PERCHÉ COL RAFFREDDORE SI STA MALE

(JNi.media) Quando hai la febbre, il naso è chiuso e il mal di testa ti si spande fino alle dita dei piedi, il tuo corpo ti sta dicendo di stare a casa a letto. La sensazione di malessere è un adattamento evolutivo secondo un’ipotesi avanzata dal Prof. Guy Shakhar del dipartimento di Immunologia dell’Istituto Weizmann e dalla Dr. Keren Shakhar del dipartimento di psicologia del College di gestione di studi accademici, in un recente documento pubblicato in PLoS Biology. Tendiamo a dare per scontato che l’infezione è ciò che provoca i sintomi della malattia, supponendo che l’invasione microbica incida direttamente sul nostro benessere. In realtà, molti dei sistemi del nostro corpo sono coinvolti nell’essere malato: il sistema immunitario e il sistema endocrino, come pure il nostro sistema nervoso. Inoltre, il comportamento che associamo con la malattia non è limitato agli esseri umani. Chi ha un animale domestico sa che gli animali agiscono in modo diverso quando sono malati. Un esempio estremo di “comportamento di malattia” si trova in insetti sociali come le api, che in genere quando sono malate abbandonano l’alveare per andare a morire altrove. In altre parole, tale comportamento sembra essersi conservato nel corso di millenni di evoluzione. I sintomi che accompagnano la malattia sembrano influenzare negativamente la possibilità di sopravvivenza e riproduzione. Allora perché questo fenomeno persiste? I sintomi, dicono gli scienziati, non sono un adattamento che funziona a livello individuale. Piuttosto, suggeriscono, l’evoluzione sta funzionando al livello del “gene egoistico”. Anche se l’organismo specifico non dovesse sopravvivere alla malattia, isolandosi dal suo ambiente sociale ridurrà il tasso complessivo di infezione nel gruppo. “Dal punto di vista dell’individuo, questo comportamento può sembrare esageratamente altruistico,” dice la dottoressa Keren Shakhar”, ma dal punto di vista del gene, le probabilità di essere tramandato sono migliorate”. Nel documento, gli scienziati prendono in esame un elenco di sintomi comuni e ognuno sembra confermare l’ipotesi. La perdita di appetito, per esempio, impedisce alla malattia di diffondersi attraverso le risorse comuni di cibo o acqua. Affaticamento e debolezza possono ridurre la mobilità dell’individuo infetto, riducendo il raggio di possibili infezioni. Insieme con i sintomi, l’individuo malato può diventare depresso e perdere interesse per contatti sociali e sessuali, limitando le opportunità di trasmettere agenti patogeni. La trascuratezza nella cura di sé e i cambiamenti nel linguaggio del corpo dicono: sono malato! Non avvicinarti! “Sappiamo che l’isolamento è il modo più efficace per impedire la diffusione di una malattia contagiosa,” dice il professor Guy Shakhar. “Il problema è che oggi, per esempio, con influenza, molti non si rendono conto di quanto possa essere mortale. Così vanno contro i loro istinti naturali, prendono una pillola per ridurre dolore e febbre e vanno a lavorare, dove è molto maggiore la possibilità di infettare altri.” Gli scienziati hanno proposto diversi modi per testare questa ipotesi, ma sperano anche che arrivi il loro messaggio: quando vi sentite male, è segno che avete bisogno di stare a casa. Milioni di anni di evoluzione non possono avere torto. (traduzione mia)

Sembrerebbero osservazioni talmente ovvie da apparire addirittura banali, e tuttavia abbiamo dovuto aspettare Israele perché ci venisse detto.
Qualcuno mi ha obiettato che tutto questo sarebbe in contraddizione col principio della selezione naturale (sarebbe più logico, sostiene, essere in condizione di andare in giro e diffonderlo al massimo, e così si eliminerebbero i più deboli), ma basta pensarci un momento per rendersi conto che è una grande sciocchezza: il raffreddore, in società come la nostra che ha avuto millenni a disposizione per sviluppare gli anticorpi (a differenza per esempio degli indigeni americani che prima delle invasioni europee non lo avevano mai conosciuto), è parecchio invalidante ma scarsamente letale. Quindi, se venisse diffuso al massimo, a fronte della liberazione da una manciata di vecchi e deboli, ci ritroveremmo con una società interamente paralizzata: ospedali, scuole, fabbriche, banche, poste, uffici, forze dell’ordine, pompieri, negozi, produzione e distribuzione di alimentari e ogni altro genere di attività smetterebbe – o quasi – di funzionare. Da tutto questo la pesante sintomatologia che accompagna il raffreddore ci tutela.
Senza poi contare che alle varie malattie non sempre sopravvive il più forte: a volte capita anche  che a sopravvivere sia semplicemente chi ha questo o quest’altro gruppo sanguigno, indipendentemente dalle proprie capacità di resistenza. Pensa un po’.

