ROMA, 9 OTTOBRE 1982

Pogrom italiano

Sabato 9 ottobre 1982. Si celebra la festività ebraica di Sheminì Atzeret, giorno in cui è prevista la grande benedizione dei bambini. La sinagoga centrale di Roma è gremita. Alle 11.55 escono dal Tempio i primi ebrei, passano dalla porta laterale su via Catalana, in corrispondenza del numero civico 1/A. Due uomini lanciano bombe contro le famiglie che si accalcano all’uscita. Chi corre, chi cerca riparo dietro le macchine, mentre raffiche di mitra vengono sparate dai terroristi che si dileguano in direzione di via Arenula e poi di Campo de’ Fiori. Muore un bambino di due anni, Stefano Taché, il primo ebreo ammazzato sul suolo italiano in quanto ebreo dai tempi della deportazione nazifascista. Adesso un libro, uscito per i tipi della Libreria editrice Viella e a firma di Arturo Marzano e Guri Schwarz, “Attentato alla sinagoga”, ripercorre il tragico episodio nel ghetto di Roma (il libro sarà presentato domani al Salone del Libro). Non è la spy story del perché la polizia quel giorno non montò di guardia di fronte alla sinagoga (Francesco Cossiga avrebbe rivelato successivamente il “lodo” vergognoso, il patto fra il governo italiano e i terroristi palestinesi perché non attaccassero obiettivi italiani, un patto però che non includeva, anche se in Italia, obiettivi “sionisti”). Il libro è piuttosto il viaggio dentro la disumanizzazione che Israele, e con essa il popolo ebraico italiano, ha subito nel periodo precedente l’attentato. “Attentato alla sinagoga” dimostra in particolare come si fosse messo in atto un processo di diluizione dell’ebreo in carne e ossa nell’“ebreo in generale”, facendo riaffiorare sentimenti di rimorso e odio, inchiodando un intero popolo a un destino oscuro che perpetua il mito di una razza coinvolta in tragedie sanguinose. Per dirla con le parole dello psicanalista Antonio Semi sulla prima pagina del Gazzettino di Venezia nel 1982, “se fossi un ebreo, di questi giorni, nella nostra civilissima Europa, avrei paura”. Era l’epoca della guerra del Libano e a forza di fomentare l’odio, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché e il ferimento di decine di persone. L’Associazione nazionale partigiani del comune lombardo di Palazzolo sull’Oglio fece affiggere manifesti murali intitolati “Massacro ebreo a Beirut”, e si rivolse ai cittadini e alle autorità affinché fosse posta fine a un “genocidio che non ha precedenti nelle storie di ogni popolo civile”, chiamando gli ebrei “assassini”. Sulla rivista Quaderni piacentini apparve un articolo di Paolo Sornaga e Ugo Adilardi, un grande elogio della “guerriglia palestinese”, definita come “l’unica valida alternativa di sinistra al tentativo sempre più scoperto di risolvere la questione medioorientale”. Il quotidiano Lotta continua accusò Israele di usare “i metodi classici delle invasioni hitleriane”. E’ la “ferocia del genocidio sionista” contro cui si oppone “la resistenza venuta dai mitra kalashnikov dei feddayn”. Israele, che utilizzava metodi “hitleriani” ed era colpevole di “genocidio”, era il “nuovo nazismo” contro cui combattevano i palestinesi, novelli partigiani, con il solo obiettivo di liberarsi dagli oppressori. In teatro spopolava intanto lo spettacolo “Feddayn” con la regia di Dario Fo e la partecipazione di Franca Rame. Israele vi era presentato come un insediamento coloniale da abbattere, mentre il feddayn veniva definito il “nemico numero uno dell’imperialismo, del sionismo e della reazione araba”. La presenza in scena di attori italiani e palestinesi dimostrava, persino visivamente, come il proletariato italiano e i guerriglieri palestinesi fossero “uniti in scena da un comune impegno di lotta”. Nell’atto di seppellire uno dei feddayn morti durante un attacco terroristico, infatti, veniva intonato un canto che aveva evidenti assonanze con “Bella ciao”. Fondi vennero raccolti per la “causa palestinese”. Commentando l’attacco terroristico compiuto a Monaco nell’ottobre 1972, il periodico Movimento studentesco scrisse che Israele era prossimo “a una mostruosa ‘soluzione finale’”. E nel marzo successivo accusò “il governo fascista israeliano” di perseguire “una politica di terrorismo, di massacri, di vero e proprio genocidio”. Lotta continua non esitò di nuovo a parlare di “fascismo espansionista di Tel Aviv”. Il Manifesto accostò alle SS naziste gli agenti israeliani che si erano infiltrati in Libano per uccidere i dirigenti di Settembre nero nell’aprile 1973. A Bologna il movimento studentesco, impegnato in una manifestazione a sostegno della Palestina, cercò di arrivare alla sinagoga, ma venne bloccato per poco dalla polizia. Per la prima volta dalla fine