli studi sul gender fossero inficiati dalla convinzione quasi-religiosa nel mondo accademico che la mascolinità fosse causa di ogni male. A giudicare dal risultato, si può ben dire che la loro ipotesi sia stata pienamente confermata.

Il “dietro le quinte”

Tra le curiosità più degne di nota va segnalato che gli autori, al fine di sostenere la teoria della causa peniena del climate-change, hanno anche allegato un riferimento totalmente sconclusionato ad un articolo inesistente creato da un generatore algoritmico di paper a sfondo culturale chiamato “Postmodern Generator”.
Inoltre hanno volutamente riempito l’articolo di termini gergali, contraddizioni implicite (come la tesi secondo cui gli uomini super-mascolini sono sia al di fuori che all’interno di certi discorsi nello stesso momento), riferimenti osceni a termini gergali riferiti al membro maschile, frasi insultanti per gli uomini (come la tesi secondo cui chi sceglie di non avere figli non è in realtà capace di “costringere una compagna”).
Dopo aver scritto il paper gli autori l’hanno riletto attentamente per assicurarsi che “non significasse assolutamente niente” e avendo avuto entrambi la sensazione che non si capisse di cosa il paper parlasse, hanno concluso che il risultato era stato pienamente raggiunto.
Infine gli autori concludono che il fatto che un articolo del genere sia stato pubblicato su una rivista di scienze sociali solleva questioni serie sulla validità di argomenti come gli studi sul gender, e sullo stato delle pubblicazioni accademiche in generale “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale non avrebbe dovuto essere pubblicato perché concepito per non avere nessun significato: è pura insensatezza accademica senza alcun valore”.

Pensieri alternativi

  • Per quanto ricco di spunti obbiettivamente esilaranti, l’esperimento di Boghossian e Lindsey pone delle questioni serie, gravi e ineludibili sullo stato della scienza, delle pubblicazioni accademiche, del processo di peer-review e in generale sull’influenza e la pervasività che in ambito accademico hanno certe posizioni fideistiche, para-religiose (ma rigorosamente laiche e laiciste) legate alla politica e al pensiero liberal prevalente.
  • Il climate change fa parte a pieno titolo dell’armamentario di cui i pasdaran dell’ortodossia liberal si servono per giustificare, spiegare, sostanziare qualsiasi cosa. Dalle guerre alle migrazioni, passando per la finanza e la sociologia, il climate change c’entra sempre. O non c’entra nulla. Questione di punti di vista.
  • Molto spesso capita di leggere su paper di argomento climatico delle postille messe lì in modo apparentemente posticcio, a mo’ di pietosa foglia di fico che suonano come: “questa ricerca sembra mettere in discussione la narrativa sul global warming antropogenico, ma in realtà non è così”. In quanti casi sono gli stessi reviewers di riviste completamente esposte e schierate sul versante del climate change catastrofista, a richiedere espressamente l’aggiunta di queste postille?
  • E in quanti casi, paper scientificamente validi saranno stati bocciati per il solo fatto di contraddire la narrativa e la “linea editoriale” della rivista in questione? [moltissimi, lo sappiamo per certo] E come si traduce tutto questo nella libertà di fare ricerca, da scienziato vero, e libero, e non da lavoratore a cottimo pagato per dimostrare quello che gli sponsor della ricerca si aspettano? E quello che gli editori della rivista vogliono leggere?

Sono tutte domande che restano inevase, ma l’esperimento in questione conferma che si tratta di domande legittime che attengono alla qualità del sistema di referaggio scientifico e, soprattutto, all’uso politico che si fa della ricerca scientifica.

…E riflessione finale

Mi si perdonerà l’espressione poco accademica, ma credo proprio che qualcuno si sentirà un po’ più libero, da oggi, nel dire che “il Climate Change è proprio una teoria del c*zzo”. Del resto, c’è anche un paper accademico a sostenere questa tesi. Un paper referenziato da una rivista che “offre peer review di alta qualità”. E se le referenze sono la stampella su cui i soloni del mainstream appoggiano teorie sempre più zoppicanti alla luce dell’evidenza sperimentale, non si vede perché lo scettico sboccato (ed esasperato) debba essere ingiustamente privato dello stesso privilegio. (qui)

