E L’ECO RISPOSE

Le sue parole fanno riaffiorare i miei desideri infantili. Ricordo che quando mi sentivo sola sussurravo il suo nome, il nostro nome, e, trattenendo il respiro aspettavo un’eco, certa che un giorno avrebbe risposto.

Qualcuno ha detto che non è all’altezza di Il cacciatore di aquiloni e di Mille splendidi soli. Qualcuno ha detto che ci sono troppi personaggi e troppe storie. Qualcuno ha detto che poi alla fine non riesce più a reggere tutti i fili e qualche personaggio si perde per strada. Non è vero. Non è vero niente: il libro è talmente all’altezza degli altri due che stabilire quale sia il migliore dei tre sarebbe impossibile. E i personaggi sono esattamente quelli che servono per raccontare tutte le storie necessarie a farci comprendere la Storia. E restano in scena fino a quando non hanno esaurito la loro funzione, alcuni fino alla fine del romanzo, altri uscendo di scena prima. È un libro intensissimo e ricco ed emozionante, pieno di dolore e di amore, come lo è quella terra martoriata che si chiama Afghanistan, che magari tocca abbandonare per poter sopravvivere, ma che non si può, neanche un momento, smettere di amare.
(Poi magari ci sarebbe da dire due parole sull’uso – da imputare non so se all’autore o al traduttore – della parola tsunami nel 1974, ossia trent’anni prima che a chiunque potesse venire in mente di usare questo termine per indicare un avvenimento sconvolgente che travolge e stravolge la vita delle persone – o anche, semplicemente di conoscerlo – che meriterebbe un castigo di sei mesi in ginocchio coi ceci sotto le ginocchia. Ma si sa, nessuno è perfetto).

Khaled Hosseini, E l’eco rispose, Piemme
e l'eco rispose
barbara

IL BAMBINO CON I PETALI IN TASCA

Esiste l’inferno? Sì, esiste; non in un qualche eventuale, possibile, ipotetico aldilà bensì in un fin troppo concreto aldiqua. Nel caso di questo – molto realistico – romanzo di tratta di Bombay, ma potrebbe essere qualunque altro posto dove gli “scarti” della società tentano di sopravvivere destreggiandosi tra regole del gioco non stabilite da loro ma da chi meglio degli altri ha saputo annientare in se stesso ogni residuo di coscienza e di sentimenti umani. Ed ecco dunque questa folla di reietti, bambini che mendicano e rubacchiano, quelli più grandi che rubano e spiano e a fine giornata versano al capo tutto il ricavato del loro “lavoro”. Tentare di imbrogliare costa caro: un occhio (non in senso metaforico), un pezzo di lingua, un orecchio, uno squarcio su tutta la faccia, o magari anche di peggio. Tutti laceri e sporchi, tranne il bambino bello, sempre pulito e ben vestito, che viene portato al “lavoro” in auto, e sempre in auto riportato poi alla base, dove si accascia sfinito coi pantaloni macchiati di sangue. E una cosa è chiara fin dall’inizio, fin dal momento in cui un nuovo dannato vi inciampa dentro: non esistono uscite. Non esiste la possibilità, neppure teorica, di uscirne. Non esiste la speranza di uscirne, di andare altrove, di cambiare vita.
Buio assoluto, dunque, senza un barlume di luce, senza riscatto? Forse no. Forse, dopotutto, no.

Anosh Irani, Il bambino con i petali in tasca, Piemme
ilbambinoconipetaliintasca
barbara

LEGGERE SHAKESPEARE A KABUL

È la storia vera di uno straordinario esperimento tentato – e pienamente riuscito – a Kabul, dopo la caduta dei talebani: mettere in scena un’opera di Shakespeare, Pene d’amor perdute. Gli ostacoli da superare sono moltissimi: dalla comprensione del testo, difficile e arcaico, alle difficoltà di comunicazione, a causa delle diverse culture, fra la regista e gli attori, dal far recitare insieme uomini e donne al far convivere le esigenze teatrali con le necessità quotidiane. E molti altri ancora. Ma tutti, con la tenacia e l’entusiasmo di chi, con la fine di un regime oppressivo e sanguinario, si illude di poter finalmente costruire un mondo nuovo, vengono, sia pur faticosamente, superati. (Unica eccezione, l’amore: nonostante ce la metta proprio tutta, la regista deve arrendersi all’evidenza che far capire che cosa sia l’amore è un’impresa davvero impossibile. Prova ulteriore – non che avessi bisogno di conferme – del fatto che l’amore è un fatto puramente culturale, inesistente in natura e, di conseguenza, inesistente in parecchie culture). Il libro è bello, corposo e succoso, e ricco di informazioni su una società e una cultura di cui conosciamo davvero molto poco. Purtroppo negli otto anni trascorsi dagli eventi narrati nel libro a oggi, sono successe molte cose, e molti dei progressi registrati in quel periodo sono stati cancellati, e oggi la situazione è più o meno questa.

Qais Akbar Omar – Stephen Landrigan, Leggere Shakespeare a Kabul, Piemme
LeggereShakespeareAKabul
barbara

UN GIORNO SOLO, TUTTA LA VITA

Al tavolo principale, i due nonni ancora viventi di Jason ed Eleanor furono presentati l’uno all’altra per la prima volta. Anche in questa circostanza il nonno dello sposo si sentì travolto dall’immagine della donna che gli stava di fronte: decenni di distanza la separavano dalla nipote, ma aveva un aspetto familiare. Lui lo percepì immediatamente, dall’istante in cui la guardò negli occhi.
«Io l’ho già vista» riuscì infine a dire, benché avesse ormai la sensazione di parlare a un fantasma, non a una persona appena incontrata. Il suo corpo reagiva in una maniera viscerale che non comprendeva affatto; si rammaricò di aver bevuto un secondo bicchiere. Gli si rivoltava lo stomaco. Aveva il fiato corto.
«Temo che si sbagli» disse garbatamente la donna. Non voleva apparire scortese, ma anche lei aveva atteso con ansia per mesi le nozze della nipote, e non voleva essere distratta dai festeggiamenti della serata. Mentre osservava la ragazza che fendeva la folla, le molte guance che le si rivolgevano per un bacio e le buste premute in mano sua e di Jason, dovette darsi un pizzicotto: sì, era tutto vero, e lei era ancora viva per vederlo.
Ma quel vecchio lì accanto non si arrendeva.
«Sono abbastanza certo di averla già vista da qualche parte» ripeté.
Lei si voltò e a quel punto gli mostrò anche più chiaramente il viso. La carnagione di piuma. I capelli d’argento. Gli occhi azzurro ghiaccio.
Ma fu l’ombra di un qualcosa di bluastro, sotto il tessuto trasparente della manica, a fargli correre un brivido nelle vene stanche.
«La sua manica…» Il dito che si tese a sfiorare la seta tremava.
Lei fece una smorfia quando lui le toccò il polso, il disagio ben visibile in volto.
«La sua manica, posso?» Si stava comportando in maniera maleducata, e lo sapeva.
Lei lo guardò dritto in faccia.
«Potrei vedere il suo braccio?» ripeté lui. «Per favore.» In tono quasi disperato, stavolta.
Lei ormai lo fissava, gli occhi piantati negli occhi.
Come in trance, si tirò su la manica. Sull’avambraccio, accanto a un piccolo neo bruno, c’erano sei numeri tatuati.
«Adesso ti ricordi di me?» chiese lui, tremante.
Lei lo squadrò di nuovo, come rivestendo di carne e ossa uno spettro.
«Lenka, sono io» disse lui. «Josef. Tuo marito»