della guerra si era tentato un assalto contro un edificio della comunità ebraica. A Padova venne lanciata una bottiglia molotov contro il portone d’ingresso della sinagoga di via San Martino e Solferino. Il mese successivo alla strage di Monaco, a Torino, sul muro esterno della sinagoga di via San Pio V venne ritrovata la scritta “Viva settembre nero” con falce e martello disegnati accanto. Nel frattempo a Roma venivano distribuiti volantini per contestare lo spettacolo teatrale di David Zard, uno dei tanti ebrei libici rifugiatosi in Italia dopo il 1967. Zard era apostrofato con una serie di ingiurie antisemite, come “torturatore delle forze di Dayan”. In corrispondenza del Capodanno ebraico furono poi lanciate cinque bottiglie molotov contro la sinagoga centrale di Roma. Il gesto, avvenuto in concomitanza con una serie di attentati a ditte israeliane e americane, venne rivendicato dal Commando antisionista Ghassan Kanafani, dal nome dell’intellettuale palestinese portavoce del Fplp, ucciso nel luglio del 1972. Fu in questo clima che, il 15 settembre, giunse a Roma Yasser Arafat. L’aveva invitato Giulio Andreotti, in qualità di presidente dell’Unione interparlamentare. Il presidente del Consiglio Spadolini fu l’unico a rifiutarsi di incontrare il terrorista dell’Olp, che allora persino formalmente doveva ancora rinunciare alla lotta armata. I segretari dei tre principali partiti politici, Dc, Pci e Psi, dal canto loro, accolsero Arafat con gli onori di un capo di governo. Un articolo di fondo sul Manifesto, a firma di Valentino Parlato, paragonò Ariel Sharon ai capi nazisti Kesselring e Göring, perché a suo giudizio il “reale obiettivo israeliano” non era altro che “la ‘soluzione finale’ della questione palestinese: il massacro o la condanna alla diaspora di questi palestinesi, i veri ebrei del nostro tempo”. Un intellettuale come Lucio Lombardo Radice, all’epoca autorevolissimo membro del comitato centrale del Pci, scrisse che Israele stava mettendo in atto a Beirut ovest la strategia seguita per la liquidazione dei ghetti dell’Europa orientale nella Seconda guerra mondiale. E anche il celebre Fortebraccio scrisse che Menachem Begin e Ariel Sharon “somigliano a dei nazisti”. Era scontato che il Pci e i suoi dirigenti esprimessero contrarietà all’operazione politico-militare israeliana in Libano. Ma nel più grande partito della sinistra si impose con forza qualcosa di più: l’immagine dei “nazisionisti” e l’identificazione dell’ebreo con l’israeliano. Sulle pagine del Corriere della Sera Giuseppe Josca parlò di “soluzione finale”, mentre la Repubblica accusava Sharon di aver imposto al Libano il “nuovo ordine” d’Israele, con una chiara allusione al “nuovo ordine” di Adolf Hitler. Maurizio Chierici sul Corriere della Sera paragonò più volte l’assedio di Beirut alla liquidazione del ghetto di Varsavia e i comandanti militari israeliani a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia occupata. Lo stesso giornalista aveva già fatto ricorso a orrendi confronti di quel tipo, descrivendo la fuga della popolazione da Beirut con queste parole: “Viene in mente la fila delle vittime dell’assedio di Varsavia”. Sulla Stampa Giorgio Forattini raffigurava Hitler tra le fiamme dell’inferno mentre leggeva un quotidiano e diceva: “Vedrete che questi mi fregheranno anche i diritti d’autore”. Si può poi ricordare la copertina del mensile comunista Nuova Società, dove un ritratto di Begin era sovrapposto a bandiere naziste, e il titolo sovraimpresso recitava: “Beirut, soluzione finale”. La rivista satirica il Sale raffigura un Begin dall’incarnato giallognolo, le unghie come artigli, le mani insanguinate. Un mostro che si impone sullo sfondo di una Beirut in macerie e che incombe minaccioso sul cadavere insanguinato di un neonato. Un altro Forattini raffigura Begin seminudo, con la kippah e gli occhiali, e come Gesù porta la croce sulle spalle. La croce è però rovesciata, perché la sua punta, affilata tanto da sembrare una spada, gronda sangue. La didascalia recita: “Anch’io ho la mia croce”. Un’altra vignetta, tra le tante immagini disegnate da Forattini, mostra un Begin impiccato a un cedro, dalle cui tasche cadono delle monete, come Giuda, il traditore. Nelle strade d’Italia si aizzavano le masse contro gli ebrei. Durante l’imponente manifestazione promossa il 25 giugno 1982 dalla triplice sindacale contro Israele, nel passare sul Lungotevere nei pressi della sinagoga alcuni manifestanti gridarono slogan antisemiti e giunsero a depositare una bara davanti al muro dove erano apposte le lapidi che ricordavano gli ebrei romani trucidati alle Fosse Ardeatine. L’episodio fu denunciato pubblicamente