QUALCUNO SI PONE DELLE DOMANDE

Che è una cosa che non fa mai male.

PERCHÉ I SOLDATI UCRAINI SI FANNO MASSACRARE DA ZELENSKY CHE A SUA VOLTA PRENDE ORDINI DA WASHINGTON E LONDRA?

Chi mi legge abitualmente s’informa tramite i media indipendenti nel web e quindi presumo sia al corrente dell’offensiva che Zelensky ha lanciato a fine agosto contro l’oblast di Cherson nel sud dell’Ucraina.
Ha voluto essere di parola, anche se ha scelto l’ultimo giorno dopo numerosi rinvii, aveva ripetutamente promesso da mesi una controffensiva entro agosto che avrebbe spazzato via i russi dai territori conquistati, almeno quelle erano le intenzioni.
Tutti gli analisti militari e geopolitici seri e indipendenti lo deridevano, pensando a un bluff, invece anche i comici e buffoni, seppur criminali, corrotti e incapaci, possono essere di parola, soprattutto quando la vita la fanno rischiare ad altri.
Appena sono riusciti a raccogliere il maggior numero possibile di mezzi corazzati (soprattutto polacchi) e concentrare circa 40mila soldati nell’area, Zelensky nonostante la netta contrarietà dello Stato Maggiore Militare che poneva scarsa o nulla fiducia nella riuscita del piano, ha ordinato l’offensiva, commettendo il classico errore dello stratega da salotto, addestrato a giocare a Risiko (forse manco a quello).
Anziché concentrare tutte le forze in un solo punto per avere maggior impatto e possibilità di sfondamento, li ha divisi in cinque aree e quindi cinque direzioni di attacco diverse, disperdendo le forze che già non sarebbero state sufficienti per un solo attacco in un unico punto, considerando la potenza di fuoco dell’artiglieria e aviazione russa. Così ha disperso la forza d’attacco su un fronte di poco meno di 200 km. Considerando che di solito ad attaccare sono il 50% delle forze, l’altra metà rimane di riserva nelle retrovie per compensare le perdite o rinforzare i punti deboli, se dividete per cinque 20mila soldati su 200 km, vi renderete conto che l’impatto non poteva che essere lieve per i russi, i quali applicano la stessa tattica da mesi, a ogni offensiva ucraina.
Arretrano e li lasciano avanzare e poi man mano che si trovano sempre più allo scoperto in un territorio pianeggiante, senza riuscire ad arrivare a centri abitati (l’unico modo che hanno per trovare riparo e trincerarsi), i russi iniziano a bombardarli senza tregua arrecando loro gravissime perdite.

Cliccare l’immagine per ingrandire (c’è anche il video, ma non è scaricabile)

E’ la tecnica militare del “tritacarne”, una tattica di logoramento lenta e inesorabile che riduce gradatamente il numero dei soldati e dei mezzi degli ucraini fino a che saranno costretti alla resa o a far intervenire le forze di altri paesi della NATO, che in questo caso non potrebbero invocare l’articolo 5 del Trattato Atlantico, perché non sono loro a essere attaccati ma ad attaccare.
Com’è possibile che Zelensky ripeta sempre gli stessi errori? E soprattutto come mai gli ucraini si prestano a farsi massacrare, anziché fuggire, per non essere arruolati oppure finire in prigione per essersi rifiutati di indossare la divisa? Cercherò di rispondere a entrambe le domande essenziali per capire l’esito e lo sviluppo di questo conflitto.
Zelensky non ha alcuna capacità strategica, gli unici ordini che sa impartire sono quelli di attaccare e resistere senza cedere un metro, combattere fino all’ultimo uomo. Vi ricorda qualcuno? Un certo Hitler, quando ormai era impazzito e drogato fino al midollo (altra analogia con Zelensky) e psichicamente alterato perché l’esito della guerra non corrispondeva alle sue attese e tutti i suoi comandanti lo deludevano e li sostituiva in continuazione.
Zelensky prende decisioni a scopo politico, per influenzare i suoi sponsor angloamericani e UE, che ultimamente lo stanno sostenendo sempre meno.
Ha assolutamente bisogno di una vittoria, seppur minima, per continuare a mungere i suoi finanziatori, ben sapendo che una cospicua parte di questi finanziamenti non finisce al fronte ma nelle tasche dei numerosi oligarchi e comandanti corrotti, a tutti i livelli, che vendono le armi ricevute facendo finta siano andate distrutte dai bombardamenti russi.
E questo in parte spiega anche la seconda domanda, come vedremo meglio in seguito.
Inoltre una cospicua parte di questi lauti finanziamenti sono utilizzati per pagare tutto l’apparato militare, con stipendi che per i canoni ucraini sono piuttosto elevati.
Zelensky compie scelte ciniche e spietate esclusivamente per motivi economici, personali e del suo entourage di sostenitori interni, neonazisti e nazionalisti in primis. Della vita dei suoi soldati non gliene frega nulla, per cui non esita a mandarli a morte certa.
Ora veniamo al perché i soldati si prestano a farsi massacrare.
L’Ucraina è da parecchio tempo in miseria, in particolare dall’inizio del conflitto che dura ormai da sei mesi, il paese vive prevalentemente di un’economia di guerra, gli unici soldi che arrivano e circolano sono quelli che alimentano la guerra. E per convincere la gente a combattere, occorre prima averli ridotti nella miseria, privi di scelte di lavoro, ai limiti della sopravvivenza, dopo di ché gli fornisci degli incentivi convincenti perché si arruolino, oltre all’obbligo, che però funziona poco, perché molti si sottraggono emigrando e nascondendosi o rifugiandosi all’Estero, Russia compresa (ne ospita circa due milioni).
Quelli rimasti in patria che scelta hanno per sopravvivere economicamente se non arruolandosi?
Per comprendere perché sono disposti a rischiare la vita, facciamo un paragone con la situazione italiana, così vi sarà più chiaro.
Un Carabiniere appena assunto in Italia percepisce uno stipendio netto di circa 1200 euro mensili, un maresciallo maggiore anziano poco meno di 2000 euro mensili e un capitano poco più di 2000, gli scatti di grado non sono particolarmente rilevanti in termini salariali, poche centinaia di euro l’anno.
Nell’esercito ucraino in seguito allo stato di guerra gli stipendi sono tutta un’altra cosa, proporzionalmente al potere di acquisto che si ha nel loro paese. Utilizzando l’esempio italiano sarebbe come se un soldato ucraino prendesse in Italia 2800 euro al mese, un maresciallo maggiore anziano circa 10mila, e un capitano 15mila. A queste somme erogate diciamo legittimamente dalle istituzioni governative, aggiungiamo la corruzione diffusa capillarmente, cioè le rendite che provengono dai saccheggi, dalle estorsioni ai civili, dalla vendita di armi, ecc., e ci rendiamo meglio conto di quanto possano accumulare i combattenti, soprattutto sottufficiali e ufficiali, che riescono a sopravvivere (magari ricorrendo a cinismo, furberie e sotterfugi), facendo perlopiù rischiare la vita ai loro sottoposti.
In due o tre mesi di guerra, se sopravvivono, possono accumulare una piccola fortuna che gli consentirà di vivere agiatamente per tutto il resto della loro vita (inflazione permettendo).
Quindi la motivazione primaria è l’avidità e la mancanza di alternative. Ecco perché gli ucraini combattono una guerra per procura, è l’unico lavoro di cui dispongono, l’Occidente li foraggia per questo scopo, combattere e morire al posto degli occidentali.
Ma c’è un problema che si sta facendo sempre più grave, diventa sempre più difficile sopravvivere alla guerra.
Prendiamo l’esempio degli ultimi due giorni, tra fine agosto e inizio settembre.
Zelensky ha appunto ordinato l’attacco in cinque aree diverse, e inoltre ha ordinato l’incursione notturna alla centrale nucleare di Zaporižžja, da parte delle forze speciali ucraine, per cercare di riprenderla prima che arrivasse la delegazione dell’AIEA dell’ONU che doveva ispezionare la centrale, probabilmente per poi utilizzare la delegazione come scudo umano contro i russi, come fanno abitualmente gli ucraini, che di crimini di guerra ne hanno commessi a iosa.
L’incursione è finita malissimo, nonostante pensassero che il piano fosse ottimo, utilizzando imbarcazioni silenziose con motori elettrici e poi delle chiatte che trasportavano il grosso delle forze e dei mezzi da sbarco.
Tutte le imbarcazioni e le chiatte sono state distrutte e affondate dalle forze aeree russe, la maggioranza degli incursori sono morti o fatti prigionieri. Si stima fossero circa 500, il minimo necessario per compiere un’operazione di questa portata, considerando che la centrale nucleare di Zaporižžja è la più grande d’Europa, estendendosi su una superficie gigantesca.
Anche le forze attaccanti nel resto del fronte non hanno subito una sorte migliore. Si stima che le perdite in vite umane subìte dall’esercito ucraino siano di oltre mille al giorno. Molto probabilmente fra qualche giorno saranno costretti a ritirarsi, lasciando sul campo quasi tutti i mezzi corazzati impiegati.
A Zelensky non rimarrà altro da giocare che la carta della commiserazione: “Avete visto con quale coraggio combattono gli ucraini?” “Come si sacrificano per il bene dell’Occidente?” “Meritano di essere sostenuti di più, dovete aumentare le risorse e i finanziamenti!”
Una carta cinica e ignobile ma l’unica che gli rimane, possibilmente prima che i comandi militari si stanchino di lui e lo facciano fuori con un colpo di stato. Magari con il beneplacito degli anglosassoni. Altrimenti non rimarrà che far combattere anche i polacchi e i baltici, i più fanatici russofobi che ci siano in Europa. I polacchi e i baltici saranno fanatici ma non sono stupidi, sono consapevoli che se non ci sono riusciti gli ucraini a sconfiggere i russi, che dopo otto anni di addestramento e armati fino ai denti erano diventati l’esercito più potente d’Europa, come potrebbero riuscirci loro che sono anche inferiori di numero (militarmente) rispetto agli ucraini? Perché mai dovrebbero seguirne la sorte? Solo per fanatismo? No. Per farlo prima dovrebbero essere ridotti alla fame anche loro, e sono sulla buona strada per riuscirci, dopo le ultime demenziali mosse politiche ed economiche che hanno compiuto contro la Russia e contro la Cina, le cui ritorsioni si stanno facendo sentire pesantemente.
I porti baltici ad esempio non lavorano più. Tra non molto anche loro potranno sopravvivere solo tramite l’economia di guerra. Una tale situazione diverrà insostenibile da mantenere per l’Occidente, diventerà peggiore di un “buco nero” per le finanze già travagliate dei paesi occidentali.
Ormai i paesi occidentali hanno oltrepassato il precipizio e come riferisce l’aneddoto “ se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te …”. E probabilmente stiamo già precipitando nell’abisso, dobbiamo solo toccare il fondo.
CLAUDIO MARTINOTTI DORIA, 11/09/22, qui.