Oltre sei decenni di separazione. E in quei decenni la guerra, le deportazioni sui carri merci, i campi, le marce della morte, il disperato tentativo di sopravvivere, le notizie errate che fanno credere ad entrambi che l’altro sia morto, il faticoso ricostruirsi una vita. La pagina che ho riportato sopra è l’inizio del libro: quello che segue è la ricostruzione, in parallelo, di quanto avvenuto fino a quel momento.
Molti gli eventi autentici inseriti in questo romanzo, come quello degli artisti di Terezin, il “ghetto modello”, la “città che Hitler ha regalato agli ebrei”: mentre eseguivano i lavori commissionati dai tedeschi, riuscivano ad eseguire anche numerosi disegni che documentavano la realtà del campo, rubando a rischio della vita – e molti infatti l’hanno persa per questo – frammenti di tela e di carta, mozziconi di matita o di carboncino, e nascondendoli poi in barattoli che venivano sepolti, e recuperati dopo la liberazione. Come Leo Haas
Haas
Haas 2
e altri.
terezin
terezin 2
E molti anche i personaggi autentici.
Quando hai letto le prime tre pagine sai già che entrambi i protagonisti sono sopravvissuti, sai già che alla fine riescono a ritrovarsi: non hai dunque l’ansia del “come va a finire”. E tuttavia non è un libro di cui puoi dire lo leggo un po’ alla volta che adesso ho altro da fare: come lo prendi in mano devi proprio continuare a leggere fino alla fine.
E ricorda sempre che le camere a gas non sono mai esistite
Zyklon B 1
Zyklon B 2
e che l’antisemitismo è un’invenzione. Assolutamente (da oggi, comunque, ce n’è uno in meno)

Alyson Richman, Un giorno solo tutta la vita, Piemme
Un-giorno-solo
barbara

IL BAMBINO SENZA NOME

Vengo da una famiglia poverissima; a casa mia non c’erano libri, né soldi per comprarli. Non solo: comprare libri era considerato il modo più stupido possibile di buttare via i propri soldi, leggerli il modo più stupido possibile di buttare via il proprio tempo. Così a tre anni sapevo leggere, a quattro sarei stata perfettamente in grado di leggere libri, ma di libri da leggere non ce n’erano. Me ne è rimasta una sorta di fame arretrata perenne, e per questo leggo male, più in fretta che posso, per finire il libro il più presto possibile e attaccarne subito un altro. E non rileggo mai nessun libro. Con un’unica eccezione: questo.

Come in occasione delle nostre scappate ad Acland Street, mio padre prestava molta attenzione alle varie lingue dell’Est parlate dagli avventori: polacco, russo, persino qualche frase di yiddish. Non faceva che guardarsi attorno, cercando di scoprire a chi appartenessero le varie voci. Poi si voltò di scatto verso di me, schiarendosi la voce: sembrava che quelle parlate gli avessero innescato dentro qualcosa.
«Prima che andassi a Riga, quando ero bambino…» iniziò.
«Vuoi dire quando ti perdesti nella foresta?»
«No, ancora prima» disse sommessamente.
«Credevo che di quel periodo non ricordassi nulla.»
«Qualcosa lo ricordo.» Tacque per quella che mi sembrò un’eternità. «Ho in mente due parole che mi frullano per la testa e che non ho mai dimenticato.»
Tacque di nuovo.
«Una è Koidanov» disse infine «e l’altra è Panok
Appena le ebbe pronunciate, sembrò affascinato dal loro suono.
«Sono nomi di persone o di località? Che cosa significano?»
Si chinò verso di me, avvicinandosi ancor di più; poi scosse la testa, cupo, stringendosi nelle spalle: «Non ne ho la minima idea».
Infine, come folgorato da un pensiero improvviso: «Sai che cosa penso, figliolo? Queste due parole sono la chiave per scoprire chi ero prima di vagare nella foresta, prima che i soldati lettoni. . .».
«Quando ancora stavi con la tua famiglia di contadini russi?»
Tacque di nuovo, come immerso nei suoi pensieri. Poi sospirò: «Ammesso che sia davvero così».
«Ammesso che tu sia davvero figlio di contadini russi?» proruppi. «Che diavolo vorresti dire, papà?»
Lo guardai sbigottito, ma i suoi occhi vagavano nel vuoto, evitandomi.

Un uomo ormai vecchio, che non ricorda nulla della propria infanzia: sa solo che le SS lettoni lo hanno trovato che vagava nella foresta e lo hanno preso con sé, facendone la propria mascotte, con tanto di uniforme su misura.
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Porta il nome che loro gli hanno affibbiato, non sa quale fosse il suo, né da dove provenga. Ma i fantasmi di quel passato lo tormentano con sempre maggiore insistenza, con sempre maggiore forza, e chiede aiuto al figlio per tentare di dare, a quei fantasmi, un volto e un nome.