dal rabbino capo di Roma, Elio Toaff. Al suo allarme seguì una risposta ambigua del segretario della Cgil, Luciano Lama, che giustificava l’accaduto e suscitò critiche tanto dure da costringere il segretario a un secondo intervento in cui corresse il tiro. Michele Magno, responsabile del dipartimento internazionale Cgil, ammise per primo la confusione ideologica da cui nasceva l’ostilità antiebraica. Non mancarono atti di ostilità contro singoli ebrei. Al teatro San Carlo di Napoli il giovane direttore d’orchestra Daniel Oren fu ripetutamente insultato da un gruppo di sindacalisti che lo infamarono al grido di “ebrei nazisti, massacratori, assassini”, mentre a Torino un ragazzo venne aggredito, insultato e pestato poiché portava addosso una catenina con la stella di David. A Milano la rappresentanza sindacale di un grande albergo – adducendo preoccupazione per “eventuali ritorsioni internazionali” – impedì lo svolgimento di un ricevimento di una famiglia ebraica. Il clima di antisemitismo indusse molte personalità ebraiche a prendere le distanze da Israele, secondo il vecchio adagio sovietico per cui erano da separare ebraismo e sionismo. Un noto appello “Perché Israele si ritiri” vide tra i firmatari (presto seguiti da altri mille) Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Luca Zevi. I promotori presero posizione “in quanto democratici ed ebrei”, con l’obiettivo di tutelare la democrazia israeliana da derive nazionaliste, e di sostenere una “convivenza pacifica con il popolo palestinese”. Affermarono che “la soluzione militare” scelta da Israele evocava “un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo”, facendo così un’implicita concessione alla retorica dei “nazi-sionisti”. Dura fu la risposta sul mensile Shalom di Sion Segre Amar, un celebre esponente della comunità ebraica di Torino, coraggioso corsaro sionista della prima ora condannato dal tribunale speciale fascista e gettato in cella assieme a Leone Ginzburg, che si recò anche a casa di Primo Levi per convincerlo a non portare ulteriori attacchi contro Israele. Rosellina Balbi denunciò con forza quel clima in un memorabile articolo sulla Repubblica: “Davide discolpati”. Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di molti ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione. Gli ebrei di Roma che conobbero di nuovo la violenza antisemita sul suolo italiano dopo il 1945 erano stati disumanizzati da anni di antisemitismo giornalistico e ideologico imbracciato pressoché da tutta la classe politica e sociale italiana, con qualche nobile eccezione a sinistra e fra i liberali. Bruno Zevi rivolse un famoso j’accuse alla classe politica e sindacale, per il modo in cui aveva reso omaggio al leader palestinese, che non aveva mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello stato d’Israele e si era speso, tramite la sua organizzazione, per promuovere atti terroristici contro israeliani ed ebrei. Ma anche e soprattutto ai mezzi d’informazione e agli intellettuali e giornalisti, che avevano contribuito a stimolare un clima antisemita. Una responsabilità collettiva ben sintetizzata da un manifesto, intitolato polemicamente “GRAZIE”, redatto dai giovani del Movimento culturale studenti ebrei, in cui era scritto in stampatello con un pennarello nero: “Ringraziamo la stampa: la Repubblica, l’Unità, Paese Sera, il Messaggero, l’Avanti, il Manifesto, Panorama, l’Espresso, il presidente Pertini, Andreotti, il Papa per i loro articoli e i loro incontri con Arafat. Questi hanno causato antisemitismo come durante il fascismo. Non desideriamo articoli di compassione”. Una ventina di giorni dopo alcuni militanti dei Gruppi comunisti metropolitani – una delle tante sigle dell’estremismo politico che affollavano quegli anni – marciarono sulla sinagoga di via Garfagnana, a Roma, e sul cancello impennarono la scritta: “Bruceremo i covi sionisti”. L’ultimo giorno di quell’anno di lutto il presidente della Repubblica Sandro Pertini si chiederà infastidito: “Ma cosa vogliono questi ebrei?”. Se il 16 ottobre 1943 è il giorno in cui gli italiani tradirono migliaia di connazionali ebrei diretti a Birkenau, il 9 ottobre 1982 deve essere ricordato come il giorno in cui l’Italia diede in pasto gli ebrei ai terroristi. A sparare furono i palestinesi di Abu Nidal. Ma ad avvelenare le coscienze fu la classe dirigente del nostro paese. Fu, in questo senso, un pogrom tutto italiano. Perché come avrebbe osservato Arnaldo Momigliano in un discorso pronunciato alla Brandeis University nel 1984, “sarebbe una follia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opinione pubblica”.
Giulio Meotti, Il Foglio, 18 maggio 2013

