MUTISMO SELETTIVO

Come già spiegato una volta, Greta intende il suo mutismo selettivo nel senso che “parlo solo quando ho qualcosa da dire” (ehm…) L’osservazione delle sue esibizioni sembrerebbe però dirci qualcosa di molto diverso, è cioè che Greta parla unicamente quando qualcuno le ha scritto un testo da leggere, a volte anche quando si tratta di chiacchierare del più e del meno, ma la capacità di parlare scompare istantaneamente nel momento in cui qualcuno le pone una domanda, una qualsiasi, a proposito del clima o di qualunque argomento serio. L’abbiamo già vista in questo video che ora vi ripropongo

e qui potete leggere l’articolo con le spiegazioni in merito. E rivediamo esattamente la stessa scena ora: assolutamente incapace di rispondere alla domanda più semplice e banale, addirittura incapace, si direbbe, di comprendere la domanda, totalmente persa se non ha un testo davanti:

Perfettamente capace di rispondere alle accuse di Greta sembra invece Luca Donadel

E anche Adriano Scianca.

Cara Greta, se cerchi chi ti ha rubato i sogni, guarda al Terzo mondo

Di Adriano Scianca -27 Settembre 2019

Roma, 27 set – Chi ha rubato i sogni di Greta Thunberg? Qualche giorno fa, l’adolescente svedese a cui è stato affidato il compito di neutralizzare ogni discorso serio sull’ambientalismo ha tuonato così davanti ai capi di Stato mondiali riuniti all’Onu: “Mi avete rubato i sogni”. Accettando solo per un secondo questa grottesca impostazione empatico-virale del problema, resta comunque un dubbio: chi ha rubato i sogni di Greta? Chi è responsabile dell’emergenza climatica?  Chi deve cambiare modello? La risposta del qualunquismo ecologico è semplice: “i governanti”. Se non, direttamente, “l’uomo”. Come se tutti i governi, le comunità umane, i modelli di società fossero identici. E invece, elevandosi appena un pochino al di sopra del livello zero del discorso, si scopre che così non è. Proviamo quindi, senza alcuna velleità di completezza, a mettere insieme un po’ di dati in ordine sparso.

I fiumi più inquinati sono in Asia e Africa

Secondo dati della Banca Mondiale, risalenti al 2014, i 10 Paesi (11, in realtà, dato che all’ottavo posto ci sono due Stati ex aequo) del mondo che emettono più anidride carbonica pro capite sono: Qatar, Curaçao, Trinidad e Tobago, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi, Brunei, Arabia Saudita, Saint Martin, Lussemburgo, Stati Uniti. Si tratta di una statistica che lascia il tempo che trova, dato che non si può pensare che il problema del mondo siano le emissioni di Trinidad, ma in cui spicca l’assenza quasi totale di Stati europei. Secondo un recente un rapporto di IQAir AirVisual e Greenpeace, invece, è in India che si trovano 7 delle 10 città più inquinate al mondo, che salgono a 22 se si guarda alle 30 località peggiori.

Passando dall’aria alle acque, sappiamo che ogni giorno circa 8 milioni di tonnellate di plastica entrano negli oceani. Ma, cosa significativa, l’80% di questa materia inquinante proviene da solo 10 fiumi. Che, secondo un report del 2017, sono: lo Yangtze (Cina), lo Hai He (Cina), il Fiume Giallo (Cina), il Mekong (6 Paesi attraversati, tutti in Asia), il Pearl (Cina e Vietnam), l’Indo (Cina, India e Pakistan), il Gange (India e Bangladesh), l’Amur (Russia e Cina), il Nilo (7 Paesi attraversati, tutti in Africa), il Niger (7 Paesi attraversati, tutti in Africa). Ma allora perché si continua a dire che abbiamo un problema con “i politici” o con “l’uomo”, quando è cristallino che in realtà abbiamo un problema con i Paesi emergenti? Forse perché prendersela con i governanti in generale non disturba nessuno, mentre cercare di far cambiare politica ambientale alla Cina richiede qualche risorsa politica che vada oltre le capacità di una liceale indignata?