Di teorie deliranti ho portato ampie documentazioni in questo blog, e delle altrettanto deliranti argomentazioni prodotte dai loro sostenitori, a partire appunto dalla fantomatica emergenza climatica e da quell’autentico delirio di onnipotenza che porta a credere che l’uomo possa controllare e guidare il clima. Ho già ricordato quella signora che alla mia obiezione che duemila anni fa Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti, cosa oggi neppure concepibile per via di neve e ghiaccio, ha risposto: “Evidentemente non è passato per le Alpi”, trasformando anche la storia in un optional. Adesso vi aggiungo un’altra novità: da un bel po’ di anni il ghiaccio dei poli sta aumentando, o yes (e se vi avanzano ancora due minuti leggete anche i commenti: sono interessanti). Comunque, cari amici uomini, occhio al  pisello, che se non state attenti, oltre a gravidanze indesiderate guardate quanti altri disastri ci combina (no, è inutile che ve lo facciate tagliare: vi resta sempre quello concettuale).

barbara

SONO SEMPRE I MIGLIORI CHE SE NE VANNO

Questo per esempio è uno

La chiusura della mente americana

L’università ha scelto di sacrificare la ricerca in nome dell’ideologia

Pubblichiamo la lettera con cui il professor Peter Boghossian ha rassegnato le dimissioni dalla Portland State University