Questi i feriti:

Enrica Amati Moscati
Lello Anav
Anna Arbib
Jacqueline Arbib
Fabio Calderoni
Lucia Correale
Benedetto Carucci Viterbi
Renata Conforty Orvieto
Sandro Di Castro
Giuseppina Di Castro Fiano
Ester Di Segni
Rosa Di Veroli
Leonardo Donati
Lucienne Durso Levaccare
Mario Funaro
Elia Gerbi
Daniela Gaj
Rita Jonas
Nessim Hazan
Jole Marino
Giacomo Moscati
Nereo Musante
Giuditta Orvieto Pacifici
Nathan Orvieto
Joram Orvieto
Shulamit Orvieto
Leone Ouazana
Emanuele Pacifici
David Pacifici
Jonathan Pacifici
Alberto Pavoncello
Eliana Pavoncello Hazan
Elena Pelosio
David Piazza
Laura Piperno
Alba Portaleone Anav
Gabriele Sonnino
Giuseppe Baruch Sermoneta
Max Shamgar
Gadiel Tachè
Joseph Tachè

Poi, per chi ha qualche minuto in più, un mio post di tanti anni fa, il memorabile discorso di Bruno Zevi, quello di Gadiel Taché, fratello di Stefano,
SINAGOGA, COMEMMORATO ATTENTATO 1982 DOVE MORÌ GAY TACHÈ - FOTO 9
e una rievocazione ad opera di Focus on Israel.
(Perché anche qui, oltre a piangere, sarebbe il caso di provare a imparare qualcosa. E invece non si impara mai niente)

9-10-82
barbara

DAVIDE, DISCOLPATI!