barbara

ANTON L’ALLEVATORE DI COLOMBE

La mia nonna paterna era convalescente da un ictus. Riusciva a camminare aiutandosi con un bastone. Tremavo al pensiero di doverla portare là. I nazisti stavano preparando qualche azione subdola. Sapevo che l’ospedale non era abbastanza grande per accogliere tutti gli ammalati del ghetto.
Quando fui ritornato dalla piazza, mia madre studiò la mia espressione. Nel suo sguardo si leggeva lo spavento. Mi domandò che cosa stesse succedendo là fuori, che cosa dicesse la gente, e io le mentii. Non parlai dei riflettori, ma compresi che sapeva quel che sarebbe accaduto.
Aveva riempito la sua valigetta, e il suo impermeabile, accuratamente ripiegato, era steso sul divano, come se dovesse partire per un viaggio che l’avrebbe tenuta fuori per la notte, come accadeva di solito prima della guerra. Pronunciammo solo poche parole: comunicavamo attraverso il silenzio, con il cuore in tumulto. Mio padre tirò fuori il vecchio album delle foto di famiglia e si mise in piedi vicino alla finestra, voltando lentamente le pesanti pagine. Guardai sopra la sua spalla e vidi che stava osservando il proprio ritratto nuziale. Lo trasse fuori dall’album e se lo mise nella tasca interna del vestito. Feci finta di non aver visto.
[…]
Era passato mezzogiorno, e mia madre era indaffarata in cucina. Aveva trovato della farina e qualche patata che era riuscita a mettere da parte, e arrivò con una zuppa deliziosa e frittelle di patate cosparse di cipolle fritte. Mi chiedevo: sarà questo il nostro ultimo pasto insieme?
Entrarono alcuni amici e vicini con espressioni spaventate sul volto, a confermare le voci sulla deportazione imminente e a dire arrivederci. Venne la famiglia Zilber, e piangevano tutti. Non riuscivo a impormi di dire ‘arrivederci’ a nessuno: temevo che non li avrei rivisti mai più.
Erano quasi le quattro del pomeriggio quando mia nonna, con indosso il suo vestito migliore, uscì dalla propria camera. Se qualcuno avesse voluto accompagnarla all’ospedale, disse, lei era pronta. Ci offrimmo mio fratello e io. Lei insistette per camminare da sola, così la sorreggemmo appena per le braccia nel caso incespicasse. Camminava diritta, con la testa alta; a tratti guardava uno di noi due senza dire una parola. La gente ci sorpassava confusa. Sembravano uccelli in gabbia in cerca di una via di fuga. Un uomo di una certa età, che portava sulle spalle un fagotto enorme, ci fermò e ci chiese l’ora. «Che bisogno ha di sapere l’ora?», chiesi. Mi guardò come turbato dalla domanda e rispose: «Presto sarà il momento della preghiera della sera, non lo sai?». E continuò per la propria strada, parlando tra sé e tenendo lo scomodo fagotto in equilibrio sulle spalle.
Quando raggiungemmo il portone dell’ospedale, mia nonna insistette perché la lasciassimo lì. Sarebbe andata avanti da sola. Con il cuore grosso le diedi un bacio di commiato. Sorrise e si volse verso di noi, dicendo: «Com’è che si dice in questi casi? ‘State bene’?» Poi sparì dietro la cadente porta imbiancata dell’ospedale. Avevo bisogno di piangere, ma mi vergognavo di farlo davanti a mio fratello maggiore. Deciso a dar prova di quanto fossi duro, trattenni le lacrime. Tornammo indietro camminando in silenzio, probabilmente pensando entrambi alla stessa cosa.
Non dimenticherò mai il ritorno a casa dopo aver accompagnato la nonna all’ospedale. Mia madre era in cucina a salutare una delle sue amiche. Non l’avevo mai vista piangere come allora. Quando ci vide ci corse incontro e tra le lacrime ci supplicò di darci alla macchia. Ci implorò di rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo. La sua amica piangeva con lei, e io mi sentii spezzare il cuore.
Entrò un vicino a dirci che il ghetto era circondato da uomini delle SS armati e che la deportazione stava ufficialmente per avere inizio. La polizia del ghetto era in stato di massima allerta, ed era impossibile ricavarne alcuna informazione.
Mio fratello e io ci voltammo e corremmo fuori di casa. Senza fermarci, corremmo per tutto il ghetto fino ad arrivare, grondanti di sudore, alla recinzione. Dall’altra parte del recinto c’era un circolo di ufficiali nazisti; più in là, in mezzo a un campo, una scuderia. Le guardie ucraine, con i loro fucili, erano ormai all’interno del ghetto. Scavalcammo la recinzione alle loro spalle, e fummo dall’altra parte. Entrammo nella stalla da una porta laterale. Per quel che potevo vedere, non c’era nessuno. I cavalli girarono la testa e ci osservarono. Mio fratello decise che dovevamo nasconderci separatamente, così che, se uno di noi fosse stato scoperto, l’altro avrebbe avuto ancora una possibilità. Mi arrampicai sui travicelli fin sopra a una piattaforma di legno incastrata tra due grosse travi. C’era abbastanza fieno per potermi coprire, e mi distesi bocconi. Attraverso le larghe fessure tra le assi della piattaforma potevo scrutare tutta la scuderia sotto di me. Scoprii anche una fessura nel muro che mi consentiva un’ampia vista della strada dall’altra parte della scuderia.