Gentile Susan Jeffords, Provost della Portland State University,

Le scrivo oggi per rasssegnare le dimissioni da assistente universitario di filosofia alla Portland State University.
Negli ultimi dieci anni ho avuto il privilegio di insegnare qui. I miei campi di specializzazione sono il pensiero critico, l’etica e il metodo socratico. Tengo corsi come “Scienza e pseudoscienza” o “Filosofia dell’educazione”. Ma oltre all’esplorazione dei filosofi classici e dei testi tradizionali, ho avuto modo di ospitare durante le mie lezioni contributi esterni di Terrapiattisti, apologeti del cristianesimo, scettici del cambiamento climatico e attivisti di Occupy Wall Street. Sono fiero del mio lavoro.
Ho invitato relatori del genere non perché fossi d’accordo con le loro opinioni. Ma proprio perché non lo ero. Da quelle conversazioni confuse e difficili ho potuto scorgere il meglio di ciò che i nostri studenti possono imparare: mettere in discussione le convinzioni altrui rispettando chi le professa, rimanere calmi in circostanze impegnative, addirittura cambiare idea.
Non ho mai creduto – né lo faccio ora – che l’obiettivo dell’istruzione fosse portare i miei allievi a conclusioni particolari. Al contrario, ho cercato di creare le condizioni per un pensiero rigoroso e di aiutarli a ottenere gli strumenti per cercare e approfondire le proprie conclusioni. È per questo che sono diventato un insegnante e amo insegnare.
Tuttavia, passo dopo passo, l’università ha reso impossibile questo tipo di indagine intellettuale. Ha trasformato un bastione della libertà di ricerca in una fabbrica di giustizieri sociali che hanno come soli input la razza, il genere, l’essere vittima. E come unici output il risentimento e la divisione.
Agli studenti della Portland State non viene insegnato a pensare. Al contrario, vengono addestrati a scimmiottare le certezze morali di alcuni ideologi. I docenti e gli amministratori hanno abdicato alla missione dell’università, che è la ricerca della verità, mentre fomentano intolleranza nei confronti di idee e opinioni diverse. Tutto questo ha creato una cultura della suscettibilità nella quale ora gli studenti hanno paura di parlare in modo onesto e aperto.
Nella mia esperienza alla Portland State ho avuto modo di notare abbastanza presto i segni di questo illiberalismo, che ora ha inghiottito l’accademia. Ho visto studenti che si rifiutavano di confrontarsi con punti di vista diversi. Mentre le obiezioni di docenti che mettevano in discussione le narrazioni accettate durante i corsi di educazione alla diversità, venivano respinte all’istante. Chi chiedeva su quali evidenze si fondassero le nuove politiche dell’istituto veniva accusato di microaggressione. E alcuni professori venivano giudicati intolleranti perché assegnavano testi canonici scritti da filosofi che, si dà il caso, erano europei e maschi.
All’inizio non capivo quanto tutto ciò fosse radicato. Pensavo che fosse concesso mettere in dubbio questa nuova cultura. Per cui ho iniziato a fare domande. Su quali evidenze si basa l’idea che i trigger warning (avvisi di contenuti traumatizzanti) e i safe space (luoghi sicuri per minoranze) contribuiscano davvero all’apprendimento? Perché la coscienza di razza dovrebbe essere la lente attraverso cui vediamo il nostro ruolo di educatori? Come abbiamo deciso che “l’appropriazione culturale” sia una cosa riprovevole?
Diversamente dai miei colleghi, ho chiesto queste cose ad alta voce e in pubblico.
Ho deciso di studiare i nuovi valori che stavano travolgendo Portland State e molte altri atenei. Valori che appaiono meravigliosi, come la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione. Ma che potrebbero significare, in realtà, proprio il loro contrario. Più leggo le fonti primarie prodotte dai teorici di queste idee, più sospetto che le loro conclusioni riflettano i postulati di una ideologia anziché scoperte basate su evidenze scientifiche.
Ho cominciato a stabilire reti con gruppi di studenti che condividevano le stesse preoccupazioni e ho coinvolto relatori che esplorassero questi temi in chiave critica. Mi è diventato sempre più chiaro che i casi di illiberalismo cui avevo assistito negli anni non fossero stati eventi isolati bensì parte di un problema che riguardava tutta l’università.
Più esprimevo la mia opinione su questi temi e più subivo ritorsioni.
All’inizio dell’anno accademico 2016-2017, un ex studente mi ha denunciato e l’università ha avviato una indagine secondo il Titolo IX (il Titolo IX è parte di una legge federale che mira a «proteggere le persone da atti di discriminazione basati sul sesso in programmi educativi o in attività che ricevono assistenza finanziaria federale»). Il mio accusatore, un maschio bianco, aveva avanzato contro di me una caterva di accuse prive di fondamento sulle quali le regole dell’università mi impediscono, purtroppo, di dilungarmi. Ciò che posso dire è che i miei studenti, che venivano interrogati nel processo, mi riferirono che il titolare dell’investigazione aveva chiesto loro se sapessero qualcosa sul fatto che picchiassi mia moglie e i miei figli. Ci volle poco perché questa accusa terribile diventasse una voce diffusa in tutto il campus.
Con un’indagine per Titolo IX non c’è un regolare processo. Per cui non ho potuto avere accesso alle accuse specifiche, non ho avuto la possibilità di confrontarmi con il mio accusatore né l’opportunità di difendermi. I risultati sono stati rivelati nel dicembre 2017. Ecco le ultime due frasi del rapporto: «La divisione Global Diversity & Inclusion rileva che non ci sono prove sufficienti del fatto che Boghossian abbia violato le policy contro la discriminazione e le molestie. Si raccomanda che Boghossian riceva corsi di formazione sul tema».
