RAV GIUSEPPE LARAS

Ho preferito non parlare di rav Laras a caldo. Voglio farlo adesso, iniziando con questo brano, parte di un articolo, fra le ultime cose che ha scritto.

I miei ricordi di bambino sono stati traumatizzati dalla guerra e dalla persecuzione. Ricordo di aver vissuto, nascosto e braccato, in luoghi estremamente belli, in cui i colossi montani si stagliavano in tersi cieli color indaco oppure tra plumbee nubi. Si trattava delle magnifiche vette della Val Grande di Lanzo, con i loro picchi e declivi, boschi e radure, fieri rapaci e simpatici animaletti. Ricordo che avevo imparato a raccogliere i funghi, distinguendoli correttamente, inoltrandomi là dove gli alberi erano più folti. Ricordo anche che mi piaceva quella vita rustica ed essenziale.
Purtroppo, per mia madre e me era sì un luogo di ricovero, ma era al contempo un posto estremamente pericoloso, irto di difficoltà. Richiedeva mille attenzioni, mille sotterfugi e nascondimenti. Eravamo ostaggio di infinite paure, che spesso si concretizzavano. I nazisti rastrellavano anche lassù ebrei e partigiani, di intesa con i loro molti complici italiani, non meno spietati. Lì iniziai ad apprendere che viltà e spietatezza sono spesso compagne e complici. Ho dei ricordi di quel che fu la mia famiglia e il nostro focolare domestico: l’essere amato da chi ti ha generato, la presenza di mia mamma, l’amore tra i miei genitori, la mamma di mia mamma che condivideva da vicino la nostra vita familiare. Ricordo la bellezza di tutto questo, una bellezza intima e discreta, tenera ed essenziale, romantica ma non sdolcinata, sincera e mai sfacciata. Ricordo quando le due SS italiane bussarono seccamente alla porta, dopo che la nostra devota portinaia, tante volte beneficata dalla mia famiglia, aveva venduto mia madre e mia nonna per cinquemila lire ciascuna. Ricordo la strada fatta a piedi, a sera inoltrata, per arrivare alla sede torinese della Gestapo. Ricordo l’ultimo rapido sguardo con mia mamma, che mai più rividi, e ricordo la corsa disperata, sconvolto, per trovare un luogo sicuro per nascondermi. Ricordo che rimasi muto per oltre sei mesi. Era bella mia madre, era la mia mamma. Era bella la nostra famiglia, con l’enormità di vita che è dolcemente ascosa e sintetizzata dalla parola “famiglia” Era bella la fanciullezza. Il due ottobre del 1944, a nove anni, persi tutto questo. Fu una perdita irreversibile. Quando sono molto agitato e sotto pressione mi capita ancora, mentre dormo, di sentire bussare forte alla porta, svegliandomi di soprassalto. Anni dopo, assieme a mia moglie, iniziammo l’edificazione della nostra famiglia. Pur con gli spettri del passato sempre presenti, ho goduto della bellezza intensa della vita familiare, con alti e bassi, con angosce e speranze, con entusiasmi e amarezze, come chiunque.
L’età sta fiaccando il mio corpo e l’essere stato per alcune decadi un fumatore indefesso ha dato inoltre abbrivio a una serie di patologie respiratorie che rendono evidenti fragilità e rischi. Il corpo umano è meraviglioso: un prodigio di bellezza mirabile, che ti permette di accarezzare chi ami; di dare luce e spessore alle persone che incontri e che trascorreranno con te parti più o meno estese della tua e della loro vita; di assaporare l’aria fresca della pioggia che ha momentaneamente sconfitto la canicola estiva; di annusare i balsami delle piante e i manicaretti preparati da mani amorevoli. Il corpo umano ci attrae, catalizza la nostra attenzione e rende vera e concreta la nostra esistenza. Certuni cosiddetti “religiosi” hanno diffuso l’odiosa bestemmia per cui si ravvisa erroneamente nel corpo una prigione per l’anima e nella materialità un inganno. Bisogna diffidare dai pietisti che minimizzano – o, peggio ancora, sviliscono – questo dono di Dio, facendo del piacere fisico una tentazione e non una fondamentale espressione di umanità e potenzialità spirituali, del vigore del corpo un’insolenza e della malattia una benedizione. Mi trovo in una fase della vita, quella della senescenza ormai lambita e avviata, in cui si esperisce chiaramente, tangibilmente, che anche questa bellezza è destinata a esaurirsi.
Esiste anche una bellezza interiore e nascosta, che riguarda silenziosamente noi stessi, tuttavia continuamente esposta sia alle parole sia al disordinato vociare del mondo esterno. E tutti abbiamo contezza di quanto ciascuno di noi abbia contribuito a inquinare la propria bellezza riposta e intima, peccando contro sé. Nel migliore dei casi, quando riusciamo a emendarci, a restaurare ciò che è andato infranto e a ricuperare le posizioni perdute, resta tuttavia la memoria, non certo entusiasmante, di quanto comunque occorso. E non è nemmeno detto che, drammaticamente, questo ricordo assurga a monito e che, d’altro canto, il monito poi funzioni al suo scopo dissuasivo. Ancora una volta una bellezza, che sappiamo riconoscere con certezza come tale, che va facilmente dissipandosi.
La Bibbia, nel suo originale ebraico, ha un’unica parola per “buono” e “bello”, sintetica e orientativa: “tov”. Il peccato di Adamo, secondo molti Maestri di Israele, fu proprio quello di aver scelto di comprendere e giudicare secondo criteri meramente apparenti ed estetizzanti e non secondo criteri “etici”, ossia esistenziali e concreti.
Ma che ne è della speranza in relazione alla fragilità e all’erosione della bellezza? Vi sono speranze personali e collettive, umane e messianiche, universali e particolari: le une sono avvinte alle altre, ma non confuse. Nulla può definitivamente fermare la morte in questo mondo, ma il progresso medico, tecnologico e scientifico ha saputo spesso arginarne con efficacia le manifestazioni più crude e grossolane. La bellezza può essere violentata e dissolta dalla morte, ma la medicina ha un certo margine d’azione per medicare, rinfrancare e risanare. La tecnologia è una speranza perché risponde a un’esigenza e a un compito posti dal Creatore nell’intimo dell’essere umano. La conoscenza è certamente responsabilità, ma l’ignoranza è sempre lontananza ulteriore da Dio e, più spesso di quanto si voglia ammettere o indulgere, una colpa molto grave. Nessuno in questo mondo ha il potere di ridare vita a mia madre e di restituirmela. Noi con ferma fede crediamo e speriamo, come da lettera biblica, che il Signore Dio «faccia morire e faccia vivere», ovvero che faccia risorgere i morti. Noi abbiamo però il potere e il comandamento di procreare, il che significa non consegnare completamente noi stessi alla morte, arrendendoci, lasciando che la cultura della morte, così triste eppur apparentemente così ragionevole e suadente, abbia l’ultima parola. La mia speranza sono i miei figli, i loro figli e i figli dei loro figli. La mia speranza sono i miei allievi, gli allievi dei miei allievi, chi insegna e chi apprende la Torah.
(Avvenire, 16 novembre 2017)