Il celeberrimo, storico articolo scritto da Rosellina Balbi all’indomani della deposizione di una bara di fronte alla sinagoga di Roma, finalmente recuperato grazie al loro prezioso lavoro.

PROVATE ad immaginare per un momento che, nel settembre del 1939, scendessero in piazza a Berlino centomila persone per manifestare contro l’invasione della Polonia. E che un generale, già capo di Stato maggiore della Wehrmacht, protestasse pubblicamente per lo stravolgimento fatto da Hitler del ruolo dell’esercito, destinato, a giudizio del generale, esclusivamente alla difesa del suolo tedesco. E che un gruppo di soldati inviasse una lettera aperta ai giornali (e questi la stampassero), in cui le decisioni del governo venivano aspramente criticate. E che un movimento denominato «Pace, adesso» lanciasse lo slogan «Mai più una guerra come questa», riuscendo a mobilitare migliaia e migliaia di giovani.
E che un’altra organizzazione proclamasse di voler portare «aiuto umanitario» agli innocenti abitanti di Varsavia intrappolati dalla guerra. Confessiamolo: neppure la più sbrigliata inventiva da romanziere fantapolitico riuscirebbe a rendere credibile un simile «scenario». E tuttavia, in un paese che oggi molti definiscono «nazista», e al quale si attribuisce da tante parti la volontà di perpetrare un genocidio, in questo paese sono avvenute e stanno avvenendo cose come quelle che ho raccontate prima (traggo le informazioni dalla stampa francese, non certo sospetta di tenerezza verso la politica israeliana).