Nel completo silenzio, il riecheggiare dei nostri passi ebbe su mio padre uno strano effetto: si irrigidì, come se avesse udito qualcosa che io non potevo sentire.
Si fermò improvvisamente e mi fissò.
«Accadde qualcosa di terribile» mormorò.
Rimasi in attesa di una qualche rivelazione. Lui continuò a fissarmi per qualche istante, poi distolse lo sguardo e si voltò verso il muro.
«No, dimentica, non è niente»
«Come niente? Hai appena detto che accadde qualcosa di terribile. Che cosa fu, papà?»
Tornò a guardarmi.
«Non farci caso, figliolo. Scordatene, non capiresti.»
Quasi abbagliato dalla luce che proveniva dall’uscita del tunnel riuscivo a scorgere solo la sua sagoma. Quando mi avvicinai, vidi che il suo viso era pallido e inspiegabilmente contratto. Respirava con difficoltà, ansimando.
«È stato terribile quello che mi hanno chiesto di fare!»
«Chi? Di chi stai parlando? Cosa ti hanno costretto a fare?»
Il suono dei passi di qualcuno che entrava nel tunnel lo colpì e lo fece irrigidire nuovamente. Ero preoccupato da quell’insolita reazione; gli afferrai istintivamente il braccio, nella speranza di calmarlo – un gesto che stupì entrambi, dal momento che nessuno dei due si era mai mostrato particolarmente espansivo.
Un uomo, vestito elegantemente, ci passò accanto a testa bassa. Mio padre gli rivolse un sorriso imbarazzato. Fermi, in silenzio, nella parte più scura del tunnel, di certo dovevamo sembrare piuttosto strani.
Prima che lo sconosciuto si fosse ormai definitivamente dileguato, mio padre sembrò riacquistare la calma.
«Papà, dimmi la verità: ti è successo qualcosa? A Melbourne hai dei problemi?»
Scosse la testa.
«No, no, niente di preoccupante. Si tratta semplicemente di un ricordo, spuntato improvvisamente dal nulla.» Ripeté “dal nulla”, e sembrò sinceramente dispiaciuto per quanto si era appena lasciato sfuggire.
«Non voglio insistere, papà, ma se volessi dirmi…»
Mi fissava con lo sguardo spento. Poi, come se nulla fosse, riprese a parlare: «Marky, avrei voglia di un gelato; dove possiamo trovarne uno?».
[…]
Ma poi, quella strana apatia svanì come per incanto. Cercando di farsi udire nel concitato viavai dei viaggiatori, mi gridò: «Sono stati Lobe e Dzenis, anni fa! Sono loro che mi hanno costretto a farlo. Dzenis mi disse di dichiarare che non avevo visto nulla, che Lobe non aveva fatto nulla. Ma non è vero! Non è vero! Ho visto molte cose!».
Le parole gli uscivano dalla bocca come acqua in caduta da una diga improvvisamente aperta. «Dzenis mi disse che loro mi avevano salvato e che ora toccava a me salvare loro. Io non volevo, ma non avevo scelta. Dzenis aveva già scritto tutto, io mi limitai a firmare. Ho fatto male, ho sbagliato.»
Mi stava accanto, scosso da un parossismo di timore e di vergogna insieme, eppure non riusciva a tacere.
L’altoparlante avvisò che le porte stavano per chiudersi.
«Papà, stai attento, fai un passo indietro!» gridai.
In realtà, prima che me ne rendessi conto, aveva già afferrato la valigetta e l’aveva fatta passare attraverso le porte, proprio mentre quelle si stavano chiudendo. Così adesso eravamo uno di fronte all’altro, separati da un vetro. Mio padre aveva gli occhi sbarrati, stralunati, sembrava sotto shock, privo di ossigeno. La pressoché involontaria rivelazione lo aveva lasciato sconvolto. La cosa mi spaventava, temevo per lui, ma non potevo fare nulla. Il fischio di un addetto alla sicurezza m’impose di scostarmi.

E dopo aver aperto la porta dei segreti, dopo aver lasciato uscire quei due nomi, Koidanov e Panok, improvvisamente, con dolorosa violenza, i ricordi cominciano ad affiorare.

Mio padre riprese a raccontare: «Finalmente i miei fratellini si addormentarono, e probabilmente mi appisolai anch’io, sulla sedia, in cucina. Quando aprii gli occhi, mia madre era seduta di fronte a me, al buio. Era immobile. Potevo vederne solo la figura, ma sentii che mi stava guardando. Mi chiamò a bassa voce, mi prese in braccio e mi tenne stretto. Ricordo che mi accarezzava i capelli, ricordo le sue dita muoversi dolcemente. E a un certo punto mi disse: “Domani moriremo tutti”».
Papà tacque. Rimase in silenzio un paio di minuti. Poi alzò gli occhi verso di me, ma appariva sconvolto.
«Sai,» disse lentamente «mia madre mi chiamava per nome, è indubbio che lo facesse, ma davvero non riesco a ricordarlo, quel nome. Posso udire ancora la sua voce, il suo modo di parlarmi, ma non riesco a sentire il mio nome.»
«Ricordi qualche altro nome? Quelli di altri familiari?»
Di nuovo scosse la testa, disperato.
«Tuo fratello e tua sorella, come si chiamavano?»
«Nessun nome. Non ricordo nessun nome, niente»
«Quanti anni avevano?»
«Erano più piccoli di me. Mio fratello cominciava appena a camminare, lo ricordo sgambettare per casa. E mia sorella era ancora in fasce.»
Tacque per un attimo, un leggero sorriso gli increspò le labbra.
«Mia madre mi disse che adesso il capofamiglia ero io, perché papà non c’era più. . .»
«Dov’era tuo padre?»
«Era morto.»
«In che modo?»
«Non lo so. Un giorno mia madre mi disse che era morto. Non ricordo altro. Ho solo la vaga impressione che a casa non ci fosse.»
«Quando?»
«Non saprei dire.»

Per cercare aiuto il figlio si rivolge innanzitutto agli storici, agli studiosi dell’Olocausto, ma nessuno gli dà credito: scottati dal recente scandalo Wilkomirski, sono tutti diventati estremamente scettici nei confronti di veri o presunti ricordi riemersi dall’oblio. Solo uno accetta di riceverlo, e gli dice chiaro e tondo che tutta la storia raccontata da suo padre non si regge. Un dettaglio in particolare, a suo avviso, ne è la prova evidente: la madre che lo informa che il giorno dopo sarebbero morti. Nessuno, spiega lo storico, poteva avere un’informazione del genere, dal momento che le “Aktionen” erano appena all’inizio e avvenivano sempre all’improvviso, senza preavvisi. E tuttavia il vecchio padre non sta né mentendo, né ricordando male…

