OGGI PARLO DI MODA

E precisamente di Gaby Aghion, creatrice del marchio Chloè

(qui notizie dettagliate) che, essendo la moda l’ultima cosa al mondo a potermi interessare, non avevo mai sentito nominare. Così sono andata a cercarla e, incredibilmente, al contrario di quello che si vede normalmente in giro quando si parla di moda, ho visto parecchie cose belle: vestiti che hanno l’aspetto di vestiti e non di stracci
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abiti da cerimonia creati per coprire con eleganza e non per scoprire con volgarità
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cerim 3
cerim 4
scarpe degne di questo nome
scarpe
occhiali dall’aspetto umano
occhiali
premaman a forma di vestito e non di sacco
premaman
e se hai qualche chilo in più c’è qualcosa di carino anche per te.
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Ah, stavo quasi per dimenticare: Gaby Aghion e suo marito erano profughi. Di quelli che non esibiscono le chiavi di casa – magari di un tipo messo in commercio quarant’anni dopo il presunto abbandono della propria casa. Di quelli che non hanno un’agenzia miliardaria ad occuparsi di loro. Di quelli per i quali il mondo non si straccia le vesti. Di quelli che non passano la vita a frignare e a farsi mantenere e a seminare morte e distruzione. Di quelli che si rimboccano le maniche e affrontano la vita con decisione e con dignità. Come altri novecentomila
profughi ebrei
(qui) che il mondo continua a ignorare.

barbara

CHI È UN PROFUGO “PALESTINESE”?

Un vecchio articolo che ritengo utile riproporre.

Di Ariel Pasko

Chi è un “profugo palestinese”? Bene, la risposta più breve è che possiamo esserlo  quasi tutti, anche voi ed io. La  risposta più esauriente è un pochino più complicata, ma non di molto.
Capite, “profugo palestinese” costituisce uno status politico concesso come premio. Ma prima lasciate che vi spieghi…

Recentemente si è fatto un gran parlare del cosiddetto “diritto al ritorno” dei “profughi palestinesi”. Tuttavia, il Quartetto  – formato da USA, EU NU e Russia – nell’aprile del 2003   ha redatto una “Roadmap ….per una soluzione permanente del conflitto Israelo-palestinese che contempla due stati”. Israele, con il Primo Ministro Ariel Sharon,  e l’Autorità Palestinese, con  l’allora primo ministro Mahmoud Abbas, al summit di Aqaba, hanno accettato la road map. Ma questa menziona i profughi solo di passaggio, senza mai definire chi siano e lascia il compito di determinare la loro condizione in ulteriori colloqui per definirne esattamente  lo status.
Tornando  all’estate scorsa, dopo l’annuncio della road map, il Ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese Nabil Shaath, parlando in un hotel della capitale libanese Beirut, ha detto   “Non è stata posta alcuna condizione per il ritorno [soltanto] ad uno stato indipendente palestinese. Il diritto al ritorno non è più un’illusione. E’ parte integrante dell’iniziativa di pace araba, che è uno dei punti salienti della road map.”
Shaath ha continuato “Voglio che sia chiaro, il diritto include il ritorno ad uno stato indipendente e alle città palestinesi dello stato ebraico. Se una persona ritorna ad Haifa [in Israele] o a Nablus [Shechmen in Giudea/Samaria, Cisgiordania] il suo ritorno è garantito”- ha promesso. Il ministro dell’ AP si riferiva all’iniziativa saudita adottata da un summit della lega araba tenutosi a Beirut nel marzo del 2002. Evidentemente i palestinesi vedono la road map in modo molto diverso dagli Israeliani.
Il “diritto al ritorno” è così problematico per i politici israeliani che persino il capo dell’opposizione e membro del  Parlamento, Shimon Peres dei Laburisti e Yossi Sarid e Ran Cohen del partito di estrema sinistra Meretz, dopo aver saputo del  discorso di Shaath, hanno affermato che si opporranno con forza ad un accordo di pace che includa un diritto al ritorno da parte dei palestinesi in Israele, poiché un tale diritto costituisce una minaccia all’identità del paese e alla soluzione dei “due popoli due stati”. Il Laburista Matan Vilnai ha detto “I palestinesi devono capire che tutti i partiti di Israele sono uniti contro il cosiddetto diritto al ritorno”.
I più alti dirigenti del Ministero degli Esteri Israeliano hanno immediatamente risposto che “Non ci sarà alcun ritorno dei profughi nello Stato di Israele”. Il portavoce del Governo Israeliano Avi Panzer mette in evidenza  che la road map non include un impegno al “diritto al ritorno” e che ai “profughi” non sarà mai concesso di tornare in Israele. “Questa è una dichiarazione che può solo rovinare tutto, perché è falsa” – ha detto. “La road map non fa alcun riferimento al diritto al ritorno [dei profughi] e questa dichiarazione va a detrimento della realizzazione della road map”.
“Israele non ha intenzione, in nessuna circostanza e sotto nessuna forma, di accettare  i profughi nelle città Israeliane che Nabil Shaath definisce città “palestinesi”, ha detto Panzer. Il portavoce del primo Ministro Israeliano Ariel Sharon, Raanan Gissin si è affrettato a dichiarare “nessun Governo Israeliano  lo accetterà mai. Non ci sarà alcuno stato palestinese fintanto che continueranno a pretendere il diritto al ritorno”.
Ed hanno ragione; gli Israeliani non accetteranno che i “profughi palestinesi” tornino in Israele.   Secondo un recente studio, il Peace Index Project condotto dal Centro Tami Steinmetz per la ricerca sulla Pace dell’Università di Tel Aviv dal 31 agosto al 2 settembre 2003, alla richiesta se “secondo la legge internazionale, le persone che lasciano  le case durante la guerra non per loro scelta o perché espulsi abbiano il diritto di tornare a casa alla fine del conflitto” e alla domanda “Siete d’accordo oppure no riguardo il fatto che questo principio sia valido anche nel caso dei profughi palestinesi?” il 76,3 % degli Ebrei Israeliani ha risposto di no.
Quindi è stato chiesto: “Se l’ultima possibilità per raggiungere un accordo di pace fosse il riconoscimento del principio del diritto al ritorno dei profughi palestinesi pur senza che ciò significasse dare ai profughi realmente l’opportunità di ritornare, in questo caso sosterreste o vi opporreste al riconoscimento del principio del diritto al ritorno da parte di Israele?” Anche a questo almeno i due terzi hanno  nuovamente risposto di essere contrari ad un simile accordo. Ma si può notare che  in tutta questa discussione non è mai stato stabilito chi sia un “profugo palestinese”.
Né il precedente Primo Ministro dell’AP Mahmoud Abbas, né l’attuale Ahmed Qureia hanno rivelato quale sia il concetto di “diritto al ritorno”, così come non lo hanno fatto gli altri leaders palestinesi. Durante la visita in Cina –secondo il quotidiano Al-Ayyam – Qureia ha richiesto il cosiddetto “diritto al ritorno” come condizione fondamentale per la pace. “O (raggiungiamo) una pace giusta che garantisca il legittimo diritto nazionale del popolo palestinese, inclusi il Ritorno, l’autodeterminazione e la costituzione di uno stato indipendente con capitale Gerusalemme, o non ci sarà alcuna pace, ma un ritorno ad ogni forma di battaglia” ha detto.
L’ultima delizia sul “campo della pace” di Israele è quel   mal concepito “Accordo di Ginevra” del laburista Yossi Beilin. L’accordo di Ginevra prevede il ritiro di Israele entro i confini precedenti il 1967, con minime rettifiche. I capi  palestinesi come Nabil Shaath insistono sul fatto che l’accordo riconosca il “diritto al ritorno” dei palestinesi nonostante il rifiuto di Beilin.
E’ stato versato molto inchiostro e sono stati usati molti bytes per dibattere i pro e i contro dei termini dell’accordo, incluso cosa fare con i “profughi palestinesi”, tuttavia non è mai stato definito cosa sia un “profugo palestinese”.
Due dei migliori articoli apparsi recentemente, che discutono molti diversi aspetti della questione “profughi palestinesi”,  incluso se il cosiddetto “diritto al ritorno” sia riconosciuto dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale 194 – e non lo è- sono “Chi vuole essere un profugo palestinese?” di Steven Plaut e “Come l’Occidente indebolisce Israele” di David Bedein. Tuttavia, neppure essi stabiliscono mai chi sia un “profugo palestinese”.
Penso di avervi tenuti  abbastanza  in sospeso, così ora passiamo a considerare l’unica definizione “legale” esistente di  “profugo palestinese”.  [La definizione] proviene dall’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Assistenza e l’Occupazione per i  profughi palestinesi del vicino oriente (UNRWA), che è un’agenzia per l’assistenza e lo sviluppo umano, che fornisce educazione, cure, servizi sociali e di pronto soccorso ad oltre quattro milioni di profughi che vivono nella Striscia di Gaza, nella Riva Occidentale, in Giordania, in Libano e nella Repubblica araba siriana, stando al loro web site. I cosiddetti “profughi palestinesi” che vivono bene in America, in Europa o in qualunque altro posto, non contano.
“Secondo la definizione  dell’UNRWA, i “profughi palestinesi” sono persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina  [Palestina del Mandato] tra giugno 1946 e maggio 1948, che hanno perduto la casa e i mezzi di sussistenza in seguito al   conflitto arabo- Israeliano del 1948. I servizi della UNRWA sono disponibili per tutti coloro che rientrano in questa definizione, che sono registrati presso l’Agenzia e che hanno bisogno di assistenza” . La definizione di profugo secondo la UNRWA include anche i discendenti di coloro che diventarono  profughi nel 1948. Il numero dei profughi palestinesi registrati è di conseguenza cresciuto da 941.000 del 1950 a più di 4 milioni nel 2002 e continua ad aumentare a causa dell’aumento naturale della popolazione”, stando al loro sito internet.
Notate  la frase “include anche i discendenti di coloro…”, a differenza degli altri profughi sotto la tutela dell’ONU,  i “profughi palestinesi” riescono anche a trasferire il loro status di profughi agli eredi. Quale concessione politica da parte delle Nazioni Unite!…
Prima di continuare, vorrei precisare che la registrazione dei “profughi” avvenne almeno due anni dopo il conflitto. Molte altre stime affidabili riportano dati più bassi, all’incirca 550.000-600.000. Ma anche quelle includono i 36.800 immigranti arabi legali ed illegali–provenienti da Nord Africa, Egitto, Siria, Libano, Giordania e Penisola Araba – verso la  Palestina del Mandato, come riportato dall’amministrazione britannica del tempo. Questo include anche  57.000 nomadi Beduini che non avevano  fissa dimora. Include anche almeno 170.000 arabi, originari della Cisgiordania o di Gaza, che si erano trasferiti in aree Ebraiche che in seguito sono diventate lo Stato di Israele, che cercavano lavoro durante il periodo del Mandato e che poi se ne sono andati durante la guerra per tornare a casa. Se sottraiamo tutte queste persone, i profughi veri sono probabilmente non più di 300.000.
Joan Peters nel suo “Da tempo immemorabile” osserva che il dato massimo fornito dall’Agenzia UNRWA, di 343.000,  è meno della metà del numero di profughi rivendicati dagli arabi subito dopo la loro partenza, prima che i numeri fossero riportati “gonfiati” nei “campi profughi”. Dal 1950 gli arabi nazionalisti di Gaza, della Cisgiordania, della Giordania, dell’ Egitto e del Nord Africa, della Siria e del Libano che si sono offerti volontari per diventare “profughi palestinesi” sono riusciti a triplicare le cifre. Così si ottiene l’assurda affermazione che le   300.000 persone che c’erano nel 1948 siano aumentate fino a oltre 4 milioni solo in 55 anni.
Voglio sottolineare che la definizione della UNRWA di “profugo palestinese” secondo cui si tratta di “… persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina [la Palestina del Mandato] tra giugno 1946 e maggio 1948, che hanno perduto la casa e i mezzi di sussistenza in conseguenza al conflitto arabo- Israeliano del 1948.”, in teoria si sarebbe potuto applicare sia agli israeliani che agli arabi. Infatti, prima del 1948 gli Ebrei erano chiamati palestinesi, poiché vivevano nel Mandato Palestinese, mentre gli arabi sfuggivano a questa etichetta e continuavano ad identificarsi solo come arabi, affermando di essere parte della più grande “nazione araba”. Questo si può vedere anche da come essi chiamavano le loro istituzioni, quali il  “ Comitato Superiore Arabo”.
Come ha affermato l’URNWA “I servizi della UNRWA sono disponibili per tutti coloro che rientrano in questa definizione, che sono registrati presso l’Agenzia e che hanno bisogno di assistenza”. Si dovrebbe osservare che circa 900.000 Ebrei divennero profughi provenienti dai paesi arabi, da cui furono espulsi o da cui dovettero fuggire sotto   minaccia di morte nello stesso periodo,  un altro esempio di pulizia etnica del XX secolo. Persero le terre, le case, le proprietà, gli affari e le strutture comunitarie – come le sinagoghe e altre proprietà comuni. Circa 650.000 di essi andarono nell’area del Mandato, che divenne in seguito Israele e, se lo Stato di Israele non si fosse occupato di loro,  anch’essi avrebbero dovuto ricorrere all’aiuto della UNRWA. Perché gli stati arabi non aiutano i loro fratelli?
A questo proposito, quando gli stati arabi, Arafat e l’AP chiesero un compenso per i cosiddetti profughi, dovete sapere che Israele, già nei primi anni ’50, per aiutare ed alleviare le condizioni  dei “profughi palestinesi”  concesse denaro dal conto inattivo della banca (dei profughi) per un totale di oltre 50 milioni di dollari del tempo, attraverso agenzie delle Nazioni Unite con cui erano in affari. Potrebbero chiedere la restituzione dell’ammontare reale –quanto possedevano realmente?- ma da tempo il patrimonio liquido è stato affidato a loro.
Ecco qui la definizione di “profugo palestinese” delle Nazioni Unite. Chiunque abbia vissuto nel Mandato due anni prima della creazione dello Stato di Israele (1948) e i suoi discendenti.
Così si può assistere a fatti assurdi come nel caso  di un giovane arabo proveniente dall’Iraq che va nella   Palestina del Mandato intorno alla fine degli anni ‘30 a cercare lavoro e poi se ne va allo scoppiare  della guerra nel 1948. Si trasferisce quindi in Giordania e sposa una bella beduina, non una “palestinese”. Ha 7 figli  che   a loro volta si sposano con dei bei beduini e delle belle beduine. Oggi ha 29 nipoti e 11 pronipoti. Secondo le Nazioni Unite questo significa che ora abbiamo 48 profughi, senza contare le mogli (non dimenticate la riunificazione familiare). Forse è in questo modo che arriviamo da 300.000 a 4 milioni?
Oppure consideriamo il caso assurdo di un giovane arabo nord africano che fugge dalla guerra degli Inglesi contro i nazisti nel 1945, poi si insedia nella Palestina del Mandato, sposa una bella ragazza italiana soltanto per fuggire a Gaza con l’aprirsi delle ostilità contro gli Ebrei nel 1948. Viene calcolato come “profugo palestinese”    insieme a tutti i suoi discendenti, i quali si sono comunque sposati con europei? Dimenticate la crescita naturale dichiarata dall’ONU. Hanno solo giocato con le cifre. Lo status   di “profugo palestinese” è solo un simbolo politico molto ambìto, senza contare che è anche un “lavoro” lucroso, con enormi vantaggi economici provenienti dall’UNRWA e dall’OLP.
E’ ridicolo che qualcuno che ha vissuto nella Palestina del Mandato per due anni e mezzo possa ricevere il sussidio internazionale per i 50 anni seguenti insieme a tutti i suoi discendenti. E’ semplicemente  sbagliato che delle persone che si sono trasferite ad Haifa o a Tel Aviv dalla Cisgiordania o da Gaza e sono poi tornate a casa possano reclamare il diritto allo status di profugo e lamentarsi per le opportunità economiche perdute –lavorando per gli ebrei- e chiedano al mondo di elargire loro un sussidio. Che bel lavoro! Che grandi benefici a spese del mondo! I più grandi donatori dell’UNRWA sono gli Stati Uniti, la Commissione Europea, la Gran Bretagna e la Svezia. Altri tra i maggiori donatori sono gli Stati Arabi del Golfo, i Paesi Scandinavi, il Giappone ed il Canada. Dovrebbero essere tutti furiosi…
E perché tutti questi “profughi palestinesi”, molti dei quali non sono  neppure originari dell’area, dovrebbero avere il “diritto al ritorno” nell’area della precedente Palestina del Mandato, di  Israele o dell’Autorità Palestinese?
Non posso proprio togliermelo dalla mente: “chi è un profugo palestinese”? Ebbene, avreste potuto essere voi oppure io.

Ariel Natan Pasko è un analista e consulente indipendente. E’ laureato in Analisi delle Relazioni e della Politica Internazionale. I suoi articoli compaiono regolarmente su numerosi giornali, riviste e siti internet che possono essere letti alla pagina  www.geocities.com/ariel_natan_pasko

© 2003/5764 Pasko

Poi, volendo, si potrebbe ricordare che fra quei trecentomila profughi forse autentici, molti se ne sono andati su sollecitazione dei capi arabi, come si può leggere nei documenti proposti qui. E poi bisognerebbe rileggere anche questo importante articolo di Ben Dror Yemini.
E il mondo mente

barbara

E RIPARLIAMO DI PROFUGHI

Quelli ebrei, questa volta

Da un articolo di Dan Calic


                                                          

Con poca fanfara, questo mese a Gerusalemme si è tenuto un convegno dedicato a un argomento che è sempre rimasto ai margini del processo di pace e che ha ricevuto solo una minima attenzione da parte dei mass-media. L’argomento è i profughi: non i profughi palestinesi, ma i profughi ebrei.
Da molti anni tutto il mondo sente parlare del “diritto al ritorno” con riferimento agli arabi che divennero profughi durante la guerra difensiva che Israele fu costretto a combattere nel 1948, quando tutti i paesi arabi circostanti lo attaccarono la sera stessa in cui aveva dichiarato la propria indipendenza. Il piano era quello di distruggere Israele “in poche settimane” per poi far tornare gli sfollati arabi ai loro villaggi, un piano che sfumò del tutto perché Israele quella guerra la vinse. Dopo la vittoria, però, nessuno stato arabo fece la pace con Israele e nessuno stato arabo accettò di accogliere i palestinesi sfollati, che furono intenzionalmente trasformati in “profughi permanenti” affinché il mondo percepisse Israele come il “cattivo”.
Oramai da più di sessant’anni la maggior parte di loro (e i loro discendenti, unico caso al mondo di “profughi per nascita”) vive in “campi profughi” da tempo diventati quartieri e villaggi (sotto costante assistenza internazionale). Nel quadro di qualunque eventuale accordo di pace, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) vuole che a questi “profughi” e ai loro discendenti, che oggi ammontano a più di cinque milioni (contro i 5 o 600mila iniziali), venga riconosciuto il “diritto al ritorno”. Naturalmente il loro “ritorno” significherebbe la fine della maggioranza ebraica nell’unico paese al mondo designato come patria nazionale del popolo ebraico. Se non potranno “tornare”, Abu Mazen pretende che vengano indennizzati, anche se indennizzare i complici del progetto di distruggere Israele suona piuttosto assurdo sul piano logico.
Ma ciò che non merita praticamente mai l’attenzione dei mass-media è la questione dei profughi ebrei. Per secoli erano esistite comunità ebraiche in molti paesi arabi. Il loro numero totale si stima che ammontasse a più di 850.000. Il piano di spartizione del Mandato Britannico sulla Palestina approvato nel 1947 dalle Nazioni Unite si tradusse, per loro, in un tremendo sconvolgimento. La creazione del minuscolo stato d’Israele scatenò una durissima reazione da parte dei paesi arabi dove gli ebrei vivevano: persero il lavoro e gli vennero portate via case e terre, i loro beni vennero congelati, molti furono incarcerati, alcuni uccisi. Praticamente tutti, alla fine, furono costretti a fuggire solo con i vestiti che avevano indosso e quel poco che potevano mettere in una valigia.
Il recente convegno a Gerusalemme, volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione dei profughi ebrei, è stato ospitato dal ministero degli esteri israeliano e ha visto la partecipazione di numerosi membri di organizzazioni che rappresentano gli ebrei originari dei paesi arabi. I lavori sono stati aperti dal vice ministro degli esteri Danny Ayalon, egli stesso discendente da una famiglia di origine algerina, che ha richiamato l’attenzione sull’ingiustizia subita dai profughi ebrei. Ayalon ha poi chiesto alla Lega Araba di assumersi la responsabilità per aver causato il problema dei profughi palestinesi scatenando contro Israele la guerra, che a sua volta provocò il loro sfollamento. Ed ha insistito sul concetto che, se i futuri negoziati dovranno occuparsi di indennizzi, dovranno farlo solo su base reciproca, cioè includendo anche i profughi ebrei.
Il convegno a Gerusalemme rappresenta dunque un tentativo di contrastare la “narrazione revisionista” imposta da parte araba, presentando invece fatti storici ben documentati con lo scopo di portare un minimo di equità e di sollecitare i mass-media a occuparsi di questa componente del “processo i pace” troppo a lungo trascurata. Se ciò basterà a riportare un po’ di equilibrio nelle due opposte “narrazioni” resta tutto da vedere.

(Da: YnetNews, 15.4.12 – http://www.israele.net/articolo,3414.htm) 

Jewish Population in Arab Countries

 

1945

1958

1968

1976

2001

Aden

8.000

800

0

0

0

Algeria

140.000

130.000

1.500

1.000

0

Bahrain

600

500

100

50

30

Egypt

63.500

40.000

1.000

400

100

Iraq

140.000

6.000

2.500

350

100

Lebanon

6.950

6.000

3.000

400

0

Libya

38.000

3.750

100

40

0

Morocco

270.000

200.000

50.000

18.000

5.500

Syria

35.000

5.000

4.000

4.500

100

Tunisia

105.000

80.000

10.000

7.000

1.500

Yemen

55.000

3.500

500

500

200

Others

100.000

 

 

 

50

TOTAL

962.050

475.550

72.700

32.240

7.530

(Tabella a cura di Victor Magiar, Il Foglio del 17 novembre 2004)
(Oggi naturalmente le cifre sono ancora più basse, ndb)

Per avere un’idea sulle responsabilità dei profughi palestinesi, dare un’occhiata qui. Questo invece, per chi fosse interessato ad approfondire la questione, è un blog interamente dedicato ai profughi ebrei. E qui un importantissimo documento sulle questioni relative ai profughi nel mondo.

Ben Dror Yemini

E per finire, alcuni spezzoni di un film assolutamente da vedere

(Qui, per chi ha un po’ di tempo in più, il film completo)

barbara