Pregiudizio sfavorevole
Basta sostituire ai polacchi i libanesi e i palestinesi, alla Wehrmacht le truppe di Israele, Tel Aviv a Berlino, Beirut a Varsavia e Begin – nientemeno – a Hitler. Per quale motivo, dunque, sono state riesumate (sia pure sull’onda dell’emozione di fronte a tanta tragedia) le vecchie parole legate all’orrore di quaranta anni fa? Perché la stella di Davide è stata presentata come una nuova croce uncinata? Perché, come ha scritto Alain Finkielkraut su Le Matin, nei confronti di Israele c’è come una «indignazione selettiva»? A leggere i giornali, osserva lo stesso Finkielkraut, si direbbe che «soltanto Israele versi il sangue nel Medio Oriente, che la guerra Irak-Iran sia stato un conflitto tutto da ridere, che fino alle ultime settimane il Libano fosse una Terra Promessa»; laddove in quel disgraziatissimo paese la guerra civile «ha fatto almeno cinque volte più vittime dell’invasione israeliana».
Naturalmente non è questione di contabilità (altrimenti si potrebbero ricordare, come ha fatto sull’Observer Connor Cruise O’ Brien, i ventimila morti provocati dall’assalto sferrato alla città siriana di Hama da parte delle truppe governative, nell’intento di sbarazzarsi dei ribelli armati mescolati alla popolazione civile). È invece questione di parole: che in questo caso sono più che pietre. «La funzione di uno scrittore è quella di chiamare “gatto” un gatto. Se le parole sono malate, spetta a noi guarirle». Lo ha detto Sartre (e lo ha ricordato Finkielkraut). Ora, mai come in questi giorni abbiamo ascoltato un così gran numero di parole «malate».
Nel Libano sono morte molte migliaia di persone innocenti – oltre ai combattenti palestinesi. È giusto provare per tutto ciò pietà, orrore, sdegno. Ma questo non autorizza, mi pare, l’uso del termine «genocidio». Finkielkraut osserva che «se Israele avesse perseguito il genocidio, non avrebbe invitato gli abitanti a lasciare le città libanesi, prima di effettuarne il bombardamento» (avvertimento che durante la seconda guerra mondiale non venne mai dato: non dai nazisti nel caso di Coventry, e neppure dagli alleati nei casi di Dresda, di Hiroshima e Nagasaki). lo vorrei sottolineare un’altra cosa: che sarebbe stato lecito paragonare Beirut, per l’appunto, a Dresda, ma non ad Auschwitz: che era, e resta, un’altra cosa.
Credo che il nocciolo della questione sia stato messo a nudo da Rossana Rossanda in un articolo apparso qualche giorno fa sul Manifesto: la pretesa, da parte dell’opinione pubblica europea, che Israele, e soltanto Israele, sia uno Stato «giusto». Se non si comporta come tale, ecco l’indignazione (selettiva). Non è una pretesa nuova: ricordo che anni fa se ne fece portavoce sulla Stampa Natalia Ginzburg, lamentando che gli israeliani, nel prendere le armi, avessero abbandonato la nobile tradizione ebraica della non-violenza. Ma è una pretesa insensata (lo ha osservato anche Rossanda). Stati «giusti» non esistono, e ancor meno Stati «innocenti». E così torniamo al punto di prima: perché solo Israele non viene giudicato con i criteri che si usano applicare agli altri Stati? Perché questo pregiudizio viscerale?
Si condanna la politica di Begin. D’accordo. La si giudica negativamente sul piano morale (un «delitto») e negativamente sul piano politico (un «errore»). D’accordo. Ma, per pronunciare questa condanna, bisognerebbe avere le carte in regola. Bisognerebbe ricordare «tutti» gli elementi del quadro, non solo quelli sfavorevoli a Israele. Bisognerebbe far presente, ad esempio, che la sovranità del Libano era da tempo una finzione; che nessun trattato di pace aveva messo fine alle ostilità tra arabi e israeliani; che da anni sulla terra d’Israele piovevano missili provenienti dal Libano; che in quel paese i palestinesi s’erano strettamente mescolati alla popolazione civile; che i palestinesi, ancora, hanno sempre rifiutato il diritto all’esistenza di Israele; che è stato questo rifiuto a impedire ai progressisti israeliani di far crescere il consenso popolare intorno a un progetto di trattativa politica: come diavolo si può negoziare quando l’interlocutore non esiste? E non è forse per questa «impasse» che Begin, e le forze che egli rappresenta, hanno finito per andare al potere?
Quando si è ricordato tutto questo – «solo» quando si è ricordato tutto questo – si ha il diritto, diciamo pure il dovere, di condannare Israele. Ma il pregiudizio sfavorevole è tale, che si sono addirittura passate sotto silenzio certe informazioni e si sono evitate certe analisi. Perché nessun giornale, o quasi, ha dato notizia del ritrovamento in Libano dei campi di addestramento per i terroristi europei? Forse perché ne avrebbe sofferto la divisione manichea tra «buoni» e «cattivi»? E perché si è taciuto del linciaggio, da parte palestinese, di piloti israeliani (le orrende immagini sono apparse nel Tg2)? E perché non si è messo più vigorosamente l’accento sulle responsabilità dei paesi arabi i quali – dopo aver invitato, nel 1948, gli abitanti arabi della Palestina a lasciare le proprie case – si sono poi rifiutati di assorbirli, li hanno rinchiusi nei campi sul confine israeliano e li hanno incitati alla guerra? E tanto poco li amano, che oggi non hanno mosso un dito per aiutarli, e magari sono lieti che Israele tolga le castagne dal fuoco per loro? Perché di tutto questo si tace? Scriveva nel 1976 lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt che lo Stato di Israele ha questo di peculiare: che «di fatto esiste, ma non sembra necessario a molti, anzi disturba sempre più, si vorrebbe che non esistesse; anche coloro che ne affermano l’esistenza sarebbero felici che non esistesse».