In realtà non è da sei mesi, come detto nell’articolo, che la Russia usa quella tattica, bensì da 320 anni, avendo cominciato esattamente nel 1700 con Carlo XII di Svezia, per proseguire poi con Napoleone e in seguito con Hitler, ma la storia, evidentemente, è maestra di vita solo per chi ha la voglia di studiarla e l’intelligenza di capirla. Mancano soprattutto, la voglia e l’intelligenza, a chi ora sta esultando per i grandi successi della controffensiva ucraina che “sta riconquistando i territori invasi dalla Russia” e magari arriva addirittura a citare “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.” Fenomenale poi Lorenzo Cremonesi – che non a caso è stato per anni uno dei peggiori disinformatori e demonizzatori di Israele – che scrive impavido: “Gli esperti del Pentagono cominciarono a parlare delle difficoltà russe attorno a Kiev già a fine febbraio”. Poi è passato marzo poi è passato aprile poi è passato maggio poi è passato giugno poi è passato luglio poi è passato agosto poi è passato quasi metà settembre…
E quanto la fatidica
reconquista ucraina sia una buffonesca messinscena – la miliardesima messinscena da parte del buffone di corte -, c’è chi per fortuna ha provveduto a documentarlo: il nostro Vittorio Rangeloni

e Graham Phillips, quello a cui ha dichiarato guerra la primiera (carte denari e settebello) Liz Truss a causa delle sue documentazioni sulla guerra in Donbass

Entrambi i video sono di oggi

Nel frattempo in giro per l’Europa

GERMANIA – Centinaia di cittadini tedeschi sono scesi in strada per protestare contro la fornitura di armi all’Ucraina. A Kassel, hanno bloccato l’ingresso della fabbrica di armi Rheinmetall AG. La polizia ha usato manganelli e gas lacrimogeni contro i manifestanti. L’autunno non e’ ancora iniziato ma le proteste contro i governi che stanno conducendo l’Europa al suicidio si fanno gia’ sentire. Dalla Moldavia alla Repubblica Ceca, dalla Germania alla Francia, dall’Inghilterra all’Italia, l’onda del malcontento e della protesta cresce e potrebbe travolgere una classe politica inetta e asservita. Anche se chiamarla “classe politica” e’ improprio, trattandosi in realta’ di imbonitori e propagandisti manovrati da un’elite sovranazionale. @LauraRuHK

https://t.me/contrinform/605

Mentre nella democraticissima Ucraina, per la cui democrazia ci stiamo svenando e per giunta annientando il futuro dei nostri figli e nipoti

Una cosa è certa: ci faremo tutti molto molto male, ma qualcuno se ne farà di più. Molto di più. Quando il  Terzo Reich è ignominiosamente crollato, parecchi di quelli che con fede religiosa avevano creduto nella sua incrollabilità e nella sua possibilità di vincere, si sono suicidati: non mi dispiacerebbe se un po’ dei nazisti di casa nostra ne seguissero l’esempio (è noto che le situazioni eccezionali tirano fuori da qualcuno il meglio e da qualcuno il peggio: io per oggi ho deciso di lasciar sgorgare il peggio: è una questione di salutare equilibrio psicofisico).