[…]
Nel rimettere a posto il panino sentii la porta che si apriva e vidi entrare un uomo. Camminò fino all’altro capo della scuderia e depose un pacchetto in una cesta. Poi si prese cura dei cavalli, fischiettando una vecchia canzonetta polacca. Dev’essere lo stalliere, pensai. Sembrava ancora giovane, anche se non potevo vederlo chiaramente in viso: aveva un’andatura svelta e portava con facilità pesanti balle di fieno. Temetti che facendo quel trambusto potesse attirare attenzione; si mise ad andare e venire, riempiendo d’acqua il secchio da cui bevevano i cavalli.
[…]
Dovetti cadere addormentato. Quando mi svegliai, udii forti rumori provenire da dietro la recinzione. Guardai attraverso la fessura nel muro: fuori era buio. D’un tratto risuonò forte un coro di pianti e grida, inframmezzato da voci che urlavano ordini in tedesco. Seguirono dei colpi di fucile, e altre voci che invocavano dei nomi trafissero l’oscurità. All’udire grida di bambini rabbrividii.
Mi sembrò di sentire le urla del mio cuginetto di quattro anni, che era là con la madre – mia zia -, la sorella di quest’ultima e le sue due bellissime figliolette. Erano tutti là, in trappola, disperati e inermi. Pensai al signor Gutman, il nostro amico che, qualche anno prima, aveva dichiarato che Dio era in esilio. Mi chiesi dove fosse e che cosa dicesse ora. Ero in ansia per mia nonna e per quello che le stavano facendo all’ospedale. Spaventato e pieno di apprensione com’ero, decisi di andare avanti, di non arrendermi.
Sentii il cigolio della porta; guardai giù e vidi scivolare fuori lo stalliere, che fermò la porta con un sasso per tenerla aperta. I rumori che provenivano dall’esterno si facevano più forti; i cavalli divennero inquieti e cominciarono a nitrire. I colpi di fucile erano più frequenti e risuonavano molto più vicini di prima. Tutti quei rumori proseguirono per la maggior parte della nottata. Sembrò un’eternità.
In mezzo a quella moltitudine che urlava e piangeva, immaginavo mia madre che mi implorava di rimanere vivo, e potevo udirla invocare aiuto. Cominciai a domandarmi se mio padre fosse con lei e dove fosse mia sorella.
Era quasi l’alba quando i rumori cominciarono ad attenuarsi. Stava sorgendo il sole; sembrava l’inizio di una calda giornata d’agosto. Si udivano ormai solo sporadici colpi di fucile, e un forte ronzio che faceva pensare a sciami di api che volassero in alto: era il rumore di migliaia di piedi strascicati sul selciato. Guardando attraverso la fessura nel muro, potei vedere lunghe colonne di persone scortate da uomini delle SS armati, con cani al guinzaglio. La maggior parte della gente portava in spalla degli zaini; altri tenevano tra le braccia quel che rimaneva delle loro proprietà. Fissai lo sguardo su tutte le persone che potevo, nella speranza di riconoscere un volto. Volevo sapere se mia madre era tra di loro, e cominciai a sforzare gli occhi, finché non ci vidi più. Mi chiedevo se mio fratello, all’altra estremità della scuderia, fosse in grado di vedere fuori. Dalle posizioni in cui ci trovavamo, non avevamo modo di comunicare.
[…]
Improvvisamente udii delle voci sotto di me. Prima di capire di chi fossero, vidi lo stalliere che si arrampicava verso il mio nascondiglio. Non riuscivo a capacitarmene. Smisi di respirare. Due uomini delle SS, con l’elmetto d’acciaio e il fucile, stavano in piedi sulla porta e guardavano lo stalliere che saliva. Lui arrivò vicino alla piattaforma su cui ero steso e a voce alta mi disse di scendere. «Sono venuti a prenderti», disse. «Lo sapevo che eri lì nascosto. Non puoi farmi fesso.» Ero scoperto.
Poi andò nel punto in cui era nascosto mio fratello e gli disse di uscire. Fummo entrambi picchiati a sangue dalle SS prima di essere nuovamente scortati nel ghetto. La prima cosa che vidi nel ghetto fu un grosso carro da traino su ruote gommate carico di cadaveri nudi. Su di un lato, schiacciata contro le assi, c’era mia nonna. Sembrava guardare diritto verso di me.
Non c’è vocabolario al mondo che contenga le parole adatte a descrivere ciò che vidi in seguito. Mia madre mi aveva implorato di recarne testimonianza in qualunque modo. Per tutti questi anni ho continuato a parlare e a raccontare, e non sono sicuro che qualcuno mi ascolti o mi capisca. Io stesso non sono sicuro di capire.
La notte seguente, mio fratello e io riuscimmo miracolosamente a sfuggire alla deportazione finale, e tutto per essere spediti ai campi separatamente poco tempo più tardi. Non vidi mai più mia madre, né fui più in grado di trovare una sua fotografia. Ogni volta che desidero ricordarla, chiudo gli occhi e penso a quella domenica d’agosto del 1942, quando la vidi seduta nel nostro giardino nel ghetto, mentre piangeva dietro la pianta di lillà.

