Vengo da una famiglia poverissima; a casa mia non c’erano libri, né soldi per comprarli. Non solo: comprare libri era considerato il modo più stupido possibile di buttare via i propri soldi, leggerli il modo più stupido possibile di buttare via il proprio tempo. Così a tre anni sapevo leggere, a quattro sarei stata perfettamente in grado di leggere libri, ma di libri da leggere non ce n’erano. Me ne è rimasta una sorta di fame arretrata perenne, e per questo leggo male, più in fretta che posso, per finire il libro il più presto possibile e attaccarne subito un altro. E non rileggo mai nessun libro. Con un’unica eccezione: questo.
Come in occasione delle nostre scappate ad Acland Street, mio padre prestava molta attenzione alle varie lingue dell’Est parlate dagli avventori: polacco, russo, persino qualche frase di yiddish. Non faceva che guardarsi attorno, cercando di scoprire a chi appartenessero le varie voci. Poi si voltò di scatto verso di me, schiarendosi la voce: sembrava che quelle parlate gli avessero innescato dentro qualcosa.
«Prima che andassi a Riga, quando ero bambino…» iniziò.
«Vuoi dire quando ti perdesti nella foresta?»
«No, ancora prima» disse sommessamente.
«Credevo che di quel periodo non ricordassi nulla.»
«Qualcosa lo ricordo.» Tacque per quella che mi sembrò un’eternità. «Ho in mente due parole che mi frullano per la testa e che non ho mai dimenticato.»
Tacque di nuovo.
«Una è Koidanov» disse infine «e l’altra è Panok.»
Appena le ebbe pronunciate, sembrò affascinato dal loro suono.
«Sono nomi di persone o di località? Che cosa significano?»
Si chinò verso di me, avvicinandosi ancor di più; poi scosse la testa, cupo, stringendosi nelle spalle: «Non ne ho la minima idea».
Infine, come folgorato da un pensiero improvviso: «Sai che cosa penso, figliolo? Queste due parole sono la chiave per scoprire chi ero prima di vagare nella foresta, prima che i soldati lettoni. . .».
«Quando ancora stavi con la tua famiglia di contadini russi?»
Tacque di nuovo, come immerso nei suoi pensieri. Poi sospirò: «Ammesso che sia davvero così».
«Ammesso che tu sia davvero figlio di contadini russi?» proruppi. «Che diavolo vorresti dire, papà?»
Lo guardai sbigottito, ma i suoi occhi vagavano nel vuoto, evitandomi.
Un uomo ormai vecchio, che non ricorda nulla della propria infanzia: sa solo che le SS lettoni lo hanno trovato che vagava nella foresta e lo hanno preso con sé, facendone la propria mascotte, con tanto di uniforme su misura.

Porta il nome che loro gli hanno affibbiato, non sa quale fosse il suo, né da dove provenga. Ma i fantasmi di quel passato lo tormentano con sempre maggiore insistenza, con sempre maggiore forza, e chiede aiuto al figlio per tentare di dare, a quei fantasmi, un volto e un nome.
Nel completo silenzio, il riecheggiare dei nostri passi ebbe su mio padre uno strano effetto: si irrigidì, come se avesse udito qualcosa che io non potevo sentire.
Si fermò improvvisamente e mi fissò.
«Accadde qualcosa di terribile» mormorò.
Rimasi in attesa di una qualche rivelazione. Lui continuò a fissarmi per qualche istante, poi distolse lo sguardo e si voltò verso il muro.
«No, dimentica, non è niente»
«Come niente? Hai appena detto che accadde qualcosa di terribile. Che cosa fu, papà?»
Tornò a guardarmi.
«Non farci caso, figliolo. Scordatene, non capiresti.»
Quasi abbagliato dalla luce che proveniva dall’uscita del tunnel riuscivo a scorgere solo la sua sagoma. Quando mi avvicinai, vidi che il suo viso era pallido e inspiegabilmente contratto. Respirava con difficoltà, ansimando.
«È stato terribile quello che mi hanno chiesto di fare!»
«Chi? Di chi stai parlando? Cosa ti hanno costretto a fare?»
Il suono dei passi di qualcuno che entrava nel tunnel lo colpì e lo fece irrigidire nuovamente. Ero preoccupato da quell’insolita reazione; gli afferrai istintivamente il braccio, nella speranza di calmarlo – un gesto che stupì entrambi, dal momento che nessuno dei due si era mai mostrato particolarmente espansivo.