Non solo non mi venivano chieste scuse per le accuse infondate. Ma l’investigatore mi disse che in futuro non mi sarebbe più stato possibile esprimere la mia opinione sui “gruppi protetti” o svolgere le lezioni in modo che la mia opinione al riguardo risultasse chiara. Una conclusione stramba per accuse assurde. Le università possono rafforzare il conformismo ideologico anche soltanto minacciando indagini del genere.
Alla fine mi sono convinto che la colpa fosse di quelle discipline corrotte che giustificavano deviazioni radicali dalla tradizione sia degli studi umanistici che della normale vita civile dei campus. C’era un bisogno urgente di dimostrare che studi moralmente di moda – non importa quanto fossero assurdi – potevano essere pubblicati. Ero sicuro allora che se avessi smascherato i difetti teorici di questa letteratura, avrei aiutato la comunità universitaria a evitare di costruire edifici su fondamenta tanto instabili.
Per questo nel 2017 ho co-pubblicato un paper (che era stato sottoposto a peer-review) intenzionalmente sconclusionato per prendere di mira la nuova ortodossia. Il suo titolo: “Il pene concettuale come costrutto sociale”. Una pseudo-ricerca, pubblicata su Cogent Social Sciences, sosteneva che i peni fossero prodotti della mente umana, responsabili del cambiamento climatico. Subito dopo, rivelai che l’articolo era una bufala, architettata per gettar luce sui difetti della peer-review e del sistema delle pubblicazioni accademiche.
Poco tempo dopo, vicino al dipartimento di filosofia, comparvero nei bagni svastiche con il mio nome sotto. Qualche volta anche sulla porta del mio ufficio. In una occasione accompagnate da un sacco pieno di feci. La nostra università è rimasta in silenzio. Quando ha agito, lo ha fatto contro di me, non contro chi perpetrava queste azioni.
Ho continuato a credere, forse in modo ingenuo, che se avessi smascherato il pensiero distorto su cui erano fondati i nuovi valori della Portland State avrei potuto risvegliare l’università da questa follia. Nel 2018 ho co-pubblicato una serie di articoli, tutti peer-reviewed, assurdi o moralmente ripugnanti in riviste accademiche che si focalizzavano sui temi della razza e del genere. In uno di questi sostenevo che ci fosse un’epidemia di stupri di cani ai parchi per cani e proponevo di mettere gli uomini al guinzaglio nello stesso modo in cui lo facevamo con i cani. Il nostro obiettivo era dimostrare che un certo tipo di “ricerca” non volesse la ricerca della verità ma alimentare lagne sociale. Questa visione del mondo non è scientifica e nemmeno rigorosa.
Gli amministratori e i docenti erano così irritati dai paper che pubblicarono un pezzo anonimo nel giornale degli studenti e l’università ha avviato un procedimento formale nei miei confronti. L’accusa? «Cattiva condotta scientifica», basata sulla premessa assurda che i redattori delle riviste che hanno accettato i nostri articoli intenzionalmente folli fossero «soggetti umani» usati a fini sperimentali. Mi hanno trovato colpevole per non avere ricevuto l’approvazione per la sperimentazione su esseri umani.
Nel frattempo a Portland State l’intolleranza ideologica ha continuato a crescere. Nel marzo 2018 un professore di ruolo ha bloccato una discussione pubblica che stavo tenendo con la scrittrice Christina Hoff Sommers e i biologi evolutivi Bret Weinstein e Heather Heying. Nel giugno 2018, qualcuno ha azionato l’allarme anti-incendio durante una conversazione con il famoso critico culturale Carl Benjamin. Nell’ottobre 2018, un attivista ha staccato i cavi del microfono per interrompere un dibattito con l’ex ingegnere di Google James Damore.
L’università non ha fatto nulla per fermare o affrontare questi atteggiamenti. Nessuno è stato punito o castigato.
Per me, gli anni successivi sono stati segnati da molestie continue. Trovavo volantini nel campus in cui ero raffigurato con il naso di Pinocchio. Alcuni passanti mi hanno sputato e minacciato mentre andavo a lezione. Sono stato informato dai miei studenti che i miei colleghi dicevano loro di evitare i miei corsi. Naturalmente, sono stato sottoposto a nuove indagini.
Vorrei poter dire che ciò che descrivo non abbia avuto effetti a livello personale. Ma ha avuto esattamente quelli ai quali puntava: una vita lavorativa che diventava sempre più intollerabile, senza nemmeno la protezione dell’incarico di ruolo.
Non si tratta di me, comunque. Si tratta del tipo di istituzioni che vogliamo e dei valori che scegliamo. Ogni idea che ha fatto crescere la libertà degli esseri umani è sempre stata condannata all’inizio, senza eccezioni. In quanto individui, spesso sembriamo incapaci di tenere a mente questa lezione. Ma è esattamente il motivo per cui esistono queste istituzioni: ricordarci che la libertà di mettere in discussione le cose è un diritto fondamentale. E le istituzioni educative dovrebbero ricordarci che questo diritto è anche un nostro dovere.
L’università di Portland State non è riuscita a ottemperare a questo suo dovere. Nel farlo, è venuta meno ai suoi doveri non solo nei confronti dei suoi studenti ma anche del pubblico che la sostiene. Se sono grato per l’oppotunità di aver potuto insegnare per oltre un decennio, mi è ora chiaro che questa istituzione non è un luogo adatto per le persone che vogliono pensare in modo libero ed esplorare idee diverse.
Non è l’esito che auspicavo. Ma mi sento moralmente obbligato a fare questa scelta. Per dieci anni ho insegnato ai miei studenti l’importanza di vivere secondo i propri principi. Uno dei miei è quello di difendere il nostro sistema di istruzione liberale da coloro che cercano di distruggerlo. Chi sarei mai se non lo facessi?
Peter Boghossian, qui.