mia madre che mi implorava di rimanere vivo
rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo

Un po’ grazie alla determinazione e un po’ (un po’ tanto) alla fortuna, Bernard è riuscito ad esaudire il desiderio della madre: è sopravvissuto, e ha passato la vita a rendere testimonianza. Lo fa, qui, con ventuno bellissimi racconti, non tutti drammatici come quello da cui ho tratto questi brani, che meritano davvero di essere letti.
Nota a margine: leggere di questi due fratelli che decidono di separarsi con la speranza che, se qualcosa va storto, almeno uno dei due si salvi. E ricordare come, sessant’anni più tardi, in Israele – dopo gli accordi di Oslo, dopo la stretta di mano sul prato della Casa Bianca, dopo i premi Nobel conferiti ai protagonisti di quell’evento per il loro straordinario contributo alla pace, e prima del “muro” (dell’odio, della vergogna, dell’apartheid), le mamme mandavano i figli a scuola su due autobus diversi con la speranza che, se un autobus saltava in aria, almeno uno dei due si salvasse. L’odio cambia, a volte, leggermente la maschera. Mai la faccia.

Bernard Gotfryd, Anton l’allevatore di colombe, Guanda
Anton l'allevatore di colombe
barbara

LE PREOCCUPAZIONI DEL MINISTRO

Per tirarli fuori dal carcere Enrico Letta ce la sta mettendo tutta
Un giudizio i cui toni «sgradevoli» hanno sorpreso Palazzo Chigi. Il presidente del consiglio italiano si è preso a cuore la vicenda.
tentativo di sbloccare al più presto la situazione giudiziaria
il capo del governo ha detto che la nostra opinione pubblica è «molto preoccupata» per il loro destino, ha chiesto una «attenzione particolare» e la «massima accelerazione possibile» per risolvere il caso. «Ti prego di fare tutto ciò che è in tuo potere – ha scandito “con calore” Letta – perché questi obiettivi siano raggiunti».
Dopo il bilaterale tra i due governi, Letta ha incontrato in ambasciata i genitori dei ragazzi arrestati. A tutti ha stretto la mano, poi si è chiuso per un quarto d’ora con un padre e una madre. «Vi sono vicino e seguirò gli sviluppi con la massima attenzione», ha promesso. (Corriere della Sera, 06/12/12, articolo di Monica Guerzoni)