L’agricoltura italiana emette meno gas serra

Ma non è solo fra macroaree e continenti che si registrano significative differenze nell’impatto ambientale delle attività antropiche. Anche all’interno dell’Ue, per esempio, ci sono modelli e modelli. Con 569 tonnellate per ogni milione di euro prodotto, la nostra agricoltura emette per esempio il 46% di gas serra in meno della media Ue e fa decisamente meglio di Spagna (+25% rispetto al nostro Paese), Francia (+91%), Germania (+118%) e Regno Unito (+161%). Passando a un altro dogma del qualunquismo ambientalista, ovvero l’eterno “mangiamo troppa carne e così facendo distruggiamo il pianeta”, si può rintracciare l’origine di questo tipo di argomento in un rapporto allarmistico della Fao del 2006, in cui si stimava che le produzioni animali contribuissero per il 18% alle emissioni globali di gas serra e che fossero responsabili della produzione del 35-40% del totale di metano generato dalle emissioni legate all’attività antropica. Stime più recenti della stessa Fao, tuttavia, riducono al 14% il contributo degli allevamenti animali alle emissioni globali dovute alle attività antropiche. Laddove esiste una zootecnia tecnologicamente sviluppata (tanto per farla finita con l’idea che la tecnica sia sempre nemica dell’ambiente), gli allevamenti producono dal 2 all’8 % del totale delle emissioni.

Ed è poi vero che ne consumiamo troppa? Gli ultimi studi segnalano che in Italia il consumo reale pro-capite di carni totali corrisponde a 104 grammi al giorno (e non a quasi 300 gr come invece si pensava) pari a 728 g alla settimana e 37,9 kg all’anno. È la metà dei famosi 71 chili che spesso sentiamo citare nelle discussioni allarmistiche. E ben al di sotto dei 125 chili annui attribuiti dalle statistiche a ciascun americano (ma bisognerebbe vedere l’attendibilità della statistica). Considerando solo la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità che si piazza al di sotto delle raccomandazioni dell’Oms che fissano a 100 gr il consumo giornaliero di carne rossa.

Contro il qualunquismo ambientalista

E così via, si potrebbe continuare all’infinito. Come detto, non si pretende di voler fornire qui uno studio organico, esauriente e definitivo sull’argomento. Non si vuole nemmeno sostenere la posizione reazionaria che intende negare sic et simpliciter l’esistenza di un problema. Ma la questione resta più complessa di come non la faccia la propaganda ambiental-qualunquista e andrebbe impostata tenendo conto di tutti i dovuti fattori geopolitici. Certamente anche lo stile di vita italiano ed europeo ha bisogno di una rivoluzione integrale. Ma l’insistenza del pensiero unico nel mettere sotto processo solo esso, laddove il cuore del problema ambientale è palesemente altrove, rivela una cattiva fede politica e un vizio di forma spirituale che non possono passare sotto silenzio.

Adriano Scianca (qui)

E per concludere un’interessante riflessione del noto climatologo Franco Battaglia.

Se il Gretinismo fosse nato nel 1920…

Forse possiamo provare a riflettere sul Gretinismo – questa nuova faccia dell’ambientalismo che sembra aver obnubilato le menti del pianeta, comprese quelle più raffinate e insospettabili – guardando le cose da un altro punto di vista. Bisogna essere consapevoli che la legittimità d’esistenza che si dà oggi a Greta e ai Gretini, questi avrebbero potuto averla anche un secolo fa, diciamo nel 1920, quando le emissioni di CO2 erano attive già da almeno mezzo secolo e il possibile problema oggi sollevato da Greta era già allora ben noto.

Supponiamo ora che la richiesta pressante della ipotetica Greta del 1920 di raggiungere le emissioni – zero fosse stata effettivamente esaudita, e nel 1950 si fosse raggiunto l’agognato obiettivo. Oggi non avremmo auto, autobus, metropolitane, autostrade, fabbriche, industrie, televisione, telefonia mobile, internet, ambienti riscaldati d’inverno e rinfrescati d’estate. Non ci sarebbero frigoriferi né lavatrici, aerei o navi da crociera e neanche treni, né lenti né, tanto meno, ad alta velocità (almeno la Tav non sarebbe stata un problema; neanche lessicale di genere, circostanza che ci avrebbe evitato questa caduta nel ridicolo). In pochi anni, l’umanità sarebbe tornata allo stile di vita del 1850. Chissà, forse la schiavitù avrebbe smesso di essere quel tabù che era nel 1920, e che non era tale nel 1850, quando invece era pratica legittima nell’America di allora, popolata da 30 milioni d’abitanti con 4 milioni di schiavi.