Un uomo, vestito elegantemente, ci passò accanto a testa bassa. Mio padre gli rivolse un sorriso imbarazzato. Fermi, in silenzio, nella parte più scura del tunnel, di certo dovevamo sembrare piuttosto strani.
Prima che lo sconosciuto si fosse ormai definitivamente dileguato, mio padre sembrò riacquistare la calma.
«Papà, dimmi la verità: ti è successo qualcosa? A Melbourne hai dei problemi?»
Scosse la testa.
«No, no, niente di preoccupante. Si tratta semplicemente di un ricordo, spuntato improvvisamente dal nulla.» Ripeté “dal nulla”, e sembrò sinceramente dispiaciuto per quanto si era appena lasciato sfuggire.
«Non voglio insistere, papà, ma se volessi dirmi…»
Mi fissava con lo sguardo spento. Poi, come se nulla fosse, riprese a parlare: «Marky, avrei voglia di un gelato; dove possiamo trovarne uno?».
[…]
Ma poi, quella strana apatia svanì come per incanto. Cercando di farsi udire nel concitato viavai dei viaggiatori, mi gridò: «Sono stati Lobe e Dzenis, anni fa! Sono loro che mi hanno costretto a farlo. Dzenis mi disse di dichiarare che non avevo visto nulla, che Lobe non aveva fatto nulla. Ma non è vero! Non è vero! Ho visto molte cose!».
Le parole gli uscivano dalla bocca come acqua in caduta da una diga improvvisamente aperta. «Dzenis mi disse che loro mi avevano salvato e che ora toccava a me salvare loro. Io non volevo, ma non avevo scelta. Dzenis aveva già scritto tutto, io mi limitai a firmare. Ho fatto male, ho sbagliato.»
Mi stava accanto, scosso da un parossismo di timore e di vergogna insieme, eppure non riusciva a tacere.
L’altoparlante avvisò che le porte stavano per chiudersi.
«Papà, stai attento, fai un passo indietro!» gridai.
In realtà, prima che me ne rendessi conto, aveva già afferrato la valigetta e l’aveva fatta passare attraverso le porte, proprio mentre quelle si stavano chiudendo. Così adesso eravamo uno di fronte all’altro, separati da un vetro. Mio padre aveva gli occhi sbarrati, stralunati, sembrava sotto shock, privo di ossigeno. La pressoché involontaria rivelazione lo aveva lasciato sconvolto. La cosa mi spaventava, temevo per lui, ma non potevo fare nulla. Il fischio di un addetto alla sicurezza m’impose di scostarmi.
E dopo aver aperto la porta dei segreti, dopo aver lasciato uscire quei due nomi, Koidanov e Panok, improvvisamente, con dolorosa violenza, i ricordi cominciano ad affiorare.
Mio padre riprese a raccontare: «Finalmente i miei fratellini si addormentarono, e probabilmente mi appisolai anch’io, sulla sedia, in cucina. Quando aprii gli occhi, mia madre era seduta di fronte a me, al buio. Era immobile. Potevo vederne solo la figura, ma sentii che mi stava guardando. Mi chiamò a bassa voce, mi prese in braccio e mi tenne stretto. Ricordo che mi accarezzava i capelli, ricordo le sue dita muoversi dolcemente. E a un certo punto mi disse: “Domani moriremo tutti”».
Papà tacque. Rimase in silenzio un paio di minuti. Poi alzò gli occhi verso di me, ma appariva sconvolto.
«Sai,» disse lentamente «mia madre mi chiamava per nome, è indubbio che lo facesse, ma davvero non riesco a ricordarlo, quel nome. Posso udire ancora la sua voce, il suo modo di parlarmi, ma non riesco a sentire il mio nome.»
«Ricordi qualche altro nome? Quelli di altri familiari?»
Di nuovo scosse la testa, disperato.
«Tuo fratello e tua sorella, come si chiamavano?»
«Nessun nome. Non ricordo nessun nome, niente»
«Quanti anni avevano?»
«Erano più piccoli di me. Mio fratello cominciava appena a camminare, lo ricordo sgambettare per casa. E mia sorella era ancora in fasce.»
Tacque per un attimo, un leggero sorriso gli increspò le labbra.
«Mia madre mi disse che adesso il capofamiglia ero io, perché papà non c’era più. . .»
«Dov’era tuo padre?»
«Era morto.»
«In che modo?»
«Non lo so. Un giorno mia madre mi disse che era morto. Non ricordo altro. Ho solo la vaga impressione che a casa non ci fosse.»
«Quando?»
«Non saprei dire.»
Per cercare aiuto il figlio si rivolge innanzitutto agli storici, agli studiosi dell’Olocausto, ma nessuno gli dà credito: scottati dal recente scandalo Wilkomirski, sono tutti diventati estremamente scettici nei confronti di veri o presunti ricordi riemersi dall’oblio. Solo uno accetta di riceverlo, e gli dice chiaro e tondo che tutta la storia raccontata da suo padre non si regge. Un dettaglio in particolare, a suo avviso, ne è la prova evidente: la madre che lo informa che il giorno dopo sarebbero morti. Nessuno, spiega lo storico, poteva avere un’informazione del genere, dal momento che le “Aktionen” erano appena all’inizio e avvenivano sempre all’improvviso, senza preavvisi. E tuttavia il vecchio padre non sta né mentendo, né ricordando male…
Guardai il sergente Kulis; lui si rivolse alla piccola folla e disse solennemente: “Soldato Uldis Kurzemnieks, polizia militare lettone”.
A quel punto, molti soldati vennero verso di me, desiderosi di stringermi la mano o di farsi fotografare in mia compagnia, perché c’era anche un tale con un cavalletto e una grande macchina fotografica.

Forse era il fotografo ufficiale dell’esercito; a ogni buon conto, sistemò la macchina e mi mise in posa. Qualcuno mi sistemò un fucile sulla spalla e iniziò una sorta di gara per farsi ritrarre accanto a me. Un gruppo di soldati si mise orgogliosamente davanti all’obiettivo formando un semicerchio.

Ricordo anche che uno di loro infilò la sua pistola nella mia cintura e mi passò un braccio attorno alle spalle. Fatta la fotografia ricevettero l’ordine di andare in città e un altro gruppo prese il loro posto. Continuò così per un po’. A me non dispiaceva: era divertente essere al centro dell’attenzione.
Infine Kulis disse basta. Mi si accovacciò di fronte, mi guardò con un’espressione molto seria e pronunciò di nuovo la parola partizani. Poi mi prese per mano e ci avviammo insieme verso la città. Anche gli altri soldati si mossero in quella direzione. Poiché li vedevo passarsi una fiasca e bere grandi sorsate di samagonka senza nessuna disciplina, intuivo che stava per accadere qualcosa.
L’atmosfera era strana: i soldati erano chiassosi, ma tutto intorno regnava un silenzio spettrale. Per strada non c’era anima viva, gli abitanti si erano tutti chiusi in casa. Vidi solo qualche tendina sollevarsi appena, mentre passavamo.
Avevo paura, non volevo essere in prima fila insieme al sergente Kulis. Lasciai andare la sua mano, ma lui, troppo assorto nel guardare davanti a sé, sembrò non accorgersene nemmeno.
Rallentai il passo e a poco a poco mi trovai in fondo alla fila.
Arrivammo a un incrocio. Scrutai attraverso le gambe dei soldati e vidi che sul lato opposto della strada c’era un edificio. Era più alto e più grande di qualsiasi edificio mi fosse mai capitato di vedere, doveva essere di due o tre piani.
Nello spiazzo antistante c’erano centinaia di persone, vecchi, donne e bambini, stretti gli uni agli altri. Riuscii a distinguere solo alcune facce, simili a quelle del mio villaggio. Tuttavia, a impressionarmi fu soprattutto la paura dipinta sui loro volti, la stessa che avevo visto il giorno del massacro. Ero spaventato, ma anche confuso: Kulis li aveva definiti partizani.
Lentamente cercai di allontanarmi, e stavo quasi per fare dietro front e darmi alla fuga, quando uno dei soldati dell’ultima fila se ne accorse e mi richiamò. Tornai indietro; il soldato mi prese per le spalle e mi tenne davanti a sé.
Ero troppo impaurito per osare chiudere gli occhi e rischiare di mettermi nei guai. Cercai comunque di non guardare, fingendo che il sole mi accecasse, ma non potei evitare di scorgere quanto stava accadendo: alcuni soldati spingevano i prigionieri dentro l’edificio, mentre altri inchiodavano assi di legno contro le finestre.
Quando le porte furono sprangate, i soldati ammucchiarono rami secchi e fascine contro le pareti e appiccarono il fuoco. In pochi attimi, l’edificio fu avvolto dalle fiamme. Dapprima, tranne il crepitio del fuoco, non si udì alcun rumore; poi cominciarono le urla. I soldati tacevano, nessuno rideva, nessuno si muoveva: sembravano tutti ipnotizzati dalle fiamme che salivano sempre più alte verso il cielo. Anche il soldato che mi aveva preso per mano pareva essersi dimenticato di me. Anche lui, immobile, fissava le fiamme.»