I marò quasi sicuramente innocenti e illegalmente trattenuti in India, per i quali si profila di nuovo una condanna a morte? No: i teppisti laziali, sicurissimamente colpevoli, legittimamente trattenuti in Polonia.
Signor ministro, vada a cagare.
armi laziali
le armi trovate ai “tifosi” laziali, (qui)

barbara

PER QUEL BUDINO DI RISO…

Il viaggio di ritorno lo feci con uno zio, fratello di mia madre, Marcus Yudkewicz, che stava cercando sua moglie Lotka. Prima passammo per Lódz, dove lui trovò una cognata da cui seppe che sua moglie era viva a Konin. Mi ricordo quando arrivammo in città e i miei zii si ritrovarono: fu come un miracolo. Lei viveva con tua cugina Felunia, a casa di Lola Birnbaum.
Mia zia, Lotka Blum, era di Konin; si erano sposati poco prima della guerra e avevano avuto una bambina, Renia, che allo scoppio del conflitto avevano affidato a una famiglia polacca. Dopo essersi ritrovati cominciarono a cercare Renia, ma invano: non sapevano se fosse viva o morta. Si rivolsero alla famiglia che l’aveva tenuta, ma nessuno aveva idea di cosa le fosse successo. Dissero che era stata portata via. Era sparita nel nulla.
Qualche tempo dopo i miei zii si trasferirono a Lódz, mentre io rimasi a Konin ancora un paio di mesi. Andai a vedere la nostra casa, però ebbi paura di entrare: alcuni ebrei erano stati uccisi per avere cercato di riprendersi le loro abitazioni. Non era certo un periodo tranquillo. Io abitavo con Chayim Czerwonka, che si era installato nel suo appartamento in un vecchio edificio sul Tepper Mark. Un giorno mi recai a Varsavia con lzzy Hahn per comprare un tamburo. A quell’epoca si viaggiava gratis dentro il Paese. Andammo anche alla mensa del JOINT, l’unico posto dove si poteva mangiare un budino di riso.
A tavola mi accorsi che una donna, seduta di fronte a me, non smetteva di guardarmi. Quando qualcuno ti fissa così, non riesci nemmeno a, mangiare. Alla fine le domandai seccato: “Se ha tanta fame, perché non mangia?” E lei rispose: “No, non è la fame: lei somiglia a una persona che conosco, una bambina.” Pensai subito alla figlia di mio zio, e le chiesi: “Dov’è questa bambina?” “Oh, molto lontano”.  Allora mi feci dare l’indirizzo e decisi di andarci immediatamente: era un convento di Poronin, un paese a circa seicento chilometri, non distante da Cracovia.
Lasciai a Izzy Hahn il compito di cercare il tamburo e partii da Varsavia. Arrivato a Cracovia, mi diressi affamato al JOINT, dove mi diedero da mangiare e le indicazioni per raggiungere Poronin. Era un paese di montagna; il convento stava arroccato in cima a un cocuzzolo. Alle sette del mattino seguente ero già arrivato. Aprii la porta per vedere se ci fosse qualcuno e mi trovai mia cugina davanti. La riconobbi subito, lei capì chi ero e scoppiammo a piangere tutti e due. Aveva solo sette anni e non sapeva più nulla dei suoi genitori. Rimasi al convento quella notte, e il giorno successivo ci lasciarono partire. Impiegammo dieci giorni per raggiungere Lódz. I suoi non sapevano ancora niente. Quando entrammo in casa, la feci aspettare giù nell’androne non volendo provocare uno shock troppo forte nei genitori. Era mattina presto, e mio zio aprì la porta preoccupato: “Cosa ci fai qui a quest`ora?” Risposi: “Non ti allarmare: vi ho riportato Renia.” La bambina salì e trovò i suoi genitori. È una storia vera, merito di quella sconosciuta che continuava a fissarmi mentre mangiavo il budino di riso. (Konin)