Questo per esempio è un altro.

“Questo marciume di cancel culture ci porterà a smettere di insegnare Beethoven”

La lettera di dimissioni dall’università di un famoso musicologo inglese. “Non sono ottimista, si muovono tutti al passo dell’ideologia del nostro tempo. Io me ne vado, disgustato”

“Il musicologo che si è dimesso per protesta contro la cancel culture”. Così il Telegraph oggi racconta la vicenda di Paul Harper-Scott, che ha insegnato per 15 anni storia e teoria della musica all’Università di Londra. Fino a oggi. La sua lettera di dimissioni segue quella, pochi giorni fa, del professor Peter Boghossian dall’Università di Portland, Stati Uniti, a causa dello stesso clima. Quattro anni fa si era dimesso un altro docente, Bret Weinstein, dopo una campagna di intimidazione. Poi le dimissioni dal New York Times della giornalista Bari Weiss. Quello di Paul Harper-Scott è un altro documento che mostra quanto il politicamente corretto, iniziato come una pagliacciata ideologica, sia diventato una minaccia tremendamente seria. Una musica che ormai fa marciare al nuovo passo dell’oca.

***

“Perché ho lasciato l’università”

di Paul Harper-Scott

Dopo sedici anni di lavoro nel dipartimento di musica della Royal Holloway, Università di Londra, quest’estate ho deciso di lasciare il mondo accademico e iniziare una seconda carriera. Nel dipartimento di musica non avrei potuto essere benedetto da un ambiente più amichevole e stimolante in cui lavorare e i molti studenti a cui ho insegnato, in particolare quelli di cui ho supervisionato i dottorati, mi hanno fatto sentire che il mio lavoro valeva qualcosa in termini umani, e ne conservo il ricordo. Ma nonostante questo, sono contento di lasciarmi tutto alle spalle.
La mia decisione ha sbalordito molte persone e questa nota è un tentativo di chiarire il mio ragionamento. Il mio progetto di lasciare il mondo accademico era in preparazione da molto tempo e le ragioni sono interamente intellettuali. Sono entrato nella professione da outsider e immaginavo ingenuamente gli accademici come venivano presentati nei romanzi e nei programmi TV: piuttosto goffi e fuori dal mondo, ma sempre impegnati nella ricerca della verità, che non si fidano mai di un ‘fatto’ banale senza sottoporlo al più serio scrutinio scettico. Non era vero.
La breve spiegazione del motivo per cui ho lasciato il mondo accademico è che ne sono rimasto profondamente deluso. È un posto pieno di persone generalmente molto ben intenzionate, ma nel complesso non coraggiose, non disposte a seguire la verità ovunque essa conduca. Ci sono, naturalmente, molti musicologi che sono tutto ciò che avrei potuto sognare che sarebbero stati, e molti di loro, spero, continueranno a essere miei amici. Ma sanno bene quanto me che c’è del marcio in Danimarca.
Metterei il problema in questo modo (kantiano): ho supposto erroneamente che le università sarebbero state luoghi critici, ma stanno diventando sempre più dogmatici.
I dipartimenti musicali potrebbero smettere di insegnare la musica di Beethoven, Wagner e altri (a Oxford i musicologi lo stanno già apertamente dicendo), nella convinzione (francamente folle) che così facendo miglioreranno in qualche modo le attuali condizioni delle persone economicamente, socialmente, sessualmente, religiosamente o razzialmente svantaggiate. O i dipartimenti di musica potrebbero continuare a insegnare la musica di Beethoven, Wagner e altri, ma usare quella musica per offrire intuizioni intellettualmente critiche sulle strutture sociali, politiche, economiche, legali e di altro tipo del mondo in cui sono state scritte.
Negli ultimi anni, il modo di pensare dogmatico, che comporta l’umiliazione pubblica, l’assenza di piattaforme e i tentativi di licenziare gli studiosi, è diventato endemico. Ora, troppi studiosi di scienze umane si muovono al passo dell’ideologia generale del nostro tempo, facendo eco dogmaticamente alle opinioni dei politici, dei media e degli affari. Non sono ottimista.
L’attuale marciume potrebbe produrre alcuni buoni risultati che non posso prevedere. O potrebbe non essere così. A ogni modo, nel 2021 sentivo che non volevo passare la seconda metà della mia vita a lottare in un ambiente acritico. Come dice Coriolano (in un momento coraggioso e prima della sua brutta fine), ‘c’è un mondo altrove’.
Giulio Meotti

E meno male che ancora rimane qualcuno capace di vedere che il re è nudo e con il coraggio di dirlo. Proseguo domani – per non allungare troppo il post – con un altro drammatico documento.

barbara