Guardai il sergente Kulis; lui si rivolse alla piccola folla e disse solennemente: “Soldato Uldis Kurzemnieks, polizia militare lettone”.
A quel punto, molti soldati vennero verso di me, desiderosi di stringermi la mano o di farsi fotografare in mia compagnia, perché c’era anche un tale con un cavalletto e una grande macchina fotografica.
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Forse era il fotografo ufficiale dell’esercito; a ogni buon conto, sistemò la macchina e mi mise in posa. Qualcuno mi sistemò un fucile sulla spalla e iniziò una sorta di gara per farsi ritrarre accanto a me. Un gruppo di soldati si mise orgogliosamente davanti all’obiettivo formando un semicerchio.
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Ricordo anche che uno di loro infilò la sua pistola nella mia cintura e mi passò un braccio attorno alle spalle. Fatta la fotografia ricevettero l’ordine di andare in città e un altro gruppo prese il loro posto. Continuò così per un po’. A me non dispiaceva: era divertente essere al centro dell’attenzione.
Infine Kulis disse basta. Mi si accovacciò di fronte, mi guardò con un’espressione molto seria e pronunciò di nuovo la parola partizani. Poi mi prese per mano e ci avviammo insieme verso la città. Anche gli altri soldati si mossero in quella direzione. Poiché li vedevo passarsi una fiasca e bere grandi sorsate di samagonka senza nessuna disciplina, intuivo che stava per accadere qualcosa.
L’atmosfera era strana: i soldati erano chiassosi, ma tutto intorno regnava un silenzio spettrale. Per strada non c’era anima viva, gli abitanti si erano tutti chiusi in casa. Vidi solo qualche tendina sollevarsi appena, mentre passavamo.
Avevo paura, non volevo essere in prima fila insieme al sergente Kulis. Lasciai andare la sua mano, ma lui, troppo assorto nel guardare davanti a sé, sembrò non accorgersene nemmeno.
Rallentai il passo e a poco a poco mi trovai in fondo alla fila.
Arrivammo a un incrocio. Scrutai attraverso le gambe dei soldati e vidi che sul lato opposto della strada c’era un edificio. Era più alto e più grande di qualsiasi edificio mi fosse mai capitato di vedere, doveva essere di due o tre piani.
Nello spiazzo antistante c’erano centinaia di persone, vecchi, donne e bambini, stretti gli uni agli altri. Riuscii a distinguere solo alcune facce, simili a quelle del mio villaggio. Tuttavia, a impressionarmi fu soprattutto la paura dipinta sui loro volti, la stessa che avevo visto il giorno del massacro. Ero spaventato, ma anche confuso: Kulis li aveva definiti partizani.
Lentamente cercai di allontanarmi, e stavo quasi per fare dietro front e darmi alla fuga, quando uno dei soldati dell’ultima fila se ne accorse e mi richiamò. Tornai indietro; il soldato mi prese per le spalle e mi tenne davanti a sé.
Ero troppo impaurito per osare chiudere gli occhi e rischiare di mettermi nei guai. Cercai comunque di non guardare, fingendo che il sole mi accecasse, ma non potei evitare di scorgere quanto stava accadendo: alcuni soldati spingevano i prigionieri dentro l’edificio, mentre altri inchiodavano assi di legno contro le finestre.
Quando le porte furono sprangate, i soldati ammucchiarono rami secchi e fascine contro le pareti e appiccarono il fuoco. In pochi attimi, l’edificio fu avvolto dalle fiamme. Dapprima, tranne il crepitio del fuoco, non si udì alcun rumore; poi cominciarono le urla. I soldati tacevano, nessuno rideva, nessuno si muoveva: sembravano tutti ipnotizzati dalle fiamme che salivano sempre più alte verso il cielo. Anche il soldato che mi aveva preso per mano pareva essersi dimenticato di me. Anche lui, immobile, fissava le fiamme.»
Mio padre tacque di nuovo e inspirò profondamente.
«Chissà, forse vedevano bruciare anche la loro anima» disse infine a bassa voce.
«Poi accadde qualcosa.»
La sua voce era appena udibile. Per un attimo sembrò colto da un attacco di panico: boccheggiava come se si sentisse soffocare. Affettuosamente, lo invitai a continuare:
«Che cosa vedesti?».
«All’improvviso qualcuno uscì dall’edificio: era una donna… mio Dio!»
Emise un gemito, come se avesse la donna davanti agli occhi.
«Era avvolta dalle fiamme… e dietro di lei correvano due bambini, anch’essi avvolti dalle fiamme. Non emettevano alcun suono, come usciti da un film muto…
Poi, prima che mi rendessi conto di quanto stava accadendo, udii degli spari; la donna e i suoi bambini caddero a terra, immobili. Capii che erano morti, ma dai loro corpi continuavano ad alzarsi le fiamme.
Guardai verso il punto da cui erano giunti gli spari: il sergente Kulis e altri due soldati stavano abbassando i fucili proprio in quel momento.
Kulis si voltò per cercarmi. Anche se mi trovavo nelle ultime file, i suoi occhi mi trovarono. Sorrise e agitò la mano. “Partizani” gridò, come per giustificare le sue azioni.
Corsi via, senza riflettere. Sentii il sergente chiamarmi, ma non gli badai
[…]
«L’edificio dato alle fiamme, hai idea di che cosa fosse?»
Si strinse nelle spalle.
«Allora mi sembrò un edificio qualsiasi; adesso però mi chiedo se non fosse una sinagoga.»
«È quello cui stavo pensando anch’io.»
Pur non essendo un esperto in fatto di Olocausto, sapevo che episodi del genere si erano verificati molto spesso.
«Probabilmente si trattava di ebrei» aggiunsi.
Mio padre parve stupito.
«Il sergente Kulis usava il termine partizani
«I nazisti usavano spesso quel termine per indicare gli ebrei che si davano alla macchia. Li chiamavano anche bolscevichi
«Non lo sapevo» disse visibilmente scioccato. «In tutta sincerità, non avrei avuto la minima idea di cosa volesse dire essere ebrei, anche se erano la mia gente. Avevo solo cinque o sei anni. L’unica cosa di cui mi rendevo conto era che quelle persone assomigliavano agli abitanti del mio villaggio. Ripensandoci ora, penso proprio che fossero ebrei.»

Si tratta, con tutta probabilità, del massacro di Slonim. Ne ho cercato in rete qualche documentazione fotografica, ma pare che non ne esistano.