barbara

ACCADEVA NEL NOVEMBRE DEL 1941

PROTOCOLLO

Il 27 ottobre 1945 Piotr Duleba, Presidente della Corte del Tribunale di Konin, indisse una riunione presso le fosse comuni nella foresta di Kazimierz Biskupi – prima Sezione del Distretto di Konin – per mostrare il luogo al testimone, il cittadino veterinario [F. Z.] ed esaminarlo sul posto. Erano presenti il Presidente del Consiglio rurale di Kazimierz Biskupi, Stanislaw Radecki, e il cittadino Aleksander Ciborski, rappresentante della Centrale del Latte di Kazimierz Biskupi, buoni conoscitori del terreno. Giunti alle fosse furono verificate le condizioni del luogo, conformemente al verbale del Presidente della Corte del Tribunale relativo al sopralluogo del 3 ottobre 1945. Dopo aver riconosciuto il luogo ed essere stato avvertito delle conseguenze cui andava incontro in caso di falsa testimonianza, secondo l’articolo 107 del Codice Penale, il cittadino [Z.] rilasciò la seguente deposizione:

Sono [F. Z.] di Konin, nato il 25 dicembre 1910, chirurgo veterinario, senza precedenti penali, polacco e cattolico.
Verso la metà di novembre del 1941, alle quattro del mattino, alcuni uomini della Gestapo si presentarono alla mia cella e mi ordinarono di prepararmi per un viaggio. M’incatenarono i polsi e mi fecero entrare in un’auto dove trovai due miei compagni di prigionia, oltreché di sventura. Erano seduti dietro, mani e piedi legati. I loro nomi erano Walenty Orchowski di Golina e Kazimierz Tylzanowski del villaggio di Rzgów. Mi sedetti accanto a loro e gli uomini della Gestapo m’incatenarono le gambe. Poi salirono in macchina e partimmo diretti alla stazione, e di lì giù sulla strada per Golina. L’auto svoltò di nuovo presso il mulino e si diresse verso Kazimierz Biskupi. Albeggiava, ed essendo seduto vicino al finestrino riuscivo a vedere la strada. Dopo Kazimierz Biskupi c’inoltrammo nella foresta, la macchina girò a sinistra e imboccò un sentiero. Ora lo riconosco: nel disegno è indicato con il numero 1. La vettura oltrepassò un altro sentiero che tagliava il nostro e svoltò a destra all’incrocio successivo. Queste stradine sono marcate con i numeri 2 e 3. La macchina girò nuovamente al secondo incrocio e tornò indietro. Si fermò fra il primo e il secondo incrocio, a pochi metri di distanza da questo.
Riconosco perfettamente il luogo. Lì ci tolsero le catene e fummo fatti uscire dalla macchina. Alle nostre spalle si apriva una radura, dove ora ci sono le fosse comuni, indicate sul disegno con le cifre I e II. Restammo lì per una mezz’ora. Poi fummo portati a un’altra radura, qui rappresentata sotto la lettera A. Non era coperta di vegetazione come oggi. Quasi in fondo al sentiero numero 1, dall’altra parte della radura, c’erano due fosse. La prima, quella più vicina al sentiero, era lunga circa otto metri, larga sei e profonda due. Quasi parallela alla prima, all’altra estremità c’era la seconda fossa, larga sei metri, lunga quindici e anch’essa profonda due. In mezzo c’era uno spazio aperto. [Accompagnato dal giudice e da tutti i presenti il testimone indica i luoghi, oltreché la posizione, delle tombe marcate con I e II sul disegno.] Tutt’intorno alla radura, fatta eccezione per l’imbocco del sentiero, c’erano gruppi di ebrei, in piedi o seduti. Il luogo è contrassegnato dalla lettera B. Erano sparsi in mezzo agli alberi: difficile dire quanti fossero.