Non ho apprezzato solo la parte che ho evidenziato, naturalmente, ma l’ho evidenziata perché mi sembra particolarmente significativa: ci sono, anche nell’ebraismo, correnti che ritengono giusto coltivare solo l’anima e disprezzare e mortificare il corpo; ma il corpo, per il credente, è un dono: disprezzarlo significa disprezzare il Donatore, e questo disprezzo, giustamente, rav Laras lo chiama bestemmia.

Avevo pubblicato in passato due cose sue, qui e qui, di grande lucidità e profondità, che può essere utile rileggere.

E infine una nota personale. Ho avuto il piacere di conoscere rav Laras, otto anni fa. Anche l’onore, naturalmente, ma prima di tutto il piacere: mi sono seduta di fronte a lui e mi sono subito sentita bene, a mio agio di fronte a quel viso cordiale, a quell’espressione aperta, a quell’atteggiamento accogliente, a quei gesti misurati e pacati. Tutto, nella sua persona trasmetteva serenità: trasmetteva in senso letterale, ossia ne inondava chi gli stava di fronte. Ed è stata una grande emozione per me quando ho accennato alla mia attività di informazione su Israele e lui si è illuminato e ha esclamato: “Ecco dove avevo sentito il suo nome! Mi pareva che non mi fosse nuovo”. Cioè lui, LUI, leggeva cose mie! Non l’ho più incontrato, ma sento la sua morte come una perdita personale. Baruch Dayan HaEmet.
Concludo con questo breve video in cui, con palpabile emozione, rievoca l’arresto della madre e della nonna.

barbara

LA DIFESA DELLA LIBERTÀ UNICA ALTERNATIVA ALLA SOTTOMISSIONE

L’Europa può diventare inospitale per gli ebrei. Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti.