POST SCRIPTUM molto OT, ma lo devo mettere: in almeno una cosa gli inglesi sono di sicuro infinitamente superiori a noi: non applaudono i cadaveri

barbara

ANCHE SE

Piccola riflessione ritardata – non sempre si riesce a cogliere tutto in prima battuta – sulla testimonianza della bambina italo-americana nel video presentato in questo post. All’inizio della sua testimonianza la bambina ha detto che l’insegnante ha fatto firmare a tutti gli alunni, senza chiedere l’autorizzazione dei genitori – un foglio in cui si impegnavano a rispettare tutti, “anche se sono trans, gender fluid, tutte le cose nuove”.
Una prima osservazione sul merito. Quanti di noi, settantenni, cinquantenni, trentenni, in prima media sapevano se erano omosessuali o eterosessuali, se si sentivano maschi o femmine o entrambi a giorni alterni? Credo che per tutti la risposta sia “nessuno”: non solo non lo sapevamo, ma non ci eravamo neppure mai posti questo problema. Perché capire se si è omo o etero, se ci si sente o no a proprio agio nel sesso in cui si è nati è un problema. E se non lo avevamo non è perché fossimo ritardati, ma semplicemente perché a quell’età queste questioni non si sono ancora presentate. Quei bambini che a undici anni sono “trans, gender fluid e tutte le cose nuove” si sentono tali perché qualcuno, dall’esterno, ha imposto loro questo problema. Questi bambini sono stati e continuano a essere abusati. Questi bambini hanno subito una intollerabile violenza che rischia di segnarli per tutta la vita. Coloro che hanno perpetrato questo ignobile abuso sono, senza messi termini, dei criminali.
Una seconda riflessione sulla forma: anche se. Qual è la normale situazione in cui, unita alla necessità di rispettare, usiamo l’espressione anche se? Per esempio devi rispettare tuo fratello anche se è un maledetto bastardo. Non devi mancare di rispetto al tuo collega anche se è un pezzo di merda. Devi trattare bene il tuo capo anche se è un figlio di puttana. Chissà se un giorno, quando avranno meglio assimilato le sfumature della lingua, quei ragazzini si renderanno conto delle implicazioni di ciò che l’insegnante ha loro imposto, e cioè che tutta quella gentaglia di per sé non meriterebbe affatto rispetto, ma noi li rispettiamo lo stesso perché siamo moralmente superiori
Una terza riflessione sulle conseguenze della forma: se nella lista delle categorie da rispettare mancano gli strabici, quelli li possiamo sfottere? Magari anche un pochino menare? E i Down, si sarà ricordata di inserirli nella lista? Gli autistici? Quelli con la “s” blesa? I daltonici? Gli stonati? Quelli con le orecchie a sventola? Perché a voler fare le liste delle categorie da trattare in un determinato modo, c’è sempre il rischio di dimenticarne qualcuna, dando così automaticamente libertà di bullismo nei confronti di chi è rimasto fuori. Non sarebbe più logico, più normale, più semplice, dire – DIRE! Non esigere dichiarazioni scritte e firmate! – che bisogna rispettare tutti, senza eccezioni e senza concessive? Io quell’insegnante, quella CLOACA di insegnante, sinceramente, non mi sento davvero di rispettarla, ma proprio per niente.

barbara

ERANO RAGAZZI IN BARCA

La barca è quella del canottaggio; i ragazzi sono quelli che, sfida vinta dopo sfida vinta, finiscono per approdare a Berlino, nel ’36. Che cos’è che fa di questo libro un libro eccezionale? Pagine come questa, per esempio

Il canottaggio agonistico è un’impresa di straordinaria bellezza preceduta da un crudele castigo. A differenza di molti sport che si concentrano su specifici gruppi muscolari, il canottaggio fa un uso massiccio e reiterato praticamente di ogni muscolo del corpo, anche se un rematore, per dirla con Al Ulbrickson, «si dimena sulla sua appendice posteriore». E il canottaggio impone questi sforzi muscolari non a intervalli saltuari ma in rapida sequenza, per un periodo di tempo prolungato, ripetutamente e senza tregua. Una volta, dopo aver guardato allenarsi le matricole della Washington, Royal Brougham del «Seattle Post-lntelligencer» si meravigliò di quanto fosse implacabile questo sport: «Nessuno chiede mai il time out in una gara di canottaggio» osservò. «Non c’è un posto dove fermarsi per bere un’appagante sorsata d’acqua o prendere una boccata d’aria fresca e corroborante. Devi tenere sempre gli occhi fissi sul collo rosso e sudato del compagno davanti a te e vogare finché ti dicono che è finita.  Ragazzi, non è uno sport per rammolliti.»
Durante la voga, i principali muscoli di braccia, gambe e schiena – in particolare quadricipiti, tricipiti, bicipiti, deltoidi, grandi dorsali, addominali, ischiocrurali e glutei – svolgono gran parte del lavoro più duro, spingendo in avanti la barca contro la resistenza implacabile di acqua e vento. Al tempo stesso, svariati muscoli più piccoli del collo, dei polsi, delle mani e perfino dei piedi sincronizzano in continuazione gli sforzi del corpo, garantendogli un bilanciamento costante per assicurare il delicato equilibrio necessario a mantenere stabile un’imbarcazione larga 60 centimetri, pressappoco quanto il girovita di un uomo. Il risultato di tutto questo sforzo muscolare, in grande e in piccolo, è che il corpo brucia calorie e consuma ossigeno a un ritmo che non ha eguali quasi in nessun’altra attività umana. Per l’esattezza, i fisiologi hanno calcolato che una gara di canottaggio di 2000 metri – lo standard olimpico – richiede lo stesso costo fisiologico di giocare due partite di basket consecutive. E lo richiede in circa sei minuti.
Un vogatore o una vogatrice in buone condizioni che gareggia ai massimi livelli deve essere in grado di incamerare e consumare fino a 8 litri di ossigeno al minuto; un uomo medio è in grado di incamerarne dai 4 ai 5 litri al massimo. In proporzione, i vogatori olimpici possono incamerare e processare tanto ossigeno quanto un purosangue da corsa. Va precisato che questo straordinario apporto di ossigeno è utile fino a un certo punto. Mentre il 75-80 percento dell’energia prodotta da un vogatore in una gara sui 2000 metri è energia aerobica alimentata dall’ossigeno, tutte le gare cominciano, e di solito terminano, con sprint durissimi. Questi scatti rendono necessaria una produzione di energia che eccede di gran lunga la capacità del corpo di generare energia aerobica, a prescindere dall’apporto di ossigeno. Pertanto, il corpo deve immediatamente produrre energia anaerobica. Questa, a sua volta, genera grandi quantitativi di acido lattico, che si accumula rapidamente nel tessuto muscolare. La conseguenza è che spesso i muscoli cominciano a fare un male terribile all’inizio di una gara e continuano fino alla fine. (pp.49-50)