Il gruppo più numeroso si trovava nel punto indicato con una X. [Il testimone mostra il luogo.] Era composto di donne, uomini, bambini, madri con figlioletti in braccio. Non saprei dire se fossero tutti ebrei polacchi. In seguito mi fu riferito che venivano da Zagórów. Fra loro riconobbi un sarto e un negoziante di Konin, di cui però non conosco i nomi. I sentieri, la radura, tutta la foresta pullulava di tedeschi. Oltre a noi tre di Konin c’erano ammassati lì una trentina di altri polacchi, non saprei esattamente di dove. Sul fondo della fossa più grande notai uno strato di calce viva, di spessore indefinito. Nella fossa più piccola invece non c`era calce. Gli uomini della Gestapo ci avvertirono che la foresta era circondata e sotto stretta sorveglianza, e che ogni tentativo di fuga sarebbe finito con l’immediata fucilazione. Dopodiché ordinarono agli ebrei di spogliarsi, a partire da quelli che si trovavano vicini alla fossa più grande. Poi ingiunsero alle persone, nude, di calarsi nelle fosse. Non posso descrivere il pianto, i lamenti. La maggior parte saltò spontaneamente, altri opposero resistenza e furono picchiati e scaraventati giù. Alcune madri si gettarono con i loro bambini in braccio, altre li buttarono giù per primi, altre ancora li abbandonarono per terra. Alcune spinsero i figli e poi saltarono loro. Ci fu chi si gettò ai piedi delle guardie baciando gli stivali o i manici del fucile. A noi fu ordinato di passare fra gli ebrei e raccogliere vestiti e scarpe. Vidi alcuni membri della Gestapo venire lì dove noi accumulavamo orologi, anelli e gioielleria, e riempirsi le tasche. A quello spettacolo alcuni di noi — me compreso — preferirono gettare gli oggetti più preziosi nella foresta.
A un certo punto fu ordinato agli ebrei di smettere di spogliarsi, perché la fossa era piena. Quelli ormai nudi vennero scaraventati sulla testa di quelli già ammassati là sotto. Intanto noi dovemmo raccogliere e ordinare vestiti, calzature, pacchi di cose varie, cibo e coperte. Durò fino a mezzogiorno, quando sopraggiunse un autocarro e si fermo sul sentiero presso la radura. Notai quattro grossi serbatoi a forma di tino. I tedeschi montarono un aggeggio – probabilmente una pompa — collegato con delle manichette a uno dei serbatoi. Due uomini fecero scorrere i tubi fino alla fossa. Poi avviarono il motore e i due della Gestapo presero a versare del liquido biancastro sugli ebrei. Non so con certezza di cosa si trattasse. Nel frattempo collegavano i tubi agli altri serbatoi, uno dopo l’altro. La calce si spegneva e la gente cuoceva viva nella fossa. Le urla erano talmente spaventose che noi cominciammo a strappare dei brandelli di tessuto dai cumuli di vestiti per tapparci le orecchie. L’urlo di chi stava morendo si univa al pianto di coloro che presto avrebbero fatto la stessa fine. Durò due ore, forse più. Al calare delle tenebre fummo condotti lungo un sentiero che portava alla strada sul ciglio della foresta. Ci fermammo nel punto ora marcato con il numero 4 [qui il testimone mostra il luogo al giudice e a tutti i presenti].
Ci fu dato del caffè e un pezzo di pane a testa. Sul limitare della foresta c’erano sei o sette autocarri coperti da teloni. Fummo caricati sui camion e messi a faccia in giù, l’uno accanto all’altro, senza poterci muovere. Ci fu ordinato di dormire in quella posizione. Le urla mi risuonarono nelle orecchie finché mi addormentai, cosa che feci abbastanza in fretta essendo molto stanco. La mattina dopo la Gestapo ci ordino di riempire la fossa più grande. Sembrava già cosparsa di uno strato di terra: la massa umana pareva essersi ristretta e schiacciata sul fondo. I corpi erano così pressati fra loro che sembravano ancora in piedi, solo le teste dondolavano da tutte le parti. Non riempimmo del tutto la fossa: quando all’arrivo degli autocarri dovemmo smettere, c’era ancora qualche mano che spuntava. Ci fu ordinato di caricare nei veicoli tutta la roba: i vestiti da una parte, le calzature dall’altra e così via per ogni cosa. Nel pomeriggio comparve varie volte un veicolo grigio scuro simile a un’ambulanza. Veniva aperto lo sportello posteriore e ne fuoriuscivano cadaveri di uomini, donne e bambini. Tutti ebrei. Il veicolo mi passò davanti tre volte, a distanza di un’ora. Non so se continuò a fare la spola anche dopo che fui portato via. I cadaveri erano allacciati l’uno all’altro come in un abbraccio convulso, le membra contorte e senza più volto. Vidi i denti di un uomo piantati nella mascella di un altro. Ad alcuni era stato mozzato il naso, ad altri le dita. Molti si tenevano stretti per mano, forse membri della stessa famiglia. Ci fu ordinato di separarli con la forza. Quando ciò non era possibile, fummo costretti ad amputare mani, gambe e altre parti del corpo. Poi li disponemmo nella fossa più piccola, teste contro piedi per risparmiare spazio. Gli arti amputati vennero deposti fra un corpo e l’altro. Furono sistemati in questo modo tre strati di cadaveri, e rimaneva ancora un veicolo da scaricare. Poi ci portarono a dormire negli autocarri come la notte precedente. Mangiammo zuppa di patate e pane.
