Questa è Rehelim, nella regione di Samaria,
qui in una visione più ampia.
Qui non c’era niente fino al 27 ottobre 1991, solo la Strada 60. Sulla quale, quel giorno, transitavano alcuni autobus con comitive di israeliani di Giudea e Samaria, diretti a Tel Aviv per protestare contro i negoziati di Madrid (quelli che avrebbero portato due anni dopo ai famigerati accordi di Oslo destinati a scatenare la peggiore catastrofe nella storia di Israele. E mi ricordo la mia collega A., con un ghigno sarcastico da dare i crampi allo stomaco: “E adesso che gli israeliani sono stati taaanto buooooni da accettare di trattare coi palestinesi, anche noi dovremo essere tanto buoni da perdonare oltre trent’anni di crimini e di infamie”). Quel giorno di ottobre, dicevo. E quelle comitive. E quegli autobus. Fu esattamente in questo punto che uno degli autobus fu attaccato da terroristi palestinesi. L’autista Yitzhak Rofeh, di Gerusalemme, e Rachel Drouk, di Shilo, rimasero uccisi. Il giorno dopo i funerali di Rachel, donne da tutta Giudea e Samaria giunsero qui, montarono delle tende e vi si insediarono, nonostante la disapprovazione ufficiale. Per molto tempo vissero qui solo donne e bambini, e solo in un secondo tempo divenne un insediamento normale, che nel 1999 ottenne finalmente il riconoscimento statale. Le donne giunte con le tende (le donne! E pensare che c’è chi, per lodare il carattere, la forza, la determinazione di qualcuno, non trova di meglio che dire che “ha le palle!” Faites moi rire) decisero di chiamare questo posto Rehelim, plurale di Rachel: per Rachel Drouk, per Rachel Weiss, uccisa il 30 ottobre 1988 in un attacco con bombe molotov all’autobus su cui viaggiava, targeted by militants, scrive con pudore wikipedia, che provocò cinque morti e cinque feriti, e per la matriarca Rachele.
A Rehelim si arriva costeggiando Itamar (dove abbiamo potuto vedere, sia pure da lontano, la casa del massacro) e salendo poi per ammirare questo panorama.
E questa è Vered
nata a Gerusalemme da genitori olandesi: padre ebreo, figlio di sopravvissuti alla Shoah, madre cristiana successivamente convertita. Lei e il marito Erez Ben Sa’adon, nato a Gerusalemme da genitori provenienti dal Marocco e dall’Iran, nel 1997, pochi mesi dopo il matrimonio, investono il denaro ricevuto come regali di nozze nell’acquisto di alcuni acri nel villaggio di Brakha,
su cui impiantano dei vigneti, vendendo poi l’uva ad alcune cantine; col nascere dei movimenti BDS le cantine cedono alle pressioni degli acquirenti europei e rifiutano di acquistare dai “territori”, così l’intraprendente coppia decide di produrre il vino da sé: seguono un corso di vinificazione e nel 2003 aprono la cantina Tura a Rehelim, una decina di chilometri più a sud, con quattro botti, per poi giungere, nel 2010, a una produzione di 12.000 bottiglie l’anno e a numerosi riconoscimenti internazionali per la qualità dei loro vini. Naturalmente subiscono le consuete distruzioni di vigne da parte degli arabi, ma loro continuano imperterriti, non senza impegnarsi a rispettare il precetto “crescete e moltiplicatevi”.
E questi siamo noi,
seduti ad ascoltare Vered e poi a degustare questi vini assolutamente straordinari. E l’olio: un olio speciale, a bassissima acidità, del quale aveva preparato un vassoio con dei micro bicchierini, invitandoci ad assaggiarlo. Quasi tutti hanno fatto una faccia strana: bere l’olio?! Io invece ci ho provato: prima ho intinto la punta della lingua e ho sentito una cosa molto diversa da quella che si sente quando si ha l’olio sulla lingua, ossia quella fastidiosissima patina oleosa: ecco, quella non c’era. E allora l’ho bevuto e, per quanto buffo possa sembrare, era buono! Aveva un che di leggero, come se fosse un olio poco olio, ecco (poi l’ha assaggiato anche l’uomo dei gatti, che era seduto al mio fianco e mi serviva come un autentico cavaliere, e ha confermato le mie sensazioni). E insomma sono uscita di lì pienamente soddisfatta. E qui finisce la storia di Vered insieme a tutte le altre storie.
barbara