Ecco questo è ciò che ci aspetta se davvero dovesse raggiungersi il livello-zero d’emissioni. Perché, piaccia o no, quasi il 90% di ciò che facciamo lo facciamo emettendo CO2. Né sappiamo farlo diversamente. Non è vero, direbbe il Gretino d’oggi: per esempio, col fotovoltaico produrremmo energia elettrica. No, se dovessimo affidarci a esso, le televisioni potrebbero chiudere: i massimi ascolti sono quelli della prima serata, ma di sera il sole non brilla. E anche i treni di notte si fermerebbero. E anche di giorno, in tutti quei momenti che, col cielo coperto, il sole insiste a non brillare. E col vento non è diverso. Se avete mai assistito alla Barcolana, la spettacolare regata di barche a vela che si svolge la seconda domenica d’ottobre a Trieste, avrete visto che se il vento si ostina a non soffiare, le barche biancheggianti sulle acque come branchi di pecore pascenti – direbbe il poeta – rimangono sconsolatamente ferme.

Viste le cose da questa prospettiva, mi chiedo se i vari Gretini che hanno tanto pontificato sugli organi d’informazione d’ogni ordine e grado torneranno in qualche modo sui propri passi. Temo di no, perché l’essenza del Gretinismo è la granitica incapacità a distinguere il sogno dalla realtà. A differenza dei Gretini, la piccola Greta – o chi per lei – se n’è accorta, e s’è definita essa stessa “una che sogna un mondo migliore”. Il verbo è sapientemente pesato: non “desidera”, non “spera”, non “s’impegna per”, ma “sogna”. I Gretini sono quelli che hanno preso per realtà concreta ciò che la loro sacerdotessa li ha avvertiti essere sogno.

Quanto a Greta, quello suo all’Onu non era un discorso accorato e men che meno pensato: parlava una arrabbiata. Indemoniata, direi. Invece di ringraziare la generazione che l’ha partorita e che le ha consentito di stare al caldo in un Paese decisamente inospitale per il freddo che fa, essa inspiegabilmente ha sputato astio e veleno sui propri genitori, nonni e bisnonni. Ma le spiegazioni neanche c’interessano: essa non è così importante da meritare alcuna nostra ricerca nelle làtebre della sua mente per cercare di capire cosa vi è nascosto. Dovrebbero però indagare, a nostro avviso, gli attivisti di Telefono Azzurro e i magistrati, per capire perché nessun adulto protegga dai trafficanti di bambini questa ragazzina, la cui patologia la rende così vulnerabile – ci dice la medicina – a monotematiche fissazioni.

Franco Battaglia, 28 settembre 2019, qui.

Questa espressione, “trafficanti di bambini”, Franco Battaglia l’ha usata anche in televisione, inducendo “NeXt quotidiano” a scrivere: “Il professor Franco Battaglia ha dato spettacolo ieri a “Otto e mezzo” da Lilli Gruber” (La veritààà ti fa maaleee, loo sooooo)