«Non hai fatto nulla di male» proruppi. «Se non ti accettano per quel che sei, cancellali dalla tua vita!»
Si grattò la nuca, pensieroso.
«C’è dell’altro, non è vero?» dissi.
«Cosa?»
«Sull’essere  ebreo…»
Annuì.
«Non so come spiegarlo» confessò a bassa voce.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani.
«Ti fa paura l’idea di essere ebreo?»
Sollevò di scatto la testa e mi fissò intensamente: avevo toccato un nervo scoperto.
«Non lo so, figliolo» mormorò infine. «Quando ero con i soldati ho sempre sentito parlare degli ebrei come di vermi. Gli ebrei sono il male assoluto, dicevano. A furia di sentirglielo ripetere giorno dopo giorno – e di dover tacere – mi entrò nella mente e nell’anima. Finii per vergognarmi di esserlo.»
Con i loro insulti contro gli ebrei, e – assai peggio – con le loro Aktionen, i soldati e gli altri lettoni non avevano soltanto terrorizzato il bambino che avevano accolto, lo avevano spinto a vergognarsi della sua vera identità. Così quel bambino aveva nascosto il fatto di essere ebreo anche a se stesso, oltre che agli altri, in una sorta di autoannientamento.

Perché questa è, forse, la conseguenza più drammatica in storie di questo genere: dover fare i conti con l’idea di essere quanto di più lontano, quanto di più estraneo, quanto di più ostile a ciò che si pensava di essere. (C’è un’altra pagina che voglio proporvi, ma lo farò in un altro momento)
Quanto al libro, ricordate che è l’unico, in tutta la mia vita, che ho letto per una seconda volta.

Mark Kurzem, Il bambino senza nome, Piemme
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barbara

LA MAESTRA BAMBINA

C’è un racconto ebraico: un mendicante va dal suo rabbino e chiede, spiegami rabbino, che io non capisco: busso alla porta di un povero che in casa non ha altro che un pezzo di pane, e lui prende il pezzo di pane e lo divide con me; busso alla porta di un ricco che ha la dispensa piena, e quello mi caccia in malo modo: perché? Il rabbino lo invita ad andare alla finestra e descrivergli quello che vede, e il mendicante comincia a dire: vedo la strada, due alberi, una donna con un bambino per mano, un uomo in bicicletta… Poi il rabbino lo manda davanti a uno specchio e, ugualmente, gli chiede di descrivere quello che vede. Perplesso per una richiesta che gli appare assurda, il mendicante risponde: la mia faccia vedo, e che altro dovrei vedere? Vedi – spiega il rabbino – è sempre vetro, ma appena ci metti dietro un po’ d’argento, non vedi più altro che te stesso.

Povera tra i poveri è Fula; povera e per giunta appartenente ai rifiuti dell’umanità, i dalit, i fuori casta, quelli che gli altri “Se potessero, non starebbero neppure sotto la stessa pioggia che scende dal cielo, con gente come noi”. E non è una donna sterile con vuoti da riempire: ha già tre figli, lei. E tuttavia non esita un solo istante a raccogliere quella neonata urlante e sanguinante abbandonata presso i binari, ignorando le perplessità del marito, a stringersela al petto e decidere di tenerla con sé. La bambina è di pelle più chiara, ma vivendo con la famiglia dalit diventa automaticamente parte dei fuori casta, ossia persona priva di ogni diritto, cominciando da quello allo studio. Al villaggio, a dire la verità, una scuola ci sarebbe, ma il maestro, quando non dorme perché troppo ubriaco, oltre a bastonare furiosamente i bambini non fa altro che far loro ripetere fino allo sfinimento pezzi di alfabeto e qualche numero, cosa che fa disperare Bharti, per la quale lo studio è la passione più grande, ma le scuole private, le uniche in cui c’è la possibilità di imparare davvero, costano, e nessun dalit se ne può permettere la retta.
Bar ama baro, “impara o insegna”, dice un proverbio somalo, con la saggezza concreta dei popoli che per sopravvivere possono contare solo sulle proprie forze. La mente non deve sostare, se non sei impegnato a imparare, provvedi a trasmettere ciò che hai imparato. E questa sembra essere la filosofia della piccola Bharti, messa immediatamente in pratica: appena esce dalla scuola, alla fine di quelle noiosissime e inutili lezioni, si siede all’ombra del grande mango, e i bambini più piccoli si siedono intorno a lei e ne ricevono a loro volta il poco sapere che è riuscita ad acquisire. A segnare la svolta sarà un imprevisto e tragico evento, che cambierà la vita di tutti, e aprirà a Bharti la via del sapere.