O questa

La soffitta era luminosa e ariosa, con la luce del mattino che si diffondeva da una schiera di ampie finestre sulla parete in fondo. L’aria era densa della fragranza dolce e pungente di vernice marina. Sul pavimento c’erano cumuli di segatura e trucioli di legno. Una lunga trave a doppia T percorreva la stanza quasi in tutta la sua lunghezza, e sopra era appoggiata l’intelaiatura di un otto in costruzione.
Pocock si mise a spiegargli i vari attrezzi che usava. Gli mostrò le pialle, con i manici di legno usurati dai decenni di utilizzo e le lame talmente affilate e precise da affettare trucioli di legno sottili e trasparenti come carta velina. Gli porse una sfilza di vecchi raschietti, verrine, scalpelli, lime e mazzole che aveva portato con sé dall’Inghilterra. Alcuni, disse, avevano almeno un secolo. Spiegò che ogni tipo di strumento aveva molte varianti, che ogni lima, per esempio, era leggermente diversa dall’altra, che ciascuno aveva una funzione diversa ma erano tutti indispensabili per realizzare una barca di prima qualità. Condusse Joe a uno scaffale di legname e tirò fuori campioni dei diversi tipi di legno che usava: il Pinus lambertiana, morbido e malleabile; il duro peccio rosso; il cedro fragrante; il candido frassino bianco. Li tenne sollevati a uno a uno e li esaminò, rigirandoli tra le mani e parlando delle proprietà peculiari di ciascuno e di come servissero tutte le loro qualità individuali per costruire una barca da competizione capace di prendere vita in acqua. Afferrò una lunga asse di cedro da uno scaffale e fece notare gli anelli di accrescimento annuali. Joe aveva imparato parecchio sulle qualità del cedro e sugli anelli nel periodo passato a tagliare scandole con Charlie McDonald, ma era completamente assorbito mentre Pocock spiegava quel che significavano per lui.
Joe si accovacciò accanto al costruttore e lo ascolto con attenzione, studiando il legno. Pocock disse che gli anelli svelavano più della semplice età di un albero; ne raccontavano l’intera storia, che talvolta tornava indietro di duemila anni. La successione di anelli spessi e sottili rimandava ad anni difficili di dura lotta alternati ad anni prosperi di crescita improvvisa. I colori diversi rimandavano ai vari tipi di terreno e di minerali incontrati dalle radici: alcuni secchi, che ne avevano arrestato lo sviluppo, altri ricchi e nutritivi. I difetti e le irregolarità erano segno che gli alberi avevano sopportato incendi, fulmini, tempeste di vento e infestazioni, eppure avevano continuato a crescere.
Mentre Pocock parlava, Joe era incantato. Ad attrarlo non erano soltanto le parole dell’inglese o la sua cadenza schietta e soave, ma anche la pacata riverenza con cui parlava del legno, come se avesse qualcosa di sacro e inviolabile. Il legno, mormorò Pocock, ci insegna a sopravvivere, a superare le difficoltà, a vincere le avversità, ma ci insegna anche qualcosa sul motivo implicito della stessa sopravvivenza. Qualcosa sulla bellezza infinita, sulla grazia eterna, su cose più grandi e importanti di noi. Sui motivi per cui ci troviamo tutti qui.
«lo posso creare una barca, certo» disse. Poi aggiunse, citando il poeta ]oyce Kilmer: «”Ma solo Dio può creare un albero”». A quel punto tirò fuori una sottile lamina di cedro dello spessore di appena 9 millimetri e mezzo, di quelle che rivestivano le barche. Fletté il legno e disse a Joe di fare altrettanto. Parlò della bombatura e della vitalità che il legno impartiva a una barca quando era in tensione. Parlò della forza innata delle singole fibre di cedro che, abbinata alla loro resilienza, conferiva al legno la capacità di scattare e recuperare la forma, intero e intatto, o di come le fibre, esposte al vapore e alla pressione, potessero assumere una nuova conformazione e mantenerla per sempre. La capacità di cedere, di piegarsi, di mollare, di adattarsi, disse, talvolta era una fonte di forza anche per gli uomini oltre che per il legno, a patto che fosse governata da una fermezza interiore e da saldi principi.
Portò Joe a un’estremità della lunga trave a doppia T sulla quale stava costruendo l’intelaiatura per una nuova barca da competizione. Pocock scrutò la chiglia di legno per il lungo e invitò Joe a fare lo stesso. Doveva essere perfettamente rettilinea, spiegò, per tutti i suoi 18 e più metri, non un centimetro di differenza da un capo all’altro, altrimenti la barca non sarebbe mai andata dritta, una volta in acqua. E quella precisione poteva derivare soltanto dal suo costruttore, dalla cura con cui esercitava la sua arte, da quanto cuore vi metteva.
Pocock si interruppe, indietreggiò dall’intelaiatura e mise le mani sui fianchi, osservando con attenzione il lavoro compiuto sino ad allora. Disse che per lui l’arte di costruire una barca era come una religione. Non era sufficiente padroneggiarne i dettagli tecnici. Bisognava dedicarvisi spiritualmente, abbandonarvisi totalmente. Quando il lavoro era finito e ci si allontanava dalla barca, bisognava avere la sensazione di averle lasciato una parte di sé per sempre, un pezzetto del proprio cuore. Si rivolse a Joe. «Per il canottaggio» disse «vale lo stesso. E anche per molte cose della vita, perlomeno i momenti che contano davvero. Capisci cosa intendo, Joe?» Joe annuì con esitazione, un po’ nervoso e non del tutto convinto, poi tornò di sotto e riprese a fare gli addominali, sforzandosi di capirci qualcosa. (pp.259-261)

O questa

Anche Bobby Moch ebbe un’improvvisa rivelazione. Successe mentre sedeva all’ombra di un albero in un campo a Travers Island e apriva una busta. Conteneva una lettera del padre, quella che Bobby gli aveva chiesto, con gli indirizzi dei parenti che sperava di visitare in Europa. Ma conteneva anche una seconda busta sigillata sulla quale era scritto: «Leggila in privato». Ora, mentre sedeva allarmato sotto l’albero, Moch aprì la seconda busta e ne lesse il contenuto. Quando ebbe finito, aveva il viso rigato di lacrime.
La notizia era abbastanza innocua per gli standard del Ventunesimo secolo, ma considerando le tendenze sociali nell’America degli anni Trenta fu un profondo shock. Quando avesse incontrato i parenti in Europa, spiegò Gaston Moch al figlio, sarebbe venuto a sapere per la prima volta che lui e la sua famiglia erano ebrei.
Bobby rimase seduto a lungo sotto l’albero a meditare, non perché si era improvvisamente scoperto membro di quella che all’epoca era ancora una minoranza molto discriminata, ma perché, assimilando la notizia, aveva compreso per la prima volta l’atroce sofferenza che il padre doveva essersi portato dentro in silenzio per tutti quegli anni. Per decenni il padre si era convinto che per tirare avanti in America fosse necessario nascondere una parte fondamentale della sua identità ad amici, vicini di casa e perfino ai suoi figli. Bobby era stato educato a trattare gli altri sulla base delle loro azioni e del loro carattere, non di stereotipi. Era stato proprio il padre a insegnarglielo. Adesso era devastante scoprire che non si era sentito abbastanza al sicuro da seguire quel semplice suggerimento, che aveva tenuto dolorosamente nascosto il suo retaggio, come un segreto di cui vergognarsi, perfino in America, perfino con l’amato figlio. (pp.352-353)

O questa

Gli sembrò uno dei posti più pacifici che avesse mai visto.
Non poteva conoscere il segreto sanguinoso che si celava dietro Köpenick e le sue placide acque. (p.376)

L’indomani, dopo pranzo, i ragazzi gironzolarono per la città scherzando, curiosando nei negozi, usando le loro nuove macchine fotografiche, comprando qualche souvenir, esplorando angoli di Köpenick che non avevano ancora visto. Come gran parte degli americani a Berlino quell’estate, erano giunti alla conclusione che la nuova Germania fosse un luogo molto gradevole. Era pulita, la gente era fin troppo cordiale, tutto funzionava a dovere e con efficienza, e le ragazze erano carine. Köpenick era piacevolmente pittoresca; Grünau era verde, frondosa e con un fascino rustico. Erano cittadine amene e pacifiche quasi quanto quelle nello Stato di Washington.
Ma c’era una Germania che i ragazzi non potevano vedere, una Germania nascosta ai loro occhi, di proposito o per questioni di tempo. Non si trattava solo dei cartelli rimossi – FÜR JUDEN VERBOTEN, JUDEN SIND HIER UNERWÜNSCHT -, degli zingari radunati e portati via o del violento «Der Stürmer» ritirato dagli scaffali delle tabaccherie di Köpenick. C’erano segreti più grandi, oscuri e pervasivi tutt’intorno a loro. Non sapevano nulla dei rivoli di sangue che avevano macchiato le acque del fiume Spree e del Langer See nel giugno 1933, quando le squadre d’assalto delle SA avevano radunato centinaia di ebrei, socialdemocratici e cattolici di Köpenick, torturandone novantuno fino alla morte: ne avevano pestato qualcuno fino a spaccargli i reni o a squarciargli la pelle, poi avevano versato catrame rovente sulle ferite prima di gettare i corpi mutilati nei tranquilli corsi d’acqua della cittadina. Non potevano vedere il vasto campo di concentramento di Sachsenhausen in costruzione quell’estate a nord di Berlino, dove di lì a poco sarebbero stati rinchiusi oltre duecentomila ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, zingari e infine prigionieri di guerra sovietici, civili polacchi e studenti universitari cechi, e dove decine di migliaia di loro avrebbero trovato la morte. (pp. 404-405)