barbara

I 40 ANNI DALLA CACCIATA DELLO SCIÀ DI PERSIA

Il Giornale, 18 gennaio 2019

(Gerusalemme) La rivoluzione di 40 anni fa fu una marea che travolse le piazze: la gente infuriata dopo il fortissimo contraccolpo provocato dalla contrazione dei consumi dopo il boom della rivoluzione del petrolio del ’73 e del conseguente disagio sociale, si vendicò sulle aspirazioni moderniste dello Scià Reza Pahlavi, facendone il nemico pubblico numero uno. Con le sue giacche bianche e oro, con le sue bellissime mogli (prima Soraya, poi Farah Dhiba), le feste in cui parlava in varie lingue con i diplomatici del mondo, l’atteggiamento filoamericano, Pahlavi suscitò un’ira che ne fece un obiettivo da distruggere per la folla esaltata dai discorsi infiammati che Khomeini spediva su nastro dall’esilio parigino. Khomeini appariva forse a Pahlavi come un vecchio pazzo che bastava esorcizzare con la lontananza e comunicò forse la stessa sensazione a Jimmy Carter che non se ne curò, anzi lo favorì con un atteggiamento simile a quello degli Usa con la Primavera araba.
«Lo Scià era un personaggio complicato – dice la giornalista Ruthie Blum autrice di To hell in a handbasket: Carter, Obama and the Arab Spring – che a lato della repressione coltivava un’aspirazione che fu colpevolmente ignorata dal mondo democratico: l’occidentalizzazione del suo Paese». Per attuarla Pahlavi non risparmiò vessazioni ai suoi oppositori, prigioni e torture: «E tuttavia cercò di aprire la strada all’emancipazione femminile – insiste la Blum -, su cui poi gli Ayatollah si sono presi la peggiore vendetta. Ma più di tutto cercò di aprire la porta al mondo, cosa che gli americani non hanno capito sbagliando tutto fino all’occupazione dell’ambasciata del 4 novembre 1979, quando si apre un’era di conflitto per le aspirazioni imperialistiche di Khomeini». Khomeini ha già spiegato nei suoi testi che tipo di società intende istituire e quanto per lui sia importante fare dell’Iran la base della conquista del mondo: l’unico a capirlo leggendolo in farsi è il grande storico Bernard Lewis, che non viene ascoltato. Ma i moti di piazza non sono sempre forieri di giustizia e libertà come ama pensare il mondo progressista del tempo: i corrispondenti di quasi tutti i giornali si entusiasmano, si lanciano in condanne dello Scià mentre lodano la rivoluzione. Manca del tutto una coscienza mediorientalista per spiegare quello che sta succedendo e che sarà poi destinato ad azzannare il mondo occidentale fino a oggi. Ma è difficile capire: gli iraniani non sono arabi, e quindi per loro, a differenza dei sunniti, la Jihiliyya, o «epoca dell’ignoranza» preislamica, non è fonte di vergogna: per gli sciiti iraniani gli arabi sono «bevitori di latte di cammella e mangiatori di lucertole che osano aspirare al trono divino». L’ambizione sciita si organizza oltre che sulla religione, anche sulla memoria dell’impero persiano: eredi di un passato imperiale col culto del martirio e anche della Taqiyya, la dissimulazione. Questo, li ha poi resi abilissimi negoziatori sulla questione atomica. Nel 1979 Khomeini che si prepara a tornare a Teheran istituisce la Repubblica Islamica e con essa una Costituzione che chiama alla «continuazione della rivoluzione in casa e fuori». E spiega: «Non è per patriottismo che agiamo, patriottismo è un altro nome del paganesimo.
Lasciate che questa terra bruci, che vada in fumo se l’Islam potrà emergerne trionfante nel resto del mondo». L’Iran che caccia Pahlavi lo fa in uno scontro aperto col mondo occidentale, usando il terrorismo che non ha mai disapprovato senza tuttavia rivendicarlo. Una tecnica raffinata che arriva fino alla progettazione della bomba atomica e che ha visto nell’America, sostenitrice dello Scià, il suo primo nemico e in Israele la bestia satanica da distruggere. Lo Scià era un personaggi controverso, persino il figlio me ne diede conto in un’intervista. Ma ben più controversa è la sua deposizione mentre l’Iran si organizza sulla base del khomeinismo e dell’uso intensivo delle Guardie della Rivoluzione per conquistare dapprima il Medio Oriente e poi il mondo, e per reprimere la gente iraniana che non ne può più. Donne e dissidenti soffrono molto di più adesso che al tempo dello Scià, l’odio per l’Occidente è certamente molto più ardente. L’Iran, nonostante le grandi difficoltà economiche e la guerra permanente, pure dopo 40 anni di regime degli Ayatollah, continua ad ambire al cambiamento, a un futuro migliore. I suoi diritti civili, quelli delle donne, degli omosessuali, dei dissidenti gridano giustizia. Forse anche i suoi soldati e ufficiali inviati in Libano, in Siria, in Irak, in Yemen, vorrebbero tornare a lavorare per il bene del loro grande Paese invece che per la rivoluzione islamica mondiale. Tutto questo si chiama regime change, e certamente molta parte della popolazione ci spera.

Fiamma Nirenstein

Era la fine di dicembre 1978, cena in casa di amici; si commentano le sollevazioni in Iran, forse si instaurerà una vera democrazia, diciamo. Solo uno dice: scordatevelo, andranno al potere i religiosi più fanatici. Per chi avesse elementi sufficienti, evidentemente, era già allora possibile capire come sarebbe andata a finire. E pensare che ancora oggi c’è chi non solo si rifiuta di capire, ma addirittura fa carte false (letteralmente) per regalargli l’atomica, e si scatena il finimondo, con ogni pretesto, per azzoppare chi sta tentando di levargliela dalle mani.

barbara