Dalla postfazione

In India, più di un bambino su cinque non va a scuola. Metà degli allievi lascia gli studi alle elementari, prima degli undici anni. L’analfabetismo riguarda più di ottanta milioni di bambini. Cifre allarmanti, che tuttavia non devono offuscare l’evoluzione che il paese ha conosciuto dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1947.
Nel suo discorso del primo aprile 2010, il primo ministro indiano Manmohan Singh annuncia che la scuola diventa obbligatoria per tutti i bambini dai sei ai quattordici anni. Ufficialmente, la misura riguarderebbe più di dieci milioni di bambini delle aree sfavorite, fino a quel momento esclusi dal sistema scolastico. Ma la cifra, secondo gli esperti, è molto più alta.
Se questa nuova legge riflette intenzioni nobili e sincere, la sua applicazione si scontra con numerosi ostacoli, in particolare la carenza di insegnanti preparati e di scuole adatte ad accogliere l’ondata di nuovi allievi, soprattutto nelle zone rurali.
Dopo anni di campagne di sensibilizzazione,  condotte in principal modo dalle organizzazioni umanitarie o dalle Nazioni Unite, gli adulti sembrano aver compreso l’importanza di dare un’educazione ai loro figli. Anche nelle regioni più isolate e arretrate, ormai sono in pochi a non realizzare le conseguenze benefiche di una scolarizzazione continua. Però, nella vita quotidiana, mandare un bambino a scuola costituisce spesso una difficoltà insormontabile, soprattutto per le famiglie più povere. Per loro, il costo della scuola è ancora troppo elevato: le rette, anche minime, a volte rappresentano quanto spende la famiglia per mangiare una settimana. Inoltre il retaggio coloniale impone ai bambini di portare l’uniforme: altre centinaia di rupie supplementari da reperire. Senza dimenticare le spese di trasporto per arrivare alla scuola più vicina. È vero che esistono sovvenzioni regionali e nazionali, ma molto spesso la corruzione impedisce a questi aiuti cruciali di arrivare ai beneficiari.
Gli adulti inoltre preferiscono far lavorare i bambini. Una consuetudine difficile da estirpare da parte delle autorità perché spesso sono i parenti, uno zio, una zia, che impiegano i loro figli e nipoti. Una manodopera gratuita, esclusiva e disponibile. Un droghiere userà suo figlio per fare le consegne, un agricoltore come manodopera durante il raccolto e la semina… E cosa dire delle ragazze attirate da un salario da donna delle pulizie, o che aiutano regolarmente la loro madre con le incombenze quotidiane quando invece dovrebbero essere sui banchi di scuola?
Nel caso delle famiglie più povere, capita che siano i bambini stessi i primi a voler contribuire alle spese per la propria sussistenza. Hanno così l’impressione di non essere più un fardello e di responsabilizzarsi, una qualità incontestabile in una società fondata sul rispetto e l’accettazione della gerarchia familiare.
Esiste inoltre una grande disuguaglianza tra ragazzi e ragazze. Se al ragazzo spetta il compito di perpetuare il nome di famiglia e di vegliare sullo svolgimento dei riti induisti, la ragazza, che porterà il nome del marito, è considerata un peso. Un proverbio indiano dice che “avere una figlia è come annaffiare il giardino del vicino”. Significa che una ragazza deve essere nutrita e cresciuta per anni, ma alla fine sarà la famiglia dello sposo a trarne profitto. E la pratica della dote, che è sempre diffusa nonostante sia vietata, costituisce un carico finanziario supplementare per i genitori. Il fenomeno è ben noto, così come le sue derive, per esempio l’aborto. L’ecografia prenatale è proibita in India proprio per prevenire l’aborto selettivo. Ma anche in questo campo, la corruzione consente di aggirare le leggi. I medici, per esempio, consegnano i risultati delle analisi in buste rosa o azzurre, secondo il sesso del bambino. Non appena si denuncia un’astuzia, ne viene escogitata un’altra.
Questo fenomeno ingiusto e pericoloso – in alcuni stati la carenza di donne in rapporto al numero di uomini è ormai una piaga – riguarda tutti gli indiani, indipendentemente dalla loro origine e dal loro stato sociale.
Il sistema delle caste risale a millenni fa. Casta significa “puro, non mischiato”. Concepito inizialmente per definire il ruolo di ciascuno nella società, secondo le competenze e l’abilità nel lavoro, oggi si basa esclusivamente sull’ereditarietà delle origini. In caso di matrimonio misto, relativamente raro, gli sposi adottano la casta più elevata.
In cima a questa gerarchia sociale c’è il bramino (”cuore puro e intelletto superiore”), al gradino più basso i dalit, gli intoccabili che rappresentano l’impurità. La loro possibilità di ascesa sociale è molto limitata: essi sono relegati ai lavori sporchi, come la raccolta degli escrementi. In India se ne contano quasi centosessanta milioni e sono le prime vittime di questo sistema di discriminazione, oggi proibito dalla Costituzione indiana, redatta peraltro da un intoccabile. Gandhi li chiamava harijan (”figli di Dio”). Gli intoccabili preferiscono il termine politico più appropriato di dalit (oppressi).

Questo testo non è dell’anteguerra: è di due anni fa. Nella narrazione in prima persona della vita quotidiana di Bharti, è possibile trovare una rappresentazione concreta di ciò che è ancora oggi, almeno nelle zone rurali, la vita di un intoccabile.

Bharti Kumari, La maestra bambina, Piemme
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barbara

ERO UNA SPOSA BAMBINA

Sono io la giovane sposa spaventata. Ho conservato negli occhi, nella carne e nel cuore , ogni secondo, ogni minuto delle nozze. Nozze di sangue e di lacrime scure come il fiume Niger. […] Sono la giovane sposa, o meglio “la sposa giovane”. Ho solo undici anni. Una bambina. Lui ha trent’anni, più del doppio della mia età; potrebbe essere mio padre. È venuto perché vuole la quarta moglie. Io non sono una donna, non ancora, non subito. […]