di Giuseppe Laras

Caro direttore, lutto e dolore accompagnano una guerra difficile e lunga, combattuta anche con la dissimulazione e la strategia della confusione. Alleati dell’Islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l’inclusione in laissez-faire, la forza della verità in debolezza dell’opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni espressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct . Questi occidentali «odiatori di sé» sono complici. Hanno svenduto alla sottomissione la libertà per cui mai personalmente lottarono o pagarono. Questa è la triste fotografia dell’inadeguatezza politica e culturale di molti europei. È un clima che richiama l’ascesa del nazismo. Possiamo crederci o no, ma ciò che colpisce l’Europa oggi è l’inevitabile reiterazione di problemi che Israele ha da decenni: sopravvivere allo jihadismo che nutre menti, cuori e attese politico-religiose di troppi musulmani, anche se non di tutti. Come non sentirsi profondamente vicini anche alle famiglie delle vittime musulmane degli attacchi parigini? Il dramma è che, con cieca ignoranza, la cultura laicista considera, semplificandolo, l’Islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch’esse non prive di ombre. Le cose non stanno così. Finiamola con il mantra buonista, esorcistico dei problemi nell’immediato ma amplificante gli stessi nel tempo, della «religione di pace». Si vedano le piazze dei Paesi Islamici giubilanti per i fatti parigini, come per Charlie, per i morti ebrei, per le Twin Towers. Che dire dei Buddha monumentali abbattuti dai talebani? Non insultiamo l’intelligenza con «questo non è Islam». Basta con sensi di colpa anacronistici per crociate e colonialismo: la city di Londra, mezza Parigi e i nuovi grattacieli milanesi sono oggi di proprietà islamica. L’Islam politico ha armi potenti. Alla convenienza ora si aggiunge il terrore. Alcuni ritengono, paralizzati da paure economiche, demografiche e belliche, di patteggiare con i mandanti del terrore, proponendo maggiore «inclusione» e «integrazione», giustificando l’intollerabile e pensando che, venendo a patti col male, si scongiuri il peggio. Non funziona così: arretrando si arretra sempre più. Veniamo agli ebrei. Noi siamo i primi nemici. Ogni attacco in Europa riguardò anche gli ebrei. Solo che, per sconvolgere i nostri concittadini in Europa, il nostro sangue non è bastato e non ha avuto importanza. Tutti ricordano Charlie Hebdo. E i morti di Tolosa? Di Bruxelles? Del ristorante kasher di Parigi contestuale a Charlie? Cari europei, ammettiamolo, si trattò solo di ebrei. Di irriducibili rompiscatole che turbano, con la nostra storia di persecuzione in Europa, la buona coscienza di questo crepuscolare continente. Nulla di più allettante, quindi, di trasferire sensi di colpa e inquietudini identitarie verso un disappunto censorio su Israele per la questione palestinese. Ma non è una questione palestinese, è anzitutto una questione islamico-politica. È per questo che, in definitiva, indipendentemente dagli errori di entrambe le parti, non si procede nel necessario cammino verso la pace.
Gli ebrei, ora come in passato, sarebbero causa dei mali del mondo. Se non ci fosse Israele, sostengono molti — musulmani e non — , vi sarebbe pace con l’Islam. È falso. È una «verità apparente» trasformata in dogma. I jihadisti lo sanno bene e sosterranno questa tesi avvelenata e allettante per far credere che solo così tornerà a esservi pace, anche in Europa. Fu la tentazione delle Chiese cristiane arabe con il panarabismo. I risultati? Fuggiti gli ebrei, purtroppo muoiono loro, tra silenzi e balbettii dei cristiani d’Occidente. Settant’anni fa l’Europa ebbe paura e molti capi di governo pensarono che si potesse scendere a patti. Conosciamo le conseguenze. Erodiamo la libertà e le singole libertà e ancora cederemo. Indeboliamo il cristianesimo e l’ebraismo europei e offriremo ai nostri comuni odiatori, tutt’altro che sprovveduti, nuovi strumenti di sopraffazione e d’odio.
Concittadini, da 2000 anni in Europa dimorano gli ebrei, maltrattati, trasformati in mostri, additati come colpevoli di nefandezze, uccisi in camere a gas. Oggi siamo biasimati in quanto israeliani o filo-israeliani. Tuttavia, durante 20 secoli, mai gli ebrei, se non nei deliri degli antisemiti, auspicarono la fine della religione cristiana o la sovversione di cultura e istituzioni occidentali (vi furono al massimo esasperazione e disperazione per le persecuzioni subite). Parimenti mai gli ebrei invocarono — o suggerirono ad altri — la fine dell’Islam o dei Paesi Islamici. Oggi il cristianesimo è vilipeso e perseguitato, si vogliono annientare le nostre libertà e sovvertire le nostre istituzioni laiche. Ritengo inusitato e colpevolmente utopistico che alcuni invitino a fronteggiare questa violenza inaudita e dilagante senza il ricorso alla forza legittima e necessaria.
L’Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l’Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l’altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L’alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà. Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l’Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?
(Corriere della Sera, 18 novembre 2015)

Mi sembra una delle cose più lucide scritte in questi giorni, e quindi ve lo propongo.

barbara