La mattina seguente io e i miei due compagni fummo portati in fondo alla radura per un interrogatorio. Ci venne intimato di spostarci un po’ più in là, nel punto III del disegno, lungo una fossa già scavata, scostati di tre o quattro metri. Ognuno di noi aveva davanti un uomo della Gestapo, armato. Io davo le spalle alla buca. Il tedesco mi ordino di confessare presunte colpe come avere letto giornali proibiti, avere aiutato i polacchi e altro del genere. Quando cercai di spiegare che si trattava di false accuse, mi gridò di voltarmi verso la fossa. Mi minacciò più volte dicendomi che se non avessi confessato mi avrebbe fucilato, mentre se lo facevo sarei potuto tornare a casa e dimenticare tutto. Io non cedetti e lui sparò. Persi i sensi e caddi nella fossa.
Ricordo che, subito, mi sfiorò il pensiero di essere morto, poi mi accorsi che ero cosciente di quanto accadeva intorno. L’uomo della Gestapo mi urlò: «Fuori!», e io mi precipitai fuori della fossa. Non ero ferito. Non so se il tedesco avesse sbagliate mira o avesse soltanto voluto spaventarmi. Quando fui fuori della fossa mi picchiò in faccia con un frustino e poi mi riportò in prigione a Konin, incatenato, insieme ai due compagni con cui ero arrivato.
Dopo qualche settimana fummo portati via da Konin e condotti in un campo a Inowroclaw, e di lì a Mauthausen e poi a Gusen. A Gusen rimasi fino alla liberazione, il 5 maggio 1945. I miei due compagni non sono sopravvissuti.
I corpi portati laggiù con i veicoli grigi erano stati chiaramente gassati. L’odore del gas usciva dall’interno del veicolo ed emanava anche dagli abiti dei morti. Ricordo che, durante il massacro degli ebrei nella foresta, un uomo della Gestapo ha strappato un bambino dalle braccia della madre e gli ha fracassato la testa contro la macchina, sotto gli occhi di lei. Di fronte alle sue urla, le ha scagliato addosso il corpo del figlio e la testa fracassata con il cervello di fuori è andata a sbattere contro la bocca della donna. Poi lui ha preso qualcosa dalla macchina – calce o gesso – e le ha tappato la bocca. Hanno fatto così anche con altre donne che gridavano forte. Ho visto un tedesco agguantare una bella ragazza ebrea, strapparle i vestiti di dosso e legarla mani e piedi a un albero. Poi con un coltello le ha tagliato via il seno destro, le ha aperto il ventre e ha frugato dentro con le mani. La ragazza è morta stretta a quell’albero. Non conoscevo nessuno di quegli uomini della Gestapo.

Qui finisce il verbale del sopralluogo in loco. (Firmato) Presidente della Corte Distrettuale (-) illeggibile (-) [F. Z.] – Radecki (-) Ciborski, Segretario della Corte (-) illeggibile. Approvato dal Capocancelliere, Irena Skonieczna.
(Konin, pp. 698-704)

E poi sono passati gli anni e i decenni, e tutto è cambiato: settant’anni fa i nazisti tedeschi sfracellavano la testa ai bambini ebrei in Polonia, mentre oggi i nazisti palestinesi sfracellano la testa ai bambini ebrei in Israele. I nazisti italiani invece sono particolarmente moderati, e si limitano costringere i bambini ebrei a restare chiusi dentro la scuola e a impedire ai loro genitori di andarli a prendere – e preferiamo evitare di pensare a che cosa potrebbe succedere il giorno in cui fra i nazisti e i bambini non ci fossero solidi muri (quelli che qualcuno vorrebbe sostituire con dei comodi ponti?) e un cordone di polizia.

barbara