CHI HA UCCISO GIOVANNI FALCONE

Tutti i nemici di Falcone (oltre a Cosa Nostra)

Il giudice fu massacrato da colleghi, giornalisti e politici di vari schieramenti. Gli stessi che oggi lo piangono

C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte dai vicini di casa di Giovanni Falcone – in via Notarbartolo, dove ora c’è «l’albero Falcone» – che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e il timore che un attentato potesse  coinvolgerli. 
C’erano gli articoli di Vincenzo Vitale, Vincenzo Geraci, Lino Iannuzzi, Guido Lo Porto, Salvatore Scarpino e Ombretta Fumagalli Carulli (Giornale di Sicilia, Giornale, Il Roma, Il Sabato) che in tutti i modi possibili attaccarono il maxi-processo che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. 
Ha raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta».

Attacchi politici – Poi, il 16 dicembre 1987, quando la Corte d’assise comminò a Cosa Nostra 19 ergastoli, ci furono gli attacchi democristiani e socialisti che giunsero ad accusare Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito Ciancimino non migliorò le cose. Poi, il 19 gennaio 1988, mentre tutti attendevano la nomina di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo, ci fu lo sfregio del Csm che gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità: i consiglieri di destra e di sinistra votarono tutti contro di lui a eccezione di Giancarlo Caselli. Dirà Francesco Misiani, storico esponente di Magistratura democratica: «Falcone non fu compreso a sinistra, lui che era l’unico che aveva percepito realmente la mafia come un’articolazione dello Stato». Tra gli affossatori di Falcone si distinse Elena Paciotti, futuro presidente dell’Associazione magistrati nonché europarlamentare Ds.
Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra: parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Per Falcone fu una delegittimazione terribile, proveniente dai livelli più alti: di lì in poi i nemici spunteranno come scarafaggi. 
Poi ci fu il primo attentato, quello dell’Addaura: era il 20 luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in affitto. Verso mezzogiorno la scorta ritrovò in spiaggia una borsa con 58 candelotti di esplosivo. Al di là di una rinnovata e fumosissima inchiesta della Procura di Caltanissetta, sull’attentato si è già espressa la Cassazione il 19 ottobre 2004: condanne a 26 anni per Totò Riina e altri boss e responsabilità attribuita a Cosa Nostra, punto. Le pagine della Cassazione mettono nero su bianco anche quello che viene definito «l’infame linciaggio» di Falcone, che in buona sostanza fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo.

«L’avvertimento» – Gerardo Chiaromonte, comunista e defunto presidente dell’Antimafia, scrisse che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». La sentenza della Cassazione fa anche altri nomi: tra questi i giudici Domenico Sica, Francesco Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori: chi più e chi meno, misero tutti in dubbio un attentato che in molti cercarono di derubricare a semplice avvertimento. 
Poi, appunto, ci fu il voltafaccia orribile di Leoluca Orlando, che abbiamo già raccontato domenica scorsa: il sindaco di Palermo s’inventò che Falcone proteggeva Andreotti e disse pubblicamente, soprattutto a Samarcanda di Michele Santoro, che il giudice teneva nascosta nei cassetti una serie di documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovrà addirittura discolparsi davanti al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Cossiga, Falcone ne uscì in lacrime. 
Poi ci fu Falcone che decise di accettare l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli per dirigere gli Affari penali al Ministero. L’obiettivo del magistrato – la creazione di nuovi strumenti come la Procura nazionale antimafia – gli valse l’accusa di tradimento e megalomania da parte degli stessi ambienti che oggi commemorano Falcone come un vessillo di loro proprietà. Non aiutò che Falcone – come dimostra il libro La posta in gioco, interventi e proposte, da poco ristampato – si dimostrasse disponibile a discutere di separazione delle carriere dei magistrati e indisponibile invece a sostenere l’esistenza di un fatidico terzo livello mafioso. Scrisse amaramente Gerardo Chiaromonte ne I miei anni all’antimafia: «Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Claudio Vitalone che faceva da tramite».

Prima le toghe – Furono i suoi colleghi a scagliarsi per primi contro Falcone. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse efficacemente la cronista Liana Milella, ai tempi amica del magistrato. Giacomo Conte, già componente del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno 1991 definì il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». Nel notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre 1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della magistratura», dunque si prospettava un «disegno di ristrutