BENE!!!!

Finalmente qualcosa comincia concretamente a muoversi.

Eitan, arrestato a Cipro l’uomo che aiutò il nonno nel rapimento del bimbo

Gabriel Abutbul Alon è sospettato di essere un contractor impegnato in zone di guerra. È stato bloccato a Limisso, cittadina sul mare nella parte greca dell’isola di Cipro

Lo hanno arrestato a Limisso, la cittadina sul mare a Sud nella parte greca dell’isola di Cipro, in cui Gabriel Abutbul Alon risulta risiedere. La polizia cipriota non deve aver faticato poi così tanto per trovarlo: ha semplicemente seguito le tracce del suo telefonino. Finisce così, fin troppo banalmente per un personaggio sospettato di aver fatto parte di un’agenzia americana di contractor impegnati in teatri di guerra come Iraq ed Afghanistan ed abituati a muoversi con le tecniche più sofisticate di copertura e anonimato, la latitanza del misterioso Alon, inseguito da un Mandato di arresto europeo (Mae) attivato dal procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti e dal pm Valentina De Stefano per il sequestro del piccolo Eitan Biran, l’unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone.

Secondo le indagini, l’11 settembre scorso Alon aiutò il nonno di Eitan, Shmuel Peleg, ex militare israeliano di 58 anni [no, scusi signor giornalista, questa è veramente una puttanata: in Israele tutti i ragazzi di vent’anni, maschi e femmine, sono militari e tutti quelli sopra i vent’anni, maschi e femmine, sono ex militari, quindi il segnalare il fatto per una specifica persona è del tutto privo di senso], a rapire Eitan dopo averlo prelevato, durante uno degli incontri periodici autorizzati dal tribunale, in casa della zia paterna, Aya Biran, che lo aveva in affidamento dall’incidente del 23 maggio in cui il piccolo perse i genitori (la madre era figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e un bisnonno [due, veramente]. Il bambino fu portato in auto in Svizzera e da lì in Israele a bordo di un aereo privato noleggiato nei giorni precedenti da Alon per 46 mila euro, che nel tardo pomeriggio atterrò a Tel Aviv. I sospetti degli investigatori della squadra mobile di Pavia, guidata da Giovanni Calagna, si focalizzarono immediatamente su Peleg e Alon. Appena due giorni dopo il rapimento, su richiesta dei pm, il gip Pasquale Villani emise un’ordinanza di custodia nei loro confronti alla quale seguì il Mae per Alon e un mandato di cattura internazionale per Peleg che, però, è poco probabile venga mai eseguito dalle autorità di Tel Aviv. Alon era già apparso sulla scena di questa storia tragica, in cui la contrapposizione tra i familiari paterni e materni di Eitan è diventata motivo dominante. Ora il piccolo è stato affidato definitivamente anche in Israele ad Aya e presto tornerà in Italia, come potrebbe avvenire anche per Alon con la procedura rapida del Mae. L’uomo si era prima presentato ad agosto come «legale israeliano» tra gli avvocati di Peleg e della ex moglie Esther Cohen (indagata per il sequestro) in un’udienza a Pavia sull’affidamento di Eitan. Non essendo avvocato, fu allontanato. Usa l’indirizzo mail gabriel@blackwater.army, dominio che fino al 2011 era il nome della società di mercenari Usa «Academi».

Dalle indagini la sua figura emerge al momento come quella di braccio operativo di Peleg. Localizzato dalla polizia in Italia più volte prima del sequestro, potrebbe aver preparato le basi dell’azione dell’11 settembre. La Golf noleggiata da Peleg il giorno prima, varcò il confine italo-svizzero di Chiasso senza subire controlli. Nessun approfondimento neanche quando alle 14.10 venne fermata dalla polizia cantonale nei pressi dell’ aeroporto Lugano-Agno che, identificati i passeggeri, li fece proseguire nonostante fosse stato denunciato lo smarrimento del passaporto israeliano di Eitan e il piccolo fosse con due adulti che non risultavano suoi parenti. Tutto liscio anche al check-in, nonno e nipote decollarono per Israele su un volo privato nel quale non risulta la presenza di Alon ma che, guarda caso, prosegue per Cipro.
di Giuseppe Guastella, qui.

Ora, non mi si venga a raccontare la favola del povero nonno disperato: una persona disperata compie, d’impulso, un gesto folle, NON pianifica accuratamente, per settimane, freddamente, lucidamente, un rapimento, ingaggiando un contractor, e con probabili azioni di corruzione (casuale che non siano stati fermati né alla frontiera con la Svizzera, né alla partenza con un volo intercontinentale? E se il bambino non risultava parente, con quali documenti hanno viaggiato? Fabbricati da chi? Quando?) E non voglio sentire neanche le ciance sul nonno pazzo d’amore per il nipotino: se nutrisse non dico uno smisurato amore, ma una semplice briciola di affetto, o almeno di rispetto, per quel bambino, lo avrebbe lasciato là dove ha vissuto ininterrottamente da quando aveva due mesi, dove aveva gli amici di sempre, dove lo aspettava la scuola scelta dai suoi genitori, non lo avrebbe brutalmente sradicato raccontandogli menzogne, non avrebbe interrotto un percorso di recupero psico-fisico (un percorso terapeutico, a meno che non vengano riscontrati errori oggettivi, non va MAI interrotto), non continuerebbe a tenerlo in sospeso tra ricorsi e controricorsi, azioni e situazioni che non potranno non avere su un bambino già così fragile, effetti devastanti e non so fino a che punto reversibili. E, guarda, posso anche dire che mi interessa fino a un certo punto il fatto che abbia commesso un reato: quello che mi interessa è che ha commesso un crimine mostruoso nei confronti del bambino. Aggiungiamo – perché le tessere del mosaico devono esserci tutte, per poter vedere il disegno – la menzogna sul fatto di avere dovuto agire così perché la zia Aya non glielo lasciava vedere: ora, a parte il fatto che ha potuto mettere a segno il suo piano perché il bambino si trovava con lui che era autorizzato a tenerlo fino a sera, così che la zia ha potuto realizzare il rapimento solo quando nonno e nipote erano già in Israele, e che questi incontri avvenivano regolarmente, a parte questo, dicevo: se la zia si è sempre mostrata poco entusiasta di lasciargli il bambino, non sarà che la cognata le aveva fatto qualche confidenza sugli abusi e violenze in famiglia per i quali suo padre è stato processato e condannato, per cui aveva tutte le ragioni per avere poca voglia di lasciare il bambino nelle sue mani? Qualcuno continua a ripetere che quella delle violenze è una calunnia inventata dalla zia e dai mass media, ma il fatto è che sono state confermate in un’intervista dalla ex moglie, sia pure cercando di minimizzare (“È roba vecchia”: e di grazia, lei separata e i figli con lei, su chi avrebbe dovuto commetterli gli abusi e le violenze famigliari?) Io spero davvero che quell’essere infame vada in galera e gli venga impedito di avvicinare il nipote almeno fino alla maggiore età di quest’ultimo.
Quanto alla barzelletta che il motivo sarebbe religioso, in quanto la zia Aya non sarebbe religiosa mentre loro, sia lui che la figlia, sarebbero addirittura ortodossi, faccio sommessamente presente che le donne ebree ortodosse indossano vestiti accollati, con le maniche almeno sotto il gomito e le gonne almeno al polpaccio, e se non sono lunghe fino ai piedi le calze sono coprenti, e i capelli rigorosamente coperti, cioè non esattamente questo

E questo è un matrimonio ortodosso

non molto somigliante a quest’altro, in cui lo sposo addirittura non ha neppure il tallet

Approfittare del fatto che quella povera ragazza è morta e non può più obiettare per cucirle addosso un’identità che non le appartiene per perseguire i loschi scopi di quell’uomo infame, a casa mia si chiama sciacallaggio.

barbara

LA LEGGE DEL CONTRAPPASSO

Il nonno lo ha rapito perché, ha detto, non ha fiducia nella giustizia italiana. Ora la giustizia israeliana ha stabilito che, essendo cresciuto in Italia, deve tornare in Italia: c’è giustizia finalmente, per dirla Tramaglino-style. Lui comunque ha detto che non si arrende e darà battaglia, vale a dire che continuerà a tenere il bambino in bilico, a farlo sballottare di qua e di là, senza certezze, senza stabilità, senza pace. C’è qualcuno che voglia ancora raccontare e raccontarsi che a quell’uomo interessa il bene del bambino? Quello che è certo è che, purtroppo, il trauma subito a causa di quell’uomo, lo sradicamento, il lavaggio del cervello, il girotondo di persone intorno a lui, le tensioni, difficilmente lo lascerà indenne.

barbara

DUE PAROLE SU EITAN

Il pezzo mi è venuto un po’ sanguigno. D’altra parte io SONO sanguigna: fatevene una ragione.

Partiamo dai dati di fatto: Eitan è stato portato in Italia all’età di un mese; da allora è andato frequentemente in Israele, ma “casa sua” è sempre stata qui, a Pavia. Qualcuno dice che ora casa sua deve diventare Israele: con tutta la buona volontà non riesco a trovare una sola ragione al mondo che giustifichi questa idea. Meno che mai dopo un trauma spaventoso che ha totalmente stravolto la sua vita: gli sono stati strappati i genitori, gli è stato strappato il fratellino, gli sono stati strappati i bisnonni, gli è stata strappata tutta la sua vita di prima: gli vogliamo strappare anche il suo mondo, quello che ha sempre conosciuto come suo, il paesaggio che da sempre lo circonda, gli zii di riferimento, i cugini, gli amici, i compagni dell’asilo? Non gli vogliamo lasciare proprio niente niente niente di quella che fino a sei mesi fa è stata la sua vita? Si può immaginare una crudeltà più grande?

Qualcuno dice: ma i suoi genitori avevano intenzione di tornare in Israele.
UNO: le intenzioni, finché non vengono realizzate, restano mere intenzioni. Conosco uno che è venuto a studiare qui perché in Israele a quel tempo la facoltà che gli interessava non c’era ancora. Probabilmente avrà avuto intenzione di tornare, ma poi una volta qui sono arrivati gli amici e le donne, poi il lavoro, poi la donna giusta, poi i figli con conseguenti asilo scuola amici… Chissà, magari un giorno tornerà davvero ma per il momento, dopo trentanove anni, è ancora qui, e con lui i suoi figli. E i genitori di Eitan lo avevano iscritto a scuola qui: difficile pensare a programmi di trasferimento a breve termine.
DUE: avevano intenzione di rientrare. Tutti insieme. Non di spedire lui lì da solo. Il giorno in cui lo avessero fatto il bambino sarebbe stato comunque sradicato, ma avrebbe avuto accanto i genitori e il fratello.
TRE: avevano manifestato l’intenzione di rientrare, ma poi sono successe alcune cose: i sostenitori del trasferimento in Israele se ne sono accorti? Avete bisogno che vi spieghi che cosa? Vi serve un disegnino per capire meglio? Cioè, dopo uno sconquasso di quel genere voi vorreste ripartire con un heri dicebamus come se non fosse successo niente? Sulla pelle di un bambino? Come se non fosse già abbastanza provato? Non vi sembra follia pura? Cos’altro volete fargli passare ancora? Ma veramente non vi sentite un po’ aguzzini? Proprio neanche un pochino?

Mi è capitato di sentir dire: il nonno ha più diritti degli zii perché è un parente più stretto.
UNO: se, per dirne una, mi sono separata perché mi sono accorta che mio marito molestava mio figlio e poi mi capita una disgrazia, è giusto dare il bambino al padre anziché a mia sorella perché lui è un parente più stretto? Il grado di parentela è l’unico criterio da prendere in considerazione? Due è più stretto di tre quindi tocca a lui, come a carte, chi ha l’asso vince e gli altri a cuccia? Ma voi avete il baco nel cervello, gente. Ma soprattutto
DUE: diritti del nonno?! Stiamo parlando di un bambino che ha subito il più tremendo dei traumi, che sta faticosamente riprendendo a vivere, e voi mi venite a cianciare di diritti del nonno?! Ma voi avete una intera colonia di bachi nel cervello, siete da ricovero immediato e camicia di forza!

Ho addirittura letto che “deve stare col nonno perché lui ha perso la figlia e un nipote e quindi è giusto che gli venga dato il nipote superstite”. Qualcuno riesce a immaginare qualcosa di più mostruoso, di più immondo, di più cinico, di più infame? Il bambino sarebbe sopravvissuto alla tragedia – grazie soprattutto alla prontezza di riflessi del padre che nei pochi secondi intercorsi fra il distacco della cabina e lo schianto mortale lo ha avvolto col suo corpo per attutire il più possibile l’impatto – non per vivere la propria vita ma per andare a fare da tappabuchi al povero nonno orbato? Ma veramente non vi vergognate a suggerire una cosa simile? Non vi fate schifo? Non vi viene da sputarvi addosso quando vi guardate allo specchio?

Adesso ci vengono a raccontare che sta bene, che è sereno: vero, ci sono le foto a documentarlo. È sereno perché l’infame che lo ha rapito non gli ha detto ti porto in Israele per sempre, non vedrai mai più Pavia, non vedrai mai più gli zii, non vedrai mai più i cuginetti, non vedrai mai più gli amici, non vedrai mai più i compagni dell’asilo. Gli ha raccontato che lo portava a fare una gita: e quale bambino non sarebbe strafelice di fare una gita, oltretutto fuori programma? E che cosa succederà quando scoprirà la verità, se i giudici israeliani dovessero malauguratamente decidere di farlo restare lì? E quali saranno le conseguenze dell’interruzione dei trattamenti, riabilitativi e di sostegno psicologico, che stava seguendo a Pavia? E quali, inoltre, le conseguenze della continua esposizione mediatica a cui quell’uomo sta sottoponendo un bambino che avrebbe bisogno unicamente di tranquillità?

Da qualunque parte la si esamini, è una storia talmente sporca che riesce davvero difficile liquidare come maldicenze i sospetti che dietro il rapimento ci siano interessi molto materiali. Ma soprattutto è impossibile credere che chi ha messo in atto un’azione tanto infame, accuratamente pianificata e con un discreto numero di complici in loco, abbia avuto in mente, anche per un solo secondo, il bene del bambino.

barbara

POI ARRIVA L’ESTATE

E l’asilo finisce e i bambini, anche a Gaza come in tutto il mondo, mettono in scena la loro piccola recita di fine anno:

(Chi da più tempo frequenta questo blog, o altre analoghe fonti di informazione, sa che questa è la regola, tutti gli anni in tutti gli asili di Gaza)

Poi, visto che l’asilo è finito, a intrattenere i bambini devono provvedere i genitori

e va da sé che per i più piccoli che ancora non vanno all’asilo, la famiglia si occupa con sollecitudine e amore di dare la giusta educazione.
bimbopal coltello
Nel frattempo, per non rischiare che i bambini di Gaza si divertano da soli, i loro papà si dilettano a tirare missili sugli asili israeliani
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barbara

IL BAMBINO OMBRA

Una notte. Di più davvero non ti puoi concedere per leggerlo, perché mollarlo lì per andare a lavorare senza averlo finito è veramente impensabile, quindi regolati. Thriller, è qualificato, e in effetti lo è, con la sua robusta dose di morti ammazzati e misteri e tutto il resto, però è anche un thriller a modo suo, tra riti macabri e ombre del passato che ritornano e quando ritornano fanno maledettamente male, ma guai se non tornassero.
Per qualche aspetto ricorda I sei giorni del condor, precisamente per il fatto che ad un certo punto non si sa più quali siano gli amici e quali i nemici, e quando si crede di avere ormai capito tutto, tutto si ribalta e bisogna ricominciare tutto da capo.
E poi il bambino ombra del titolo: è il bambino che in un caldo giorno d’estate improvvisamente scompare e non riappare (forse) mai più. Con un bel po’ di colpa da parte del padre, della sua distrazione, di un’incredibile botta di ingenuità e di qualche birra di troppo. Ma chissà se poi, senza la distrazione, senza l’ingenuità, senza le birre, non sarebbe magari scomparso lo stesso.
Poi non so se il fatto che gli unici due ebrei di questa storia facciano parte dei buoni, e che neanche il Mossad, in fin dei conti, ne esca male, sia un caso.
Da leggere, comunque.

Carl-Johan Vallgren, Il bambino Ombra, Marsilio
il bambino ombra
barbara

UN VENERDÌ SERA SULLA TERRA

È una bella giornata d’inverno. I saldi sono appena iniziati, l’eccitazione dei parigini conferisce alla città un’atmosfera piena di energia. Approfitto della mia pausa pranzo per fare qualche acquisto e, da André, trovo un paio di stivali per Ilan. Ne avevo visti di più belli nella vetrina di una calzoleria sulla strada per andare al lavoro, ma costavano una fortuna, e io non me lo posso permettere. Spero che gli piaceranno: gli articoli in saldo non si possono cambiare. La commessa mi consiglia di ritornare con mio figlio, ma temo che non ci sia più la sua misura, e quindi li prendo.

Come ogni fine settimana, questo venerdì lascio il mio ufficio di buon’ora, mi fermo al supermercato per comprare un paio di cosette per la sera, poi rientro subito per preparare la cena dello Shabbat. È un rituale cui non rinuncerei per nulla al mondo, perché, da quando i miei figli sono cresciuti, solo questo pasto mi permette di vederli tranquillamente. Ève e Ilan vivono ancora in casa, ma hanno venticinque e ventitré anni, vivono la loro vita. Durante la settimana li incrocio di sfuggita. Quanto a Déborah, che ha ventiquattro anni, non vive più sotto il nostro tetto. Si è sposata due anni fa e mi ha dato un’incantevole nipotina, Noa.
Noi occupiamo da sempre lo stesso appartamento, al secondo piano di un vecchio edificio in un quartiere popolare nella parte est di Parigi. Si tratta di un modesto appartamento di tre stanze, con una sola camera da letto per i miei figli, ma siamo felici. Déborah, Ève e Ilan vi sono cresciuti, apprezzano questo angolo vivo della città e la sua popolazione mista.
Carica di spese, risalgo il viale cercando istintivamente con lo sguardo la finestra del nostro soggiorno, tra i rami spogli dei castagni. Spero di scorgervi Ilan. Quando rientra prima di me mi spia, e poi scende per aiutarmi a portare su le provviste. Suo padre se n’è andato quando aveva due anni, così lui è un po’ l’uomo di casa… Oggi non c’è nessuno sul balcone, e improvvisamente mi ricordo che mio figlio ha appena ripreso, esattamente quindici giorni fa, il suo vecchio lavoro in un negozio di telefoni sul boulevard Magenta. Termina solo alle diciannove, non ho alcuna possibilità di trovarlo a casa a metà pomeriggio. Infatti, l’appartamento è deserto, e approfitto di queste poche ore in cui sono da sola per mettermi immediatamente al lavoro. Il sabato è una festa. È il giorno più bello, quello che gli ebrei accolgono come il fidanzato riceve la sua amata: in gioia e letizia. Pur non essendo una praticante ortodossa, rispetto questo rito. Mi offre l’occasione di apparecchiare una bella tavola, riunire la mia famiglia, e preparare i piatti che mi cucinava una volta mia nonna con amore, piatti col sapore del mio nativo Marocco. La preparazione di questo pasto mi richiede tempo, e sono ancora ai fornelli quando Ève infila la chiave nella serratura.
La mia figlia maggiore e Ilan si assomigliano come due gocce d’acqua, quando erano piccoli li prendevano per gemelli. Hanno entrambi i capelli neri come giaietto, gli occhi scintillanti, un sorriso che riempie la faccia. Ma Ève è molto più piccola di suo fratello! È rientrata presto perché al momento non lavora. È in cerca di lavoro nel settore delle risorse umane e, nonostante i numerosi CV inviati, le risposte tardano a venire. E questo non manca di angustiarla.
– Déborah e David non vengono a cena? Mi chiede vedendo apparecchiato solo per noi tre, nella sala da pranzo.
– No, tua sorella mi ha telefonato cinque minuti fa, Noa è influenzata. Preferisce non farla uscire, andremo a pranzo da loro domani.

Ilan arriva un attimo dopo, verso le sette e un quarto, sette e mezzo… non so se sia perché è l’unico uomo della casa, ma quando entra lui, si direbbe che la vita riprenda veramente. L’appartamento torna a risuonare di suoni familiari e della sua voce più forte della nostra. Come tutti i giovani, mio figlio semina le sue cose dappertutto, il suo cellulare, le sue chiavi, le parole dell’ultimo successo che canticchia allegramente.
– Dov’è Noa? si preoccupa a sua volta, notando che la nipotina non c’è.
– Non fare quella faccia, la vedrai domani! gli risponde Ève.
Ilan abbozza una piccola smorfia delusa che non manca di farci sorridere, si toglie il giubbotto di pelle, poi ci raggiunge in sala da pranzo. Meccanicamente gli chiedo com’è andata la giornata. Non ha l’aria preoccupata, ma ho il sospetto che non sia entusiasta di essere tornato a questo posto di commesso. Vi si è deciso solo perché ha un urgente bisogno di guadagnarsi decentemente da vivere. L’agenzia immobiliare in cui lavorava prima non gli garantiva un salario sufficiente, ne aveva abbastanza di non potersi permettere niente.
– Allora, com’è andata la giornata?
Ilan alza le spalle, come a dire: niente di speciale. Non parla della sostituzione che ha assicurato nell’altro negozio che il suo padrone ha sul boulevard Voltaire. E non evoca neppure la bella brunetta che è entrata appositamente nel suo negozio per chiedere il suo numero di telefono. E perché dovrebbe parlarmene? Probabilmente non è la prima volta che si lascia sedurre, e poi ha una fidanzata… Da più di un anno Ilan esce con Mony, una bella ragazza asiatica che vive a due passi da noi. L’ho incontrata solo due o tre volte, ma penso che mio figlio le sia attaccato. In ogni caso, dorme più spesso da lei che da noi.
– Non capisco perché hai ripreso questo lavoro. L’anno scorso dicevi che la telefonia non era un lavoro per te, hai dato le dimissioni per lanciarti nel settore immobiliare, e adesso ci ritorni?
– Non ho scelta, mi risponde Ilan, infastidito da questa conversazione. Dovrei tacere, lasciargli fare la sua esperienza, ma sono sicura che sta perdendo tempo e insisto:
– Perché non chiami tuo padre? Potrebbe prestarti un po’ di soldi per mettere in piedi la tua impresa.
Mio figlio non vuole chiedere niente a nessuno, nemmeno a suo padre. Vuole cavarsela da solo, vuole che siamo fieri di lui, e spazza via i miei suggerimenti con una battuta. Ci mettiamo a tavola.

Ilan mette la sua kippà. La porta solo il venerdì sera per recitare la preghiera di Shabbat, e in occasione delle grandi feste. Non è religioso, ma è stato allevato nella tradizione: conosce i testi. Lo ascoltiamo cantare il Kiddush, poi, dopo di lui, bagniamo le nostre labbra nel calice di vino. Ilan ci lascia per andarsi a lavare le mani, come vuole il rituale e, al ritorno, intona la preghiera sul pane. Ne taglia dei piccoli pezzi che intinge nel sale, ne mangia uno e ci dà gli altri. Ci auguriamo «Shabbat Shalom». Uno shabbat di pace.

La cena si svolge piacevolmente, ma ho l’impressione che non durerà a lungo. Forse perché siamo stati solo noi tre, senza Déborah, suo marito David e la loro piccola Noa? È stato un venerdì come un lunedì, un pasto ordinario, che non aveva il profumo di una festa… Alle nove avevamo già lasciato la tavola. Ilan ha consultato le sue email e fatto qualche telefonata. Più tardi dirò che sembrava nervoso, preoccupato, cercherò fra i miei ricordi i piccoli dettagli che avrebbero potuto impensierirmi, ma, in realtà, nulla, quella sera, permetteva di presagire ciò che lo aspettava. Se Ilan è un po’ seccato, è semplicemente perché i suoi piani per la serata stanno per andare a monte. Mony, che aveva in mente di incontrare, non è ancora uscita dal lavoro. Quanto a Karim e Jérémie, i suoi due migliori amici, non vogliono saperne di uscire. Con orecchio distratto sento Ilan che tenta di convincerli al telefono, dai, solo un giretto, siete diventati vecchi o cosa? Non faremo tardi…

Vedendo mio figlio rimettersi il giubbotto, non posso fare a meno di ricordargli che è venerdì sera. Ho un bel ripetermi che non è più un bambino e che è libero di vivere la sua vita come gli pare, non mi piace che esca di Shabbat. Ilan lo sa, ma è giovane, ha un appuntamento, e non sa che farsene dei divieti religiosi che gli ricorda sua madre sulla soglia… Non volermene, mamma, mi dice con il suo piccolo sorriso colpevole.
Lo vedo girare i tacchi, e per trattenerlo ancora qualche secondo, come se presentissi che quell’istante sarà l’ultimo, gli chiedo di provare le scarpe che gli ho comprato. Là, ora, subito? Domani, mi promette Ilan, e la porta si chiude sul bacio che mi manda. Da lontano.
24 giorni La verità sulla morte di Ilan Halimi, pp. 25-28
Ruth Halimi
Non lo avrebbe rivisto mai più: poche ore più tardi sarebbe iniziato lo straziante, disumano calvario che lo avrebbe portato a morire, dopo 24 giorni di inaudite sofferenze, presso un binario della ferrovia. Fanno dieci anni oggi dal giorno in cui veniva portato a termine uno dei più efferati atti di antisemitismo del dopoguerra – almeno fra quelli perpetrati fuori di Israele. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo: né Ilan, né i suoi carnefici.

(Il martirio di Ilan Halimi è stato ricordato in questo blog uno, due, tre, quattro)

barbara

MAPPOVERE POVERE BIMBE!

Guardatele, guardatele quanto sono terrorizzate, e patite, durante la prigionia, per liberarle dalla quale abbiamo regalato dodici milioni di euro ai tagliagole, affinché possano tagliarne ancora di più con la nostra benedizione!
lezoccolette
E al momento della liberazione, dopo cinque mesi nelle mani dei terroristi (quelli che, ormai è inequivocabilmente documentato, erano andate ad aiutare), guardate come sono distrutte, come traspaiono dai loro visi i segni delle privazioni, delle sofferenze, delle umiliazioni subite, guardate!
marzullo-ramelli
Precise sputate a Domenico Quirico, per dire, dopo una prigionia di pari durata.
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Poi, in una lettera aperta a loro rivolta, mi capita di imbattermi in questa frase: Quando ci siamo incontrate ci hai guardati male perché mio marito indossa la kippà, e allora diventa tutto molto più chiaro.

barbara

I PASSATEMPI DI EYAL

Eyal Yifrah, intendo, uno dei tre ragazzi israeliani rapiti e fatti fuori. Ecco, lui nel tempo libero faceva (anche) questo:
Eyal Yifrah volontariato
andava a tenere compagnia ai vecchi, a regalare loro un sorriso e un po’ di conforto. Un po’ di vita. Adesso non l’avranno più. Perché come è vero che chi salva una vita salva il mondo intero, così chi distrugge una vita, se non proprio IL mondo, almeno UN mondo lo distrugge di sicuro.

barbara

MA NON PARLATE DI DUE PESI E DUE MISURE

Tre ragazzi israeliani vengono rapiti mentre fanno autostop per tornare a casa da scuola. Diciotto giorni più tardi verranno trovati i loro cadaveri.
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Un ragazzo palestinese viene rapito, assassinato e il suo corpo bruciato.
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Per tutti i diciotto giorni da moltissime parti – mass media, politici, Onu – si parla di ragazzi “scomparsi”, “allegedly kidnapped”, all’Onu si dichiara che “non vi sono prove che i ragazzi siano stati rapiti.
Nonostante l’esistenza di altre possibilità (una faida in atto fra la famiglia del ragazzo e un’altra famiglia; la notoria omosessualità del ragazzo, a causa della quale era stato precedentemente minacciato di morte all’interno della propria famiglia; l’esistenza di un video che sembrerebbe mostrare cose diverse da quelle raccontate dai presunti testimoni), immediatamente tutti, mass media, politici, opinione pubblica, gridano alla vendetta dei “coloni” israeliani, etichettati in massa come “ebrei fanatici”. Tutti sanno come sono andate le cose, tutti sanno chi è stato, nessun dubbio, nessun bisogno di aspettare indagini e prove.
I tre ragazzi israeliani vengono regolarmente chiamati “coloni”, se non addirittura “coloni nazisti”.
Il ragazzo palestinese viene chiamato unicamente “ragazzo” o “ragazzino”, o addirittura “bambino”.
L’intera “Palestina” è in festa per il rapimento dei tre ragazzi israeliani, si distribuiscono dolci per le strade, si inventa il gesto delle tre dita a imitazione di quello delle due dita con la V di vittoria, si disegnano festose e spiritose vignette come quella dei tre topolini con la stella di David sulla schiena presi all’amo, e si festeggia anche in molti siti e blog e forum stranieri.
L’intera Israele inorridisce per l’efferato delitto. Siti, blog e forum filoisraeliani condannano l’assassinio senza mezzi termini.
L’autorità palestinese invita la popolazione a fare tutto il possibile per ostacolare le ricerche.
Il governo israeliano chiede di mettere in atto ogni mezzo per scoprire gli autori del crimine, da qualunque parte si trovino, e la popolazione israeliana chiede giustizia.
La madre di uno dei presunti assassini dichiara che, se il figlio fosse realmente responsabile del rapimento e dell’assassinio, ne sarebbe orgogliosa.
Quando la polizia israeliana arresta alcuni ragazzi ebrei che sembrerebbero essere effettivamente gli autori del rapimento e dell’assassinio del ragazzo palestinese, gli israeliani dichiarano la propria vergogna ad avere tra di loro simili mostri e chiedono che vengano puniti nel modo più severo possibile.

Nel frattempo una ragazza israeliana viene rapita da due arabi ma questa volta la polizia arriva in tempo a liberarla, e ovviamente nessuno ne parla. Nel frattempo, la stessa notte di Muhammad Hussein Abu Khdeir, è stata rapita e assassinata anche Omaima Jaradat,
Omaima
ragazzina palestinese. Purtroppo non c’è mai stata, neanche per un momento, la possibilità di darne la colpa agli ebrei, e io che sono molto maligna oso insinuare che sia per questo che nessuno ne ha parlato. E nel frattempo, nel silenzio generale dei mass media, dei politici e della cosiddetta opinione pubblica, i missili da Gaza continuano a cadere a centinaia su Israele. Ma che non vi venga in mente di accusare i bravi pacifisti di usare due pesi e due misure, perché loro sono tanto tanto buoni e gli israeliani (gli ebrei?) sono tanto tanto cattivi. E questo è un dogma che nessuno si deve permettere di mettere in discussione.

barbara