O questa cronaca mozzafiato

Le barche si stavano avvicinando al segnale dei 500 metri, il primo quarto di gara, con Svizzera, Gran Bretagna e Germania in lotta serrata per la prima posizione, seguite a distanza da Stati Uniti e Italia. L’Ungheria era ultima. Eccetto i britannici, il gruppo di testa si stava avvicinando alla zona riparata a ridosso della sponda meridionale, dove l’acqua era quasi piatta. La barca americana aveva solo una lunghezza di ritardo ma era ancora nel punto più ampio del lago, in lotta contro il vento implacabile e massacrante, con l’acqua che schizzava dai remi a ogni rilascio. Un dolore lento e bruciante cominciò a pulsare nelle braccia e nelle gambe dei ragazzi, irradiandosi lungo la schiena. Molto lentamente iniziarono a perdere terreno. Ai 600 metri avevano una lunghezza e mezzo di ritardo. Agli 800 erano di nuovo ultimi. Le loro pulsazioni si alzarono a 160 o 170 battiti al minuto.
Nelle acque protette della seconda corsia, d’un tratto l’Italia rimontò e conquistò un leggero vantaggio sulla Germania. Mentre la prua della barca italiana superava il segnale dei 1000 metri a metà del tracciato, una campana informo gli spettatori al traguardo che i concorrenti si stavano avvicinando. Settantacinquemila persone si alzarono in piedi, e per la prima volta intravidero le barche che avanzavano verso di loro lungo la grigia distesa del Langer See come tanti ragni lunghi e sottili. Sulla balconata della Haus West, Hitler, Goebbels e Göring si premettero il binocolo contro gli occhi. Sulla balconata della rimessa lì accanto, Al Ulbrickson vide la Husky Clipper avanzare nella corsia più esterna accanto alla barca britannica. Alberi e edifici gli impedivano di vedere le corsie e le barche più vicine. Per un momento, dal punto in cui si trovava, sembrava che i suoi ragazzi e i britannici fossero soli al comando, in fuga. Poi sentì l’addetto stampa annunciare i parziali sui 1000 metri. La folla esplose. L’Italia era al comando, ma aveva un solo secondo di vantaggio sulla Germania, al secondo posto. La Svizzera era in terza posizione, a un secondo dalla Germania. L’Ungheria era quarta. La Gran Bretagna era finita in coda al gruppo, contendendosi sostanzialmente l’ultimo posto con gli Stati Uniti. I ragazzi di Ulbrickson avevano quasi cinque secondi di ritardo dal gruppo di testa.
[…]
Al segnale dei 1500 metri, la Germania riconquistò il primo posto superando l’Italia. Un altro enorme ruggito si levò dalla folla ormai vicina. Poi le grida si tramutarono in un coro – «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» – sincronizzato con il ritmo della barca tedesca. In balconata, Hitler guardava da sotto la visiera del cappello e si dondolava avanti e indietro a tempo con la cantilena. Finalmente, Al Ulbrickson riuscì a vedere la squadra tedesca e quella italiana, che sfrecciavano a ridosso della sponda, chiaramente in testa, ma le ignorò e puntò gli occhi grigi sulla barca americana, all’estremità opposta del lago, cercando di leggere nella mente di Bobby Moch. Quella gara cominciava a somigliare a Poughkeepsie. Ulbrickson non sapeva se fosse un buon segno o un brutto segno.
[…]
Moch tornò a urlare: «Dobbiamo recuperare ancora una lunghezza, seicento metri!». I ragazzi si piegarono sui remi. La frequenza salì a trentasei, poi a trentasette. Quando il gruppo superò il segnale dei 1500 metri, la Husky Clipper era passata dal quinto al terzo posto. A riva, sulla balconata della rimessa, le speranze di Al Ulbrickson si riaccesero in silenzio vedendo la barca rimontare, ma la rimonta sembrò esaurirsi quando i ragazzi erano ancora lontani dalla testa della gara.
A 500 metri dal traguardo avevano ancora quasi una lunghezza piena di ritardo su Germania e Italia. Svizzeri e ungheresi avevano completamente mollato. l britannici stavano tornando all’attacco, ma anche questa volta Ran Laurie, con il suo remo a pala stretta, non aveva abbastanza presa sull’acqua per aiutare i compagni a contrastare il vento e le onde. Moch ordinò a Hume di aumentare appena la frequenza. Dalla parte opposta del campo, Wilhelm Mahlow, il timoniere della Germania, diede l’identico comando a Gerd Völs, il capovoga. Il trentenne Cesare Milani, sulla barca italiana, gridò la stessa direttiva al suo capovoga, Enrico Garzelli. L’Italia guadagnò qualche altro centimetro.
Mentre il Langer See si restringeva verso la dirittura d’arrivo, la Husky Clipper entrò in un punto più riparato dal vento, protetto sui due lati da alti alberi e edifici. La partita era aperta. Bobby Moch rimise il timone parallelo allo scafo, e finalmente la Clipper non ebbe più freni. Ora che il tracciato era lo stesso per tutti e Don Hume era di nuovo in vita, i ragazzi tornarono alla carica a 350 metri dal traguardo, recuperando il gruppo di testa un carrello dopo l’altro. A 300 metri, la prua della barca americana era quasi alla pari con quella tedesca e quella italiana. In prossimità degli ultimi 200 metri, i ragazzi passarono in testa di un terzo di lunghezza. Un fremito di apprensione scosse la folla.
Bobby Moch diede un’occhiata all’enorme cartello bianco e nero con la scritta ZIEL al traguardo. Si mise a calcolare quanto avrebbe dovuto chiedere ai ragazzi per essere sicuro di precedere le barche alla sua sinistra. Era tempo di cominciare a mentire.
Moch gridò: «Altri venti colpi!». Si mise a contarli: «Diciannove, diciotto, diciassette, sedici, quindici… Venti, diciannove…». Ogni volta che arrivava a quindici ripartiva da venti. Storditi, convinti di essere ormai giunti al traguardo, i ragazzi misero tutti se stessi in ogni palata, vogando come forsennati, impeccabili e straordinariamente eleganti. I remi si piegavano come archi, le pale entravano e uscivano dall’acqua pulite, lisce, efficienti, lo scafo unto d’olio di balena avanzava silenzioso tra un colpo e l’altro, la prua appuntita di cedro fendeva le acque scure, barca e uomini procedevano uniti, scattando furiosamente in avanti come una creatura vivente.
Poi entrarono in un mondo caotico. Erano in piena volata, vicino ai quaranta colpi al minuto, quando sbatterono contro un muro di suono. D’un tratto si trovarono di fianco alle enormi gradinate di legno sulla sponda nord del tracciato, a non più di tre metri dalle migliaia di spettatori che urlavano all’unisono: «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!». Il boato si rovesciò addosso ai ragazzi, riverberandosi da una sponda all’altra e soffocando del tutto la voce di Bobby Moch. Nemmeno Don Hume, che sedeva ad appena mezzo metro da lui, riusciva a capire cosa stesse sbraitando. Il rumore li assalì, li disorientò. Dall’altra parte del campo, la barca italiana tentò un’altra rimonta. Lo stesso fece quella tedesca, ed entrambe superarono i quaranta colpi al minuto. Guadagnarono faticosamente terreno, portandosi alla pari con gli americani. Bobby Moch li vide e gridò in faccia a Hume: «Accelera! Accelera! Dovete dare tutto quello che avete!». Nessuno riuscì a sentirlo. Stub McMillin non capiva cosa stesse succedendo, ma qualunque cosa fosse non gli piaceva. Lancio un’imprecazione nel vento. Neanche Joe sapeva cosa stesse succedendo, sentiva solo un dolore mai provato prima in barca: lame roventi penetravano nei tendini di braccia e gambe e fendevano la sua larga schiena a ogni colpo; ogni respiro disperato gli bruciava i polmoni. Fisso gli occhi sulla nuca di Hume e si concentrò sulla semplice, crudele necessità di dare un’altra palata.
Sulla balconata della Haus West, Hitler abbassò il binocolo lungo il fianco. […] Sulla balconata accanto, l’impassibile Al Ulbrickson era immobile e inespressivo, con una sigaretta in bocca. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe visto Don Hume crollare sul remo. […]
Moch guardò a sinistra, vide i tedeschi e gli italiani tornare alla carica e capì che in qualche modo i ragazzi avrebbero dovuto aumentare ancora il ritmo e dare ancora più di quanto stavano dando, anche se sapeva che era già il massimo. Lo capiva dai loro volti, dalla smorfia contorta di Joe, dagli occhi sgranati e attoniti di Don Hume, che sembravano guardare oltre, verso un vuoto insondabile. Afferrò gli agugliotti di legno legati ai cavi del timone e cominciò a sbatterli contro le assi di eucalipto fissate ai due lati dello scafo. Anche se i ragazzi non potevano sentirlo, forse avrebbero avvertito le vibrazioni.
Le avvertirono. E ne colsero subito il significato: erano il segnale che avrebbero dovuto fare l’impossibile, aumentando ancora il ritmo. Da qualche parte, nel profondo, ognuno di loro si aggrappò agli ultimi brandelli di energia e volontà che non sapeva neppure di avere. l loro cuori pompavano a quasi 200 battiti al minuto. Erano andati oltre la spossatezza, oltre quello che i loro corpi avrebbero potuto sopportare. Il minimo errore di uno di loro avrebbe portato a prendere un granchio, e sarebbe stata una catastrofe. Nella grigia oscurità sotto le tribune piene di volti urlanti, le loro pale bianche guizzavano dentro e fuori dall’acqua.
Era un testa a testa, adesso. Sulla balconata, Al Ulbrickson spezzò in due la sigaretta con i denti, la sputò, saltò su una sedia e  si mise a gridare a Moch: «Oral Ora! Oral». Da qualche parte una voce strillava isterica da un altoparlante: «ltalien! Deutschland! Italien! Achh… Amerika! Italien!». Le tre barche sfrecciarono verso la linea del traguardo, alternandosi al comando. Moch batté sulle assi di eucalipto più forte e più in fretta che poteva, sparando una raffica di colpi sulla poppa della barca come una mitragliatrice. Hume portò la frequenza sempre più in alto, finché i ragazzi non raggiunsero i quarantaquattro. Non avevano mai vogato così forte, non credevano nemmeno che fosse possibile. Passarono leggermente in vantaggio, ma gli italiani si avvicinarono di nuovo. I tedeschi erano alla pari con loro. «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» rimbombava nelle orecchie dei ragazzi. Bobby Moch si mise a cavalcioni della poppa e si sporse in avanti, battendo il legno e gridando parole che nessuno poteva sentire. I ragazzi diedero un’ultima, potente palata e spinsero la barca oltre la linea. Nell’arco di un unico secondo tedeschi, italiani e americani tagliarono il traguardo.
[…]
Qualcuno sussurrò: «Chi ha vinto?». Roger Morris gracchiò: «Be’… noi… credo». (pp.420-426)