Mio padre tacque di nuovo e inspirò profondamente.
«Chissà, forse vedevano bruciare anche la loro anima» disse infine a bassa voce.
«Poi accadde qualcosa.»
La sua voce era appena udibile. Per un attimo sembrò colto da un attacco di panico: boccheggiava come se si sentisse soffocare. Affettuosamente, lo invitai a continuare:
«Che cosa vedesti?».
«All’improvviso qualcuno uscì dall’edificio: era una donna… mio Dio!»
Emise un gemito, come se avesse la donna davanti agli occhi.
«Era avvolta dalle fiamme… e dietro di lei correvano due bambini, anch’essi avvolti dalle fiamme. Non emettevano alcun suono, come usciti da un film muto…
Poi, prima che mi rendessi conto di quanto stava accadendo, udii degli spari; la donna e i suoi bambini caddero a terra, immobili. Capii che erano morti, ma dai loro corpi continuavano ad alzarsi le fiamme.
Guardai verso il punto da cui erano giunti gli spari: il sergente Kulis e altri due soldati stavano abbassando i fucili proprio in quel momento.
Kulis si voltò per cercarmi. Anche se mi trovavo nelle ultime file, i suoi occhi mi trovarono. Sorrise e agitò la mano. “Partizani” gridò, come per giustificare le sue azioni.
Corsi via, senza riflettere. Sentii il sergente chiamarmi, ma non gli badai
[…]
«L’edificio dato alle fiamme, hai idea di che cosa fosse?»
Si strinse nelle spalle.
«Allora mi sembrò un edificio qualsiasi; adesso però mi chiedo se non fosse una sinagoga.»
«È quello cui stavo pensando anch’io.»
Pur non essendo un esperto in fatto di Olocausto, sapevo che episodi del genere si erano verificati molto spesso.
«Probabilmente si trattava di ebrei» aggiunsi.
Mio padre parve stupito.
«Il sergente Kulis usava il termine partizani.»
«I nazisti usavano spesso quel termine per indicare gli ebrei che si davano alla macchia. Li chiamavano anche bolscevichi.»
«Non lo sapevo» disse visibilmente scioccato. «In tutta sincerità, non avrei avuto la minima idea di cosa volesse dire essere ebrei, anche se erano la mia gente. Avevo solo cinque o sei anni. L’unica cosa di cui mi rendevo conto era che quelle persone assomigliavano agli abitanti del mio villaggio. Ripensandoci ora, penso proprio che fossero ebrei.»
Si tratta, con tutta probabilità, del massacro di Slonim. Ne ho cercato in rete qualche documentazione fotografica, ma pare che non ne esistano.
«Non hai fatto nulla di male» proruppi. «Se non ti accettano per quel che sei, cancellali dalla tua vita!»
Si grattò la nuca, pensieroso.
«C’è dell’altro, non è vero?» dissi.
«Cosa?»
«Sull’essere ebreo…»
Annuì.
«Non so come spiegarlo» confessò a bassa voce.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani.
«Ti fa paura l’idea di essere ebreo?»
Sollevò di scatto la testa e mi fissò intensamente: avevo toccato un nervo scoperto.
«Non lo so, figliolo» mormorò infine. «Quando ero con i soldati ho sempre sentito parlare degli ebrei come di vermi. Gli ebrei sono il male assoluto, dicevano. A furia di sentirglielo ripetere giorno dopo giorno – e di dover tacere – mi entrò nella mente e nell’anima. Finii per vergognarmi di esserlo.»
Con i loro insulti contro gli ebrei, e – assai peggio – con le loro Aktionen, i soldati e gli altri lettoni non avevano soltanto terrorizzato il bambino che avevano accolto, lo avevano spinto a vergognarsi della sua vera identità. Così quel bambino aveva nascosto il fatto di essere ebreo anche a se stesso, oltre che agli altri, in una sorta di autoannientamento.
Perché questa è, forse, la conseguenza più drammatica in storie di questo genere: dover fare i conti con l’idea di essere quanto di più lontano, quanto di più estraneo, quanto di più ostile a ciò che si pensava di essere. (C’è un’altra pagina che voglio proporvi, ma lo farò in un altro momento)
Quanto al libro, ricordate che è l’unico, in tutta la mia vita, che ho letto per una seconda volta.
Mark Kurzem, Il bambino senza nome, Piemme

barbara