l buoni e i cattivi
Nell’articolo che ho citato più sopra, Rossana Rossanda si chiede per quale motivo, di fronte all’invasione israeliana del Libano, gli ebrei della Diaspora si sentano cosi terribilmente lacerati e coinvolti: “Io non mi sento che moderatamente responsabile di quello che fa Spadolini; e scrivere che l’Italia, oggi come oggi, un paese immondamente corrotto, non mi crea problema alcuno ( … ) perché dunque gli ebrei della Diaspora sentono una tragedia morale per quel che accade in Israele?»
Temo che la risposta sia, tutto sommato, semplice. Perché hanno paura. Perché, a «coinvolgerli», sono gli altri. Perché ogni deplorazione, ogni condanna della politica israeliana ha puntualmente provocato, in Europa, sussulti di antisemitismo. È accaduto in questi giorni in Inghilterra. È accaduto in Francia. È accaduto anche in Italia, dove – lo ha denunciato il rabbino Toaff – durante la recente manifestazione romana per lo sciopero generale «i dimostranti, sfilando o fermandosi davanti alla sinagoga, hanno gridato slogan diretti non solo verso il governo e lo Stato d’Israele, ma contro tutti gli ebrei in generale», portando addirittura una bara «proprio sotto alle due lapidi murate sulla facciata del tempio a ricordo degli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine ed a quelli caduti nella Resistenza».
Ed è grave che Luciano Lama, rispondendo a Toaff, dopo avere riaffermato che il movimento sindacale è nemico del fascismo e dell’antisemitismo, e dopo avere deplorato questi episodi, ha aggiunto essere comprensibile come, di fronte a ciò che accade nel Libano, «si sviluppi in vasti strati di cittadini e di lavoratori un sentimento di condanna politica e morale della linea brutale e aggressiva seguita dal governo Begin».

Guarire le parole
E questo, secondo Lama, dovrebbe giustificare gli insulti e le minacce al tempio ebraico? A quante chiese si sarebbe allora dovuto portar offesa nel corso della Storia, ogni qual volta il governo di uno Stato «Cristiano» assumeva iniziative deplorevoli? Perché confondere una religione con uno Stato? Lama non se ne è certo reso conto, ma queste sue parole sono pericolose. Sono, come avrebbe detto Sartre, «malate».
Ecco perché, amica Rossanda, gli ebrei della Diaspora si sentono coinvolti. Sul tuo stesso giornale non è forse apparso un articolo in titolato «Il Dio violento di Israele»?
Il Dio degli ebrei, dunque; il Dio di tutti loro, fuori e dentro lo Stato. Mi sbaglierò, ma dietro la «dichiarazione» contro Begin pubblicata su Repubblica, e firmata quasi esclusivamente da ebrei, c’è anche il timore, conscio o inconscio, di venire accomunati nella condanna della politica di Israele; e dunque il bisogno di dissociarsene, di far sapere che non tutti gli ebrei sono «cattivi».
Ha scritto ancora Durrenmatt: «In qualsiasi nome Israele venga condannato – in nome degli arabi, del blocco neutrale, dei progressisti, in nome della donna, dell’Unesco, forse presto anche in nome dell’Onu o addirittura anche in nome della libertà e della  giustizia – sono tutti nomi di cui si è fatto un cattivo uso, scarabocchiati da giudici disonesti su documenti falsificati». Scritti, per l’appunto, con parole «malate».
Perché non provare a «guarirle», queste parole? Ci si è provato l’altro giorno il vecchio Mendès France con il suo appello, in cui si auspica che venga finalmente intavolato un negoziato tra Israele e i palestinesi. Un appello che il consigliere politico di Arafat, lssam Sartoui, ha definito «pieno di saggezza». E, come è noto, lo stesso Arafat – sia pure in modo meno esplicito – sembra averne dato un giudizio analogo. Se le cose procederanno in questa direzione, qualche novità, psicologica e politica, potrà profilarsi anche all’interno di Israele.
Ecco: quello di Mendès è un tentativo di «guarire» le parole. E «guarire» le parole è un modo serio per cercar di «guarire» le cose. Di guarire questa ferita profonda, dalla quale è già sgorgato tanto sangue. Di far sì, soprattutto, che questo sangue non sia sgorgato inutilmente.
(Fonte: La Repubblica, 6 Luglio 1982)

E potrebbe essere stato scritto ieri…
Balbi
barbara