Che non può non richiamare alla memoria la mitica, indimenticabile telecronaca di Giampiero Galeazzi a Seul, 1988. 

E infine questa nota personale dell’autore

Nell’agosto del 2011 andai a Berlino per vedere il luogo in cui i ragazzi avevano vinto l’oro settantacinque anni prima.
[…]
Mentre ero lì a guardare quei ragazzi, mi resi conto che settantacinque anni prima Hitler, osservando Joe e i compagni rimontare dal fondo del gruppo fino a superare Italia e Germania, aveva intravisto senza riconoscerli i segnali della sua condanna. Non poteva sapere che un giorno centinaia di migliaia di ragazzi come quelli, ragazzi che condividevano la loro stessa indole – onesti e modesti, non privilegiati né favoriti da qualcosa in particolare, semplicemente leali, impegnati e perseveranti -, sarebbero tornati in Germania con uniformi verde oliva per dargli la caccia.
Se ne sono andati quasi tutti, ormai, i tantissimi giovani che hanno salvato il mondo prima che io nascessi. Ma quel pomeriggio, sulla balconata della Haus West, provai un moto di gratitudine per la loro bontà e la loro grazia, per l’umiltà e l’onore, per la loro semplice civiltà e per tutte le cose che ci hanno insegnato prima di solcare le acque della sera e, finalmente, svanire nella notte. (pp.445-446)

È un libro di quelli che lasciano il segno, questo. Di quelli che li chiudi e poi ci mediti sopra. Di quelli che dopo un anno e dopo dieci ricordi perfettamente, e ricordi ogni singolo personaggio, ogni sua caratteristica, ogni suo segreto nascosto.
Ah, stavo quasi per dimenticare: in questo libro bisogna leggere anche i ringraziamenti; non lo faccio mai, ma qui bisogna proprio farlo, e se leggerete il libro e poi i ringraziamenti, capirete perché.

Daniel James Brown, Erano ragazzi in barca, Mondadori
ragazzi in barca
barbara

ISRAELE E GLI ARABI

[…]

A questo proposito, e anche per dimostrare, purtroppo, che questi problemi non nascono oggi, ma si ripetono da decenni come se si trattasse di un disco rotto, che nessuno si è mai peritato di interrompere, può essere significativo richiamare una argomentata dichiarazione fatta, in un’intervista del 1972 (!), dall’allora premier israeliano Golda Meir: «Io credo», disse il premier, «che la guerra nel Medio Oriente durerà ancora molti, molti anni. E le spiego subito perché faccio questa affermazione. Ciò lo si deve all’indifferenza con cui i capi arabi mandano a morire la propria gente, per il poco conto in cui tengono la vita umana, per l’incapacità dei popoli arabi a ribellarsi e a dire basta».
Golda Meir proseguiva dicendo che «alla pace con gli arabi si potrebbe arrivare solo attraverso una loro evoluzione che includesse la democrazia. Ma, ovunque giro gli occhi e li guardo, non vedo da loro nemmeno un’ombra di democrazia. Vedo solo regimi dittatoriali. E un dittatore non deve rendere conto al suo popolo di una pace che non fa. Non deve rendere conto neppure dei morti. Chi ha mai saputo quanti soldati egiziani son morti nelle due ultime guerre? Soltanto le madri, le sorelle, le mogli, i parenti che non li hanno visti tornare. I capi non si preoccupano neanche di sapere dove sono sepolti, se neppure sono sepolti. Noi invece…».
A questo punto, Golda Meir si avvicinò a uno scaffale e disse: «Guardi questi cinque volumi. Raccolgono la fotografia e la biografia di ogni soldato e di ogni soldatessa israeliana morti in guerra. Ogni singola morte, per noi, è una tragedia. A noi non piace fare le guerre: neppure quando le vinciamo. Dopo l’ultima, non c’era gioia per le nostre strade. Non c’erano danze, né canti, né feste. E avrebbe dovuto vedere i nostri soldati che tornavano vittoriosi. Erano, ciascuno, il ritratto della tristezza. Non solo perché avevano visto morire i loro fratelli, ma perché avevano dovuto uccidere i loro nemici. Molti si chiudevano in camera e non parlavano più. Oppure aprivano bocca per ripetere, in un ritornello: “Ho dovuto sparare. Ho ammazzato”. Proprio il contrario degli arabi».

Pierluigi Magnaschi, qui

Ecco, la differenza è tutta qui. Ed è esattamente a causa di questa differenza che la pace non c’è.

golda-kibbutz

barbara

SECONDO DIALOGO CON RICCARDO COCCIANTE

Col sole bianco e disteso al sole e i miei pensieri senza parole verdi illusioni rosse passioni appeso a filo ad asciugare con quei calzini da rammendare e i fazzoletti da ripiegare ma le tue mani piene di sole fra le tue mani piene d’amore
Qua mi sa che devi esserti fumato un po’ di robe strane che ti hanno fatto male, quindi preferisco evitare di inerpicarmi su questa ammucchiata di parole.

Decisamente tu sei stata un angelo da quella volta che hai detto sì senza parlare mi hai detto sì senza un altare senza arrossire mi hai detto sì
Sì ragazzo, la passione è così: non fa arrossire. E non ha neanche bisogno di altari: è così che funziona. Ma tu di queste cose non sei tanto pratico, vero?

Analizzando la situazione a mente fredda senza passione
Ah ecco, appunto, perché la passione ero solo io ad averla, eh. Molto gentile da parte tua informarmene

scopro che forse questo non è il momento di portare via le lenzuola dal vento e quei calzini da rammendare restano lì ad aspettare i fazzoletti da ripiegare li metto in tasca senza stirare
Eh sì, avevo capito bene: io sono venuta con te per passione, tu mi hai portata a casa per farti rammendare calzini e piegare fazzoletti. A mente fredda, beninteso. Senza passione.

Decisamente tu non sei più l’angelo che quella volta mi ha detto sì senza parlare mi ha detto sì senza un altare senza arrossire mi hai detto sì
Vedi caro, adesso ti spiego: ancora non abbiamo deciso se gli angeli abbiano o non abbiano un sesso, ma credo che possiamo stabilire con sufficiente certezza che gli angeli non FANNO sesso. Quindi vai tranquillo: se incontri un essere che ha l’aspetto di donna e questo essere dall’aspetto di donna viene a letto con te, NON è un angelo. E se non sei arrivato a capirlo, credimi, la colpa non è mia: sei tu che non sei capace di riconoscere una donna quando ne hai una davanti, o magari anche nel letto.

E l’incoerenza dei tuoi pensieri mi fa capire che fino a ieri ho coltivato senza successo un fiore falso fatto di gesso
Senza successo? Perché, cosa ti proponevi? Avevi dei programmi su di me? Avevi deciso che cosa fare di me? Come utilizzarmi? Cosa farmi diventare?

e adesso scendi dal piedistallo
Sta’ un po’ a sentire, bimbo, e vedi di aprire bene le orecchie, perché non torno poi a ripetertelo: TU mi hai portata a casa tua senza preoccuparti prima di conoscere i miei pensieri, approfittando del fatto che io – IO SÌ! – ero piena di passione, TU hai fatto programmi su di me senza neanche prenderti la briga di condividerli, TU mi hai ficcata su quello stramaledetto piedistallo, pretendendo oltretutto che da là sopra ti rammendassi i calzini e contemporaneamente continuassi a dirti sì – a dartela, per chiamare le cose col loro nome -, e adesso mi ordini di scendere come se mi ci fossi messa io? Ma vaffanculo, va’

perché sei vetro non sei cristallo
eh, ha parlato mister diamante, ha parlato

e adesso basta col tuo veleno perché sei niente forse di meno
il primo della classe sale in cattedra e distribuisce le pagelle

Decisamente tu non sei mai stata un angelo neanche quella volta che hai detto sì
già detto, caro: gli angeli non scopano, fattene una ragione

senza parlare mi hai detto sì senza un altare mi hai detto sì senza arrossire mi hai detto sì
e questa è la tua riconoscenza per averti seguito per passione, per averti detto sì senza un altare, per averti rammendato i calzini, per essermi lasciata mettere dove volevi tu senza protestare… E rivaffanculo, va’.

È che io, in questo campo, non tendo a generalizzare, che se avessi questa tendenza – e magari anche quella di rendere pan per focaccia – sarebbero cazzi acidi per un bel po’ di gente. Non tendo a generalizzare, e quando incontro un uomo che è un sacco di merda [giusto per precisare, a scanso di equivoci: non ci sono stati sacchi di merda fra i miei uomini, perché quando incontro un sacco di merda so riconoscerlo, e mi tengo alla larga] non mi metto in testa che tutti gli uomini del pianeta siano dei sacchi di merda. Neanche quando cercano di farmi credere che le cose stiano proprio così. Perché è esattamente questo che sta succedendo: si sta tentando, da più parti, di convincermi che per voi uomini, tutti senza eccezione, noi, tutte senza eccezione, siamo sostanzialmente un buco con la donna intorno, tipo i cessi alla turca, il buco con la ceramica intorno per deporvi le proprie deiezioni, e che per trattare questo fastidioso ma purtroppo ineliminabile intorno ci sono due modi: mettergli un po’ di soldi in mano o contargli un sacco di balle. E che se per caso qualcuna di noi qualche volta ha avuto l’impressione di essere amata, o desiderata, o tenuta in una qualche considerazione, le possibilità sono due: o abbiamo incontrato qualcuno particolarmente bravo a mentire, o siamo particolarmente stupide. O tutte e due le cose insieme, che è meglio ancora. E quando uno è un tale zero da non essere capace di farsi amare, né desiderare, e per avere una donna non ha altro modo che pagarla o riempirla di menzogne, per non doversi suicidare dallo schifo ogni volta che si guarda allo specchio non trova di meglio che convincersi, e tentare di convincere, che tutto intero l’universo maschile sarebbe fatto a sua immagine e somiglianza. E cosa volete che vi dica? Che la merda torni alle sue fogne; io torno fra gli uomini. Che esistono, checché ne dica la merda.

Perché anche le melle, nel loro piccolo, ogni tanto si incazzano (altro che sindache e ministre e avvocate imboldrinate marce).

barbara

DIARIO DI UN SOLDATO

Una babele di lingue e culture.
Un alternarsi continuo di flessioni e riflessioni.
Una divisa che racconta senza dover parlare, un paio di scarponi che marciano senza sosta.
Un fucile sotto il braccio destro, “per difendersi e mai per uccidere” ci ripetono, perché qui la vita va celebrata e mai condannata.
Un sorriso appena accennato, una mano tesa, pronta all’aiuto. Un vocabolario ricco e colorato, un lessico unico nel suo genere.
E così imparo al volo il primo termine che mi accompagnerà passo per passo, mano nella mano, in questa nuova avventura. Amcha: il tuo popolo.
Ci viene dunque insegnato senza equivoci che qualsiasi gesto compiuto da un soldato dell’esercito israeliano, non è mai fine a se stesso.
“Affronterete con orgoglio e coraggio tutte le prove che vi si presenteranno, tutte le difficoltà che troverete lungo il vostro cammino. E quando vi sembrerà di non farcela più, vi ricorderete d’un tratto di chi vi aspetta a casa. Penserete poi alla maestra che vi ha insegnato a leggere e scrivere, al fruttivendolo dietro l’angolo che vi saluta ogni mattino con entusiasmo, all’autista dell’autobus che vi accoglie con un largo sorriso, all’idraulico che vi ha riparato la perdita del lavandino, al giardiniere che ha seminato i tulipani invece che le rose, all’anziano signore seduto sulla panchina a guardare il cielo, all’operaio che ha perso il suo lavoro, al banchiere che prova a convincervi che aprire un mutuo sia la cosa migliore che possa capitarvi, al bambino che corre spensierato dietro a un pallone. Penserete al vostro popolo.”
E mentre il giullare di corte, munito di kippa colorata e barbetta illusoria, definisce Israele uno Stato apartheid senza alcuna traccia di pudore, io e il mio nuovo amico Saalan, un ragazzo di tradizione drusa, aspettiamo impazienti di prestare il giuramento di fedeltà all’esercito di cui facciamo parte.
Io stringendo in mano la Bibbia, lui il libro di Yitro: perché da queste parti funziona così.
David Zebuloni (22 aprile 2016, moked)
David-Zebuloni
“Giullare”: David Zebuloni evidentemente è un signore, e ha preferito usare questo eufemismo al posto del più adeguato “buffone”: quello che in cambio di vantaggi materiali divertiva i suoi signori e padroni svendendo il proprio onore, la propria dignità, la propria coscienza. In una parola: un prostituto.

barbara

LETTERA APERTA A COLORO CHE GIUSTIFICANO L’ASSASSINIO DI ISRAELIANI

Io sono ebreo, sionista e israeliano. Al giorno d’oggi, questo equivale a tre condanne a morte.
Tuttavia, questo non mi ha mai impedito di dialogare con persone che non condividono le mie opinioni o le mie convinzioni religiose. Perché credo nel dialogo e perché, per quanto “caldo” possa essere il dibattito, so che ho davanti a me un essere umano e che, quali che possano essere i nostri disaccordi, condividiamo una serie di valori fondamentali che sono alla base, appunto, della nostra umanità.
Ecco perché, da anni, cerco instancabilmente di discutere con i “pro-palestinesi”, di spiegare loro la mia posizione, di far loro capire che la situazione sul terreno non è così semplice come quello che possono percepire in 20 minuti di telegiornale, per ricordare loro che le parole hanno un significato e che “ebreo”, “sionista”, “israeliano” e “israelita” non sono sinonimi, di spiegare loro, pazientemente, cercando di non innervosirmi, perché paragonare Israele alla Germania nazista non è solo spregevole, ma anche totalmente assurdo, eccetera eccetera.
Ma oggi siamo arrivati in una fase in cui, purtroppo, il dialogo non è più possibile. Perché il primo e il più fondamentale dei valori è stato calpestato e gettato nella spazzatura. Questo valore è il semplice rispetto per la vita umana. Dimenticate per un momento che si tratta di Israele, degli ebrei, degli arabi, del Monte del Tempio e della Moschea Al-Aqsa… parliamo di esseri umani. E da due settimane degli esseri umani vengono accoltellati, a sangue freddo, in mezzo alla strada da degli aggressori (uomini, donne e perfino un bambino di 13 anni!) che sono stati fanatizzati dai loro leader al punto di perdere questo valore fondamentale che è il rispetto della vita umana.
E ci sono persone in Europa e negli Stati Uniti che, dall’alto della loro venti secoli di civiltà, sono capaci di giustificare queste azioni in nome della “disperazione” o col pretesto falso (e comunque ridicolo) di un “cambiamento dello status quo” sul Monte del Tempio. Come si può arrivare a questo punto? Come si può, senza tremare di vergogna, giustificare l’assassinio puro e semplice di esseri umani, sotto qualunque pretesto? Quando si arriva a questo punto, è perché si è perduto questo valore essenziale che è il rispetto per la vita umana. E perdere questo valore, equivale a escludere se stessi dall’umanità.
Torniamo un attimo a Israele. Voi potete odiare questo paese con tutte le vostre forze e trattarmi da bugiardo, colono, fascista e tutto quello che vorrete; ma una cosa non potete cambiare: Israele rispetta, più di ogni altra cosa, la vita umana. Israele rispetta talmente la vita umana, che i suoi soldati sono disposti a mettersi in pericolo per evitare l’uccisione di civili. Israele rispetta talmente la vita umana che, quando un terrorista è ferito dalla polizia o dall’esercito dopo un attentato, viene curato in un ospedale israeliano… a spese del contribuente israeliano! (Lo so che non mi crederete… io stesso stento a crederci, ma è la pura verità, e io sono nel posto giusto per saperlo).
E allora capirete, voi che giustificare l’ingiustificabile, che le vostre lezioni di morale non mi fanno più né caldo né freddo.
Io sono ebreo, sionista e israeliano. E soprattutto, io sono un essere umano… purtroppo non sono più certo che voi possiate dire altrettanto.
Julien Pellet
(Qui, traduzione mia)

barbara

PROVATE A IMMAGINARE

Centinaia e centinaia di cristiani in ginocchio col rosario in mano, o centinaia e centinaia di ebrei in talled e tefillin ammassati a pregare in un Paese islamico, magari davanti a una moschea…
bologna-giovani-islamici
islam Roma
Islam-Milano
Oppure un gruppo di ebrei che il giorno di Kippur si aggirino per le strade di un Paese cristiano o musulmano armati di catene per bicicletta per sprangare chi – cristiano o musulmano – si azzardasse a mangiare. Riuscite a immaginarlo? No, vero? Infatti non è mai successo. E quindi no, caro Tommaso, le storielline buoniste dell’accoglienza che NOI dobbiamo mettere in atto, del rispetto che NOI dobbiamo praticare, della tolleranza che NOI dobbiamo mostrare non sono disposta a lasciarmele raccontare. Soprattutto quando vengono raccontate per mezzo di ridicoli frignamenti. Ho insegnato per 36 anni, abbiamo avuto, soprattutto negli ultimi anni, un numero crescente di stranieri: non ho mai sentito un insegnante suggerire a chi non capiva di andare in una classe inferiore, non ho mai sentito gli scolari sghignazzare di chi, conoscendo poco o niente la lingua, la parla male, non ho mai visto bambini ridere sentendo che un compagno non è nato qui, non ho mai visto un immigrato con gli occhi di tutti addosso quando va per strada. E quando la scolara indiana (e sua sorella nell’altra classe) è arrivata a scuola con un abito tradizionale siamo tutti rimasti a bocca aperta per l’ammirazione, e più di una compagna ha timidamente chiesto se sua madre non sarebbe stata disposta a farne uno anche per loro. E quando è capitato che qualcuno fosse appena arrivato e non conoscesse una parola delle due lingue locali (è successo con una polacca e una kosovara), non si sono messe a frignare che non capivano e non venivano capite, ma si sono rimboccate le maniche e messe a studiare col massimo impegno per diminuire la distanza, altro che piagnistei cianciando di improbabili classi in cui sono tutti biondi.
Col buonismo non si va da nessuna parte, con l’apertura a senso unico non si va da nessuna parte, con la tolleranza a senso unico non si va da nessuna parte. E i fatti sono qui a dimostrarlo, ogni giorno.

barbara

AGGIORNAMENTO: assolutamente da leggere questo.