NEL NEGEV LE VIGNE ORA COPRONO IL DESERTO

IL PROGETTO HIGH TECH CHE HA PORTATO IL VINO NEL SUD D’ISRAELE

I gialli, gli ocra, i rossi, qua e là le macchie scure degli arbusti. Poi all’improvviso il verde che non ti aspetti, quello tenero e rigoglioso di un vigneto. Il deserto del Negev, che copre l’intero Sud di Israele, ha rappresentato sin dalla nascita dello Stato un incubatore di vita in condizioni difficili. Oggi dai suoi istituti di ricerca arrivano risposte alle sfide dello scombussolamento climatico. Come quella di crescere le vigne in condizioni di siccità. È la specialità di Aaron Fait, biochimico delle piante che, nato e cresciuto tra i monti di Bolzano, è a capo di un laboratorio dell’Istituto Blaustein per le Ricerche del Deserto di Sde Boker, uno dei campus dell’Università di Ben Gurion. A Sde Boker, Fait è arrivato una decina d’anni fa, dopo la laurea a Tel Aviv, il dottorato al prestigioso Weizmann di Rehovot, e il post-dottorato in Germania. «A fare la differenza nel mondo della ricerca israeliana sono la meritocrazia e l’investimento sui giovani, compresa la possibilità di uscire dal Paese, sapendo di avere un posto dove tornare e, magari, che lo Stato ti metterà a disposizione un milione di dollari per creare il tuo laboratorio, come è successo a me». Temperature che superano i 45 gradi, suolo salino, evaporazione media di 2 mila millimetri l’anno a fronte di piogge per meno di 100 sono i principali ostacoli per la viticoltura nel Negev. Per vincerli, Fait e la sua squadra reinventano una saggezza antica, declinandola nell’età dell’high-tech. «La vite è stata centrale nell’economia della regione per millenni grazie ad avanzate tecniche di conservazione dell’acqua – spiega, accogliendoci nel suo ufficio -. Con la conquista musulmana del VII secolo i vigneti sparirono per oltre mille anni. Furono i grandi filantropi del progetto sionista a riportare qui la viticoltura. A essere introdotto fu però il metodo francese, che presuppone u n clima mediterraneo. E così le coltivazioni sorsero a Nord e in collina. Solo di recente si è tornati a guardare al deserto». Negli ultimi anni la produzione di vino in Israele sta conoscendo una forte espansione- nel 2015 ha toccato i 40 milioni di bottiglie, 9 in più del 2014, e per il 2016 la cifra stimata è49 milioni. Dei 20mila acri coltivati a vigneti, solo 250 si trovano nel Negev. Ma – assicura Fait – il numero cresce esponenzialmente e il lavoro quotidiano del laboratorio rappresenta un virtuoso tandem pubblico-privato. «Collaboriamo con i vigneti commerciali – sottolinea lo scienziato -. Definiamo con le aziende l’esperimento: loro crescono le piante, noi andiamo sul campo a svolgere le misurazioni e ne condividiamo i risultati». Tra le tecniche messe a punto ci sono teli di nylon per proteggere il suolo dall’evaporazione, reti colorate sui grappoli per far passare soltanto la quantità di luce necessaria perché il frutto maturi senza bruciare e un’irrigazione intelligente basata sui bisogni della pianta, rilevati da appositi sensori. Le ricerche di Fait sono arrivate anche in Europa. Se in molte zone l’irrigazione dei vigneti in passa-to era considerata un tabù, i capricci del clima portano anche i più tradizionalisti a cambiare parere. «Per esempio in Friuli dagli anni 2000 ci sono state ricorrenti ondate di siccità che hanno messo le vigne a dura prova. Così é nato il progetto “Irrigate”, a cui abbiamo lavorato con l’Università di Udine e con Netafim, azienda israeliana leader nell’irrigazione a goccia». Anche se il legame con Italia rimane forte, a Fait il Negev é entrato nel cuore: «Lavorare nel deserto ha qualcosa di speciale. Quando esco dal laboratorio per una passeggiata, ho me stesso, il vento e basta. Una sensazione unica».

Rossella Tercatin, La Stampa, Tutto Scienze, 22 febbraio 2017
vigneti-negev
Concordo: camminare nel deserto, contemplare il deserto, respirare il deserto è veramente qualcosa di unico (che presto, molto presto, tornerò a rivivere).

barbara

 

I HAVE A DREAM – CINQUANT’ANNI DOPO

Sono passati cinquant’anni dalla giornata in cui 250mila persone si trovarono a Washington per chiedere uguaglianza, rispetto, un’America nuova, nella “Marcia per il lavoro e per le libertà”. Sono passati cinquant’anni da quando il pastore Martin Luther King, pronunciò quelle parole “I have a dream”, “Io ho un sogno”, capaci di plasmare il corso degli Stati Uniti d’America, e non soltanto. Sono numerose in questi giorni le celebrazioni di quel mercoledì 28 agosto 1963. Il Washington Post per esempio, ha pubblicato un editoriale dell’allora stagista, oggi direttore associato, Robert G. Kaiser, in cui viene riconosciuto il clamoroso “buco” preso dal giornale, che impiegò decine di reporter, talmente convinti di essere lì per documentare scontri e discorsi radicali, da non capire cosa stesse realmente accadendo: la frase “I have a dream” non comparì sul quotidiano del 29 agosto 1963, brevi stralci del discorso furono pubblicati solo nel quinto paragrafo di pagina 15. “Eravamo preparati a disordini, tumulti, eventi inaspettati. Ma non a coprire una pagina di storia” ha scritto Kaiser. Chi invece ha ricordato con orgoglio il proprio lavoro giornalistico durante quelle giornate è la stampa ebraica newyorkese. E così il Forward, versione in inglese dell’allora quotidiano yiddish Forverts, ha riproposto alcuni degli articoli pubblicati in quell’occasione. “La marcia verrà ricordata nella storia come la più potente dimostrazione di ascesa morale e virtù umana – scrisse il giornalista Moishe Crystal – Il lato ebraico è stato inoltre molto evidente e di impatto nella partecipazione a Washington”. Già perché furono tanti, più o meno noti, gli attivisti ebrei e i rappresentanti dalla comunità ebraica americana a fianco di Martin Luther King in quei giorni. Al presidente del Synagogue Council of America, il rabbino Uri Miller, fu affidata la formulazione della preghiera di apertura dell’evento “Signore D-o nostro, invochiamo la Tua benedizione per questo raduno di cittadini che si sono ritrovati qui a dimostrare per la libertà, il pane e la dignità degli uomini. Tu che hai messo in risalto che tutti gli individui sono uguali nel loro diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, rendici capaci attraverso questa manifestazione, di sensibilizzare tutta l’America, e specialmente coloro che si trovano in posizione di potere e autorità, al concetto dell’uguaglianza” invocò Miller.

E subito prima di Martin Luther King, a prendere la parola fu anche il presidente del Congresso ebraico americano, Joachim Prinz, già rabbino a Berlino e poi esule in America dalla Germania nazista “Mi rivolgo a voi come ebreo americano. Come americani, condividiamo la profonda preoccupazione di milioni di persone verso la vergogna e la disgrazia dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia che insultano la grande idea americana. Come ebrei, portiamo a questa manifestazione, dove migliaia di noi orgogliosamente partecipano, una duplice esperienza: quella del nostro spirito e quella della nostra storia – sottolineò Prinz – Quando ero rabbino a Berlino, sotto il regime di Hitler, imparai molte cose. Soprattutto che non sono intolleranza e odio il problema più grave, ma il silenzio. L’America non deve rimanere in silenzio. Non solo l’America nera, ma tutta l’America” (ascolta il discorso). Non fu invece invitato alla Marcia del 28 agosto il rabbino Abraham Joshua Heschel, che di lì a poco sarebbe diventato un caro amico di Martin Luther King e una figura fondamentale nella lotta per i diritti civili, mentre essenziale fu, dietro le quinte, il ruolo di Arnie Aronson: a casa sua, in segreto, si tennero le riunioni per organizzare la Marcia. Oggi gli Stati Uniti hanno eletto il primo presidente di colore e l’utilizzo del termine “negro” non viene più considerato accettabile. Una rivoluzione diversa e più dirompente dei tumulti che temeva il Washington Post in quel 1963, ma che ha ancora tanti passi da compiere, se è vero che un giovane afro-americano ha una percentuale di probabilità di finire in prigione infinitamente superiore a quella di un coetaneo bianco. Passi per i quali la Marcia per il lavoro e per la libertà continua a rappresentare un punto di riferimento. “Il discorso di King è stato talmente potente che nel tempo diventerà chiaro che ogni volta che qualcuno userà la frase ‘Io ho un sogno’ starà facendo riferimento a lui” concluse Crystal sul Forverts. Affermazione a dir poco profetica.
Rossella Tercatin (28 agosto 2013)

Ecco, ora la rievocazione di quello storico momento è completa (o almeno più completa di prima)

barbara

C’È ANCORA BISOGNO DI GIUSTI

(purtroppo)

Siria – La storia di una comunità salvata

“Non ci sono parole per descrivere le atrocità che vengono compiute in Siria. Non c’è nessuna considerazione per la vita”. I commenti alle notizie dal Medio Oriente che scorrono sulla televisione del salotto di Judy Feld Carr, ebrea di Toronto nata nel 1939, di professione insegnante di musica, sei figli, tredici nipoti, potrebbero essere quelli di chiunque. Ma Judy nelle vicende della Siria non è chiunque. Per quasi trent’anni della sua vita, solo apparentemente ordinaria, si è occupata di contrabbandare fuori dal paese oltre tremila ebrei, in una saga degna del miglior romanzo, ricordata negli scorsi giorni dal Times of Israel.
Tutto ebbe inizio a metà degli anni ’70. Una donna ebrea originaria di Aleppo che viveva a Toronto decise di tornare in patria a trovare il fratello rimasto laggiù. Imprigionata, riuscì in qualche modo a rientrare in Canada. Portando nascosta nella biancheria una lettera, che consegnò alla Feld Carr “Una lettera che mi sarei aspettata ai tempi della Shoah – ricorda la professoressa – Era stata scritta da tre rabbini della comunità ‘I nostri figli sono i tuoi figli. Tiraci fuori da qui’ ricordo che diceva”.
Ci vollero due anni per far fuggire la prima persona, dietro pagamento di un vero e proprio riscatto. Il Canada non aveva un’ambasciata a Damasco, quindi fu difficile trovare il modo di corrompere gli ufficiali siriani che potevano procurare i documenti di espatrio. Quel primo rabbino siriano scappato era già stato imprigionato e torturato, ed era malato terminale di cancro. Grazie a Judy, realizzò il sogno di bere un caffè in Israele con la madre 97enne. Poi espresse un altro desiderio “Porta via dalla Siria mia figlia”. E così la canadese si diede da fare per la ragazza, che all’epoca aveva diciannove anni (oggi vive a Bat Yam ed è nonna). E così uno dopo l’altro, con il sostegno economico della comunità canadese, Judy, senza mai mettere piede in Siria, ha fatto scappare 3328 ebrei sui circa 4600 che vivevano laggiù (la quasi totalità di restanti riuscì a fuggire con mezzi propri o con l’aiuto di Israele). Nel 2001, non rimanevano che poche decine di persone e la Feld Carr dichiarò conclusa la sua missione “Non ho mai chiesto a nessuno di partire, erano gli ebrei stessi che mi facevano pervenire le loro richieste di aiuto. A scegliere di rimanere sono state più che altro persone anziane”. Per 28 anni, l’opera di Judy, è rimasta “il segreto meglio tenuto della storia ebraica”. Nell’ultimo decennio la sua opera le è valsa diversi riconoscimenti. Solo poche settimane fa, il presidente israeliano Shimon Peres l’ha insignita della Presidential Award of Distinction, medaglia che onora “coloro che hanno fornito un eccezionale contribuito allo Stato d’Israele o all’umanità, attraverso le proprie capacità, servigi, o in qualsiasi altra forma”. Nella stessa sera, la salvatrice era stata invitata dalla regina Elisabetta d’Inghilterra a ricevere la Diamond Jubilee Medal, ritirata poi da una delle figlie. Eppure Judy continua a guardare alla sua impresa con modestia. Con la maggior parte delle persone che ha salvato non è mai entrata in contatto diretto (“Insisterebbero per offrirmi cene lussuose e doni, anche senza poterselo permettere, e non è quello che voglio”). Ma commentando ancora quello che sta succedendo in Siria oggi c’è un pensiero che non riesce a togliersi dalla testa. “Non posso pensare a cosa sarebbe successo con una comunità di tremila persone da usare come ostaggio…”.

Rossella Tercatin

Tragico, che ci sia ancora bisogno di giusti. Miracoloso, che ce ne siano.
              
Judy Feld Carr                                 Scuola Maimonide, Damasco 1991 

barbara

DEL TITANIC E DI ALTRE STORIE

Il Titanic, Pesach e il Brit Milah

Esattamente cento anni fa, il Titanic, l’inaffondabile, navigava in mezzo all’oceano Atlantico, per il suo primo (e ancora non si sapeva, ma ultimo) viaggio da Southampton a New York.
A ricordarcelo sono programmi televisivi, articoli di giornale, il colossal di James Cameron con Leonardo di Caprio e Kate Winslet che 15 anni dopo è tornato al cinema in versione 3D. A ricordarmelo, durante questi giorni di Pesach, è stato anche il discorso del rav Avraham Hazan in occasione del secondo giorno di Moed. Il rav è partito dal fatto che la cerimonia del Brit Milah è, insieme al Seder di Pesach, l’unico momento in cui è previsto l’arrivo di Eliyahu HaNavì, il profeta Elia, e ha raccontato una storia che del significato di questa mitzvah è intrisa. Una storia originariamente pubblicata sul libro “In Titanic: Women and Children First” (Sul Titanic: prima donne e bambini) di Judith B. Geller.
Il Titanic lasciò il porto di Southampton il 10 aprile 1912, il giorno dopo la fine di Pesach 5762. A bordo, in terza classe, anche Leah Aks, 18 anni e il suo bimbo di dieci mesi Philip. Nata in Polonia, Leah partiva per raggiungere il marito Sam negli Stati Uniti. Quando in quella terribile notte del 14 aprile i membri dell’equipaggio aprirono finalmente i cancelli della terza classe per far passare donne e bambini, Leah e Filly riuscirono a raggiungere il ponte per cercare salvezza sulle scialuppe. Ma mentre stavano per imbarcarsi, un uomo, impazzito, strappò il bambino dalle braccia della madre, e urlando “Ora ti faccio vedere che significa prima donne e bambini”, gettò il piccolo fuoribordo. Leah, distrutta, fu spinta su una scialuppa. Alcune ore dopo, la nave Carpathia, arrivò a raccogliere i sopravvissuti. Passarono due giorni. Leah stava facendo un giro sul ponte dove un’altra passeggera l’aveva convinta a salire per prendere un po’ d’aria, quando sentì il pianto di un bambino. Suo figlio. Senza che lei lo sapesse infatti, Filly era caduto su una scialuppa, direttamente fra le braccia di una donna italiana, Argene Del Carlo, sposata da pochi mesi e incinta. Al marito non era stato permesso seguirla e Argene si convinse che quel bambino le fosse stato mandato per compensarla della perdita del marito e perché il piccolo che portava in grembo avesse un fratellino. Quando Leah reclamò suo figlio, la donna rifiutò di restituirglielo e il caso finì davanti al Capitano della nave che si trovò, come Salomone, a dover decidere chi fosse la vera madre. Ma Filly era circonciso, come solo un bambino ebreo poteva essere: così fu restituito a Leah, che poté ricostituire la sua famiglia. Nove mesi più tardi, al piccolo nacque una sorellina, che i genitori decisero di chiamare Sara Carpathia in onore della nave della salvezza. Ma all’ospedale le infermiere si confusero e registrarono la bambina come Sara Titanic Aks.
A bordo del Titanic c’erano 2207 passeggeri e 1178 posti sulle scialuppe di salvataggio. Molte di esse però si riempirono solo a metà, e così i superstiti furono solo 705. A perire nel naufragio furono anche molti personaggi illustri. Tra questi Isidor Straus, comproprietario del famoso grande magazzino Macy’s e fidato consigliere del presidente americano Grover Cleveland. Isidor e la moglie erano amati e rispettati nella comunità ebraica newyorkese per le loro opere filantropiche a favore di tutte le istituzioni cittadine, e per l’aiuto che offrivano agli immigrati che giungevano in America dall’Europa dell’Est per adattarsi alla nuova vita.
“La loro vita fu bella, e la loro morte gloriosa” recita la targa che i dipendenti di Macy’s dedicarono loro.

Rossella Tercatin (pubblicato in moked)


Vedete che è vero che, come ho sempre detto, la circoncisione fa bene alla salute.
Qui c’è una tabella con dati interessanti:

E poi naturalmente, inevitabilmente, irrinunciabilmente, questo:

barbara