Si diverte e, per tagliar corto, dice: «Sei la mia donna».
Ha ragione, sono la sua donna, solo che io non sono una donna. Sono una ragazzina che detesta il vecchio al quale l’hanno ceduta. Una bambina che rifiuta di perdere la sua verginità con la forza. Un essere umano, che vorrebbe che il suo parere contasse, una piccola cosa spaventata, pronta a difendersi con i pochi mezzi che possiede, forse risibili. Mio padre è uscito dalla casa da tempo e da dove si trova non può sentirmi. E poi, nemmeno lui mi aiuterebbe. È favorevole alle mie nozze: ci guadagna. Non ha nulla sulla coscienza: il sacrificio di sua figlia serve per aiutare la sua famiglia. L’argomento soldi da noi vale più che altrove.
Ahmed si ostina. Io mi dibatto. Sono minuta ma alta per la mia età e mossa da un istinto di conservazione che mi dà una forza spropositata. Mi afferra una prima volta ma gli sfuggo, salto verso la finestra. Ha smesso di ridere, comincia a innervosirsi, il suo viso si contrae e i suoi gesti sono più brutali. Prova a trattenermi serrandomi i pugni, afferrandomi per i capelli. Io non smetto di agitarmi, lui ricorre a metodi più radicali. Mi prende a sberle. Una pioggia di schiaffi si abbatte sulla mia faccia.
Mi ha strappato il vestito. Resto in slip e un lembo di tessuto che dalle spalle mi pende sui seni. Malgrado i suoi tentativi di controllarmi, la nudità umiliante e i colpi ricevuti, non mi arrendo. Si mette a sbraitare, chiama mia zia in aiuto.
La sedia vola via, Ahmed si è spazientito. Da quel momento, si scatena l’inferno. Ma mia zia non si è fatta viva. Né lei, né i vicini. Dalla finestra della camera dove tento di sottrarmi al mio triste destino scorgo il vicino che abita di fronte, un vecchio che mi conosce da quando sono nata. Non si è mosso. Né lui, né gli altri nelle casupole intorno.
Con l’aria scura, gli occhi che inviano lampi, quelli che ha quando mi infila a forza del peperoncino in bocca per farmi rimpiangere di aver parlato troppo o me lo preme sugli occhi per punirmi di aver osato guardarla, mia zia si decide a intervenire. Irrompe nella camera. Tiene in mano un lungo foulard che di solito porta in testa.
Minaccia di farmi mangiare del peperoncino se non mi decido ad arrendermi.
Mi prende le braccia e me le lega dietro la schiena con il foulard in un silenzio carico di significati. Devo capirlo: rischio grosso a ostinarmi.
Alla parola “peperoncino” smetto all’istante di saltellare. Ho permesso a mia zia di legarmi i polsi, ho abbassato gli occhi come piace a lei. Non mi muovo più. Ma è un momento. Infatti, ho solamente atteso che uscisse per riprendere le armi.
Prima ho messo le mani in modo tale che lei non potesse stringere forte il foulard, non abbastanza, in ogni caso. Ahmed ha un ginocchio puntato su di me, mi faccio comunque male ai polsi, fino a farli sanguinare, mentre tento di sciogliere quelle manette di cotone. Finalmente riesco a liberare una mano e veloce artiglio la faccia del mio aggressore per respingerlo e liberarmi della sua stretta. Faccio un balzo e corro via verso la finestra, la scavalco. Mezza nuda attraverso il giardino illuminato dalle case circostanti e mi arrampico sull’acacia. A cavalcioni di un ramo, squadro Ahmed che folle di rabbia grida insulti così forte che mia zia non tarda a riapparire.
Mi ordinano di scendere ma io non li ascolto, sono decisa a restarmene appollaiata sul mio albero. A vederli dall’alto, che sbraitano minacce e promesse di terrificanti punizioni, preferisco restarmene dove mi trovo. La scena dura dieci minuti. Il vicino che abita dall’altra parte del muro è compiaciuto nel vedermi in difficoltà. Lo scorgo alla finestra, sotto la sua lanterna, muto e soddisfatto.
Lo diverte che venga braccata come un animale. Spettatore pago della caccia.
Sono consapevole di non avere possibilità di fuga. Prima o poi mi toccherà scendere e allora mi agguanteranno come un pollo, e non potrò più agire. Mi accontento di rimandare la mia sconfitta, perché sia meno amara, meno terribile. Almeno potrò dire di essermi battuta, di aver corso, piccola lepre accecata dal lampo improvviso dei fari di una macchina.
La pazienza di Ahmed è finita. Malgrado la tunica ingombrante e i sandali che scivolano, si arrampica a sua volta sull’acacia. Non ha bisogno di raggiungermi sul ramo. Gli è sufficiente afferrarmi per le gambe.
Provo a sollevarle e a piegarle ma lui si arrampica sempre più in alto e mi afferra, stavolta per il braccio. Io precipito giù.
La caduta mi ha stordita. Non c’è un punto del mio corpo che non sia indolenzito. Sento un dolore acuto alla spalla, credo che si sia lussata. Gli schiaffi hanno segnato il mio viso che adesso pulsa, caldo. Mi dico che non può fare peggio, che non gli conviene esagerare. Deve limitare i colpi per garantire che la merce rimanga intatta. Tanto più che non l’ha ancora gustata.
Per terra, come spezzata, non ho la forza di rialzarmi. Le gambe non riescono a muoversi. Figuriamoci se riescono a sorreggermi fino al mattatoio: la camera è umida e invasa di zanzare che volano, moleste, complici di torbidi segreti. Dato che resto là, pesta, la faccia nella polvere, a pochi centimetri dai piedi di mia zia, Ahmed si china. Chiudo gli occhi, non voglio vedere la sua faccia sudata, i suoi occhi spiritati. Mi solleva e mi getta qualcosa di simile a un sacco sulle spalle. Il sangue affluisce nella mia testa mentre vedo sfilare il suolo nero, poi il corridoio male illuminato e infine la camera con la sua lampada che si accende a intermittenza. Il materasso sporco, il lenzuolo macchiato di ogni vizio, le pareti nude sulle quali posare i suoi occhi vuoti.
Ahmed è nudo e mi disgusta. Dice di essere mio marito. Io lo vivo come una zappa che scava un solco nella mia terra, una lama che incide un taglio profondo nella mia intimità. Mi separa da me stessa. Straziato, il mio corpo è un lembo di fragile tessuto che si lacera. Mio marito mi violenta. Mio marito mi deflora, mi guasta, mi sciupa. Vorrei che la mia carne non fosse la mia carne, che si staccasse da me, soffrisse tutta sola, in un angolo, con le migliaia di frammenti di vetro che la feriscono. Vorrei che lui sparisse con l’arma che ha tra le gambe. Ma è là e io sotto di lui. Un’incudine. Sono sventrata, svuotata. Il mio sangue caldo è un rigagnolo tra le cosce, segue la curva delle gambe. […]
Distesa, il mio corpo è diviso, spezzato, ricoperto di lividi. Ogni respiro mi tortura. Faccio attenzione a muovermi, rotolo su me stessa per trovare la posizione che mi consentirà di alzarmi senza soffrire troppo. Le due voci continuano la loro conversazione nel salone. Finalmente, riesco a uscire dalla mia posizione senza avere la sensazione di perdere i pezzi. Sulle dita dei piedi che poso a terra c’è del sangue rappreso. Senza far rumore, mi intrufolo nel cortile sul retro, dove ci si lava e si cucina, e riempio d’acqua un mastello per togliere dalla mia pelle sporca i resti dell’odore di mio marito. […]
Il tempo si è fermato sotto la tortura. La mia notte di nozze: un’eternità.
Non ho più undici anni.

Ancora una storia, l’ennesima, di infanzia annientata, di violenza senza limiti, di immondo mercato di carne umana. E ad ogni nuova lettura, ad ogni nuova storia, lo strazio si rinnova sempre uguale. Il tempo passato del titolo induce all’ottimismo sull’epilogo della storia; ma quanti inferni dovrà attraversare una bambina dall’infanzia straziata prima di trovare non dico un paradiso, ma almeno un’oasi in cui tirare il fiato?

Fatima, Ero una sposa bambina, Piemme
sposabambina
barbara

LA CITTÀ DELLE DONNE INVISIBILI

Questo romanzo è opera della fantasia. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone vive o scomparse, è puramente casuale.

Ma l’autrice americana di questo romanzo ambientato a Jeddah, in Arabia Saudita, è vissuta a lungo in questa città, presso la comunità beduina cui apparteneva l’ex marito saudita-palestinese: non saranno reali le identità delle persone e i dettagli degli avvenimenti narrati, ma sicuramente reale è il tessuto sociale, sicuramente reale è l’atmosfera, sicuramente reale è la cultura in esso rappresentata. La struttura è quella del giallo; anzi, di due gialli intrecciati: il rinvenimento del cadavere, orrendamente sfigurato, di una donna e la scomparsa di un americano. Le indagini, già difficili di per sé, sono ulteriormente complicate dalle regole locali: un poliziotto uomo non può interrogare una donna; una donna poliziotto per poter lavorare deve essere sposata, e se si scopre che non lo è, non importa quanto sia brava, deve essere allontanata; una donna difficilmente può viaggiare con un uomo che non appartenga alla sua famiglia, e non può mostrare il viso. E tuttavia saranno proprio queste donne obbligate per legge a restare invisibili, a dare la propria impronta allo snodarsi degli eventi.
È un libro bello, scritto bene, coinvolgente e appassionante. Insomma, io ve lo consiglio.

Zoë Ferraris, La città delle donne invisibili, Piemme
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barbara

LA PRINCIPESSA SCHIAVA

Principessa vera, Jacqueline, moglie di un principe della famiglia reale della Malesia: bellissimo, affascinante, dolce, tenero, delicato, raffinato, appassionato, ma… musulmano. E fin dal giorno del matrimonio la vita della giovanissima sposa diventa quella di troppe altre sorelle di sventura: reclusione, umiliazioni, insulti, sesso violento, botte, sevizie, torture psicologiche, inganni, tradimenti – oltre a simpatiche manifestazioni di entusiasmo per quella meravigliosa “operazione di pulizia sociale” che dalle nostre parti è conosciuta col nome di Olocausto. Senza la possibilità – a portata di mano per qualunque donna in Europa o in America – di chiedere aiuto: non alla polizia, non alla famiglia, e neppure alla propria ambasciata, perché

«Lei è la benvenuta se teme di essere in pericolo, ma devo avvertirla che se ci venisse richiesto di consegnare i suoi figli, saremmo costretti ad accettare. Mi dispiace, ma non possiamo rischiare un incidente diplomatico.»
Cercai di discutere con lui, ricordandogli che eravamo tutt’e tre australiani, ma fu inutile. La posizione della mia ambasciata fu espressa con molta chiarezza: erano disposti ad aiutarmi, ma non a rischiare di suscitare le ire dei malesi proteggendo i miei bambini australiani. […]
Ero sconfitta. Ora non avevo più nessuno a cui rivolgermi.

E la discesa all’inferno continua inesorabile fino all’oltraggio supremo: il rapimento dei figli (con le autorità e la polizia australiane intensamente impegnate ad evitare ogni rischio di intercettare e fermare il rapitore) – e il lieto fine, almeno fino alla pubblicazione del libro, non c’è.

Vi sembra di avere già sentito questa storia? Sì, avete ragione: è assolutamente identica a quella di decine di migliaia di altre storie – quasi tutte (le eccezioni sono rarissime) con protagonisti musulmani – accadute nel mondo, alcune delle quali sono state narrate nei libri scritti dalle vittime: Betty Mahmoody, Mai senza mia figlia; Zana Muhsen, Vendute!; Tehmina Durrani, Schiava di mio marito; Carmen Bin Laden, Il velo strappato; Stefania Atzori, L’infedele; Sandra Fei, Perdute (l’unica, fra quelle a mia conoscenza, con marito non musulmano).
Mi resta, tuttavia, difficile da capire come una donna possa accettare ogni sorta di violenze, dal primo brutale stupro (“lui non è così, chissà cosa gli è preso, sicuramente non succederà più”), al crescendo delle violenze (“è sotto pressione, devo evitare di irritarlo, prima o poi tornerà come prima”), al lasciarsi sodomizzare, sbattere la faccia contro il muro, la testa sul pavimento, fino a quando, con la nascita dei figli, non diventa schiava del ricatto della loro sottrazione, ed è troppo tardi per qualunque soluzione.
(Certo, se da bambina non avesse subito tutti quegli abusi, soprattutto sessuali, in casa di sua madre, magari non sarebbe stata così fragile, così vulnerabile, così pronta a qualunque cosa, pur di fuggire da quell’inferno, da non accorgersi che quello che le si apriva davanti era un inferno ancora peggiore)

(Ah, dimenticavo: lo sapevate che nell’islam ci sono i punti? Sì, come i punti Alitalia, o quelli della Despar, o di Cartasì. Se per esempio dovesse – diocenescampieliberi – capitarvi di pregare con l’ano poco pulito, ne perdete un bel po’, mentre se dopo avere stuprato qualcuno provvedete a lavarvi accuratamente dalla testa ai piedi, ne guadagnate – absit iniuria verbis – un bordello. A dire la verità non so se sia una norma generale oppure una variante locale, effettivamente questa cosa non l’avevo mai sentita prima, comunque almeno in Malesia l’islam funziona a punti, sappiatelo)

Jacqueline Pascarl, La principessa schiava, Piemme

barbara

IL BANCHIERE DI HITLER

In realtà non è affatto corretto chiamarlo il banchiere di Hitler: Hjalmar Horace Greely Schacht, certo, ha collaborato anche con Hitler, lo ha entusiasticamente sostenuto quando credeva che potesse rappresentare la salvezza per la Germania, ma non ha esitato a prenderne le distanze e a combatterlo apertamente – pagandone il prezzo – quando si è reso conto che in realtà la stava riconducendo verso il baratro. Perché la vera molla delle sue scelte e delle sue azioni, oltre a un’innegabile robusta dose di ambizione, è stato un immenso amore per la sua Germania.
Quanto alla questione ebraica, pur tutt’altro che immune da pregiudizi, ha però sempre ritenuto inaccettabile qualunque forma di persecuzione nei loro confronti, e non si è mai stancato di proclamare questa sua convinzione, sia in privato che in pubblico, sia a voce che per iscritto, oltre a considerare un vero e proprio crimine contro la Germania il privare la sua economia del competente apporto degli ebrei.
Libro ricco e documentato, nonostante qualche imprecisione (per non parlare di un’abominevolissima citazione latina con un accusativo al posto del nominativo), direi che vale senz’altro la pena di leggerlo.
Piesse: considerando che in tempi più recenti abbiamo avuto un “banchiere di Dio”, se dovessi mettere sulla bilancia il banchiere di Dio e quello del diavolo, non credo che avrei difficoltà a stabilire quale dei due sia stato il più disonesto, il più sporco, il più malvagio. In una parola: il più diabolico.
Pipiesse: l’economia non è il mio campo; dire che poco ne so e meno ancora ne capisco, sarebbe già un eufemismo. Credo, tuttavia, di potermi permettere di dire che chi si preoccupa della crisi attuale, delle sue cause, delle possibili soluzioni, farebbe bene a leggere questo libro. E a meditarci su.

John Weitz, Il banchiere di Hitler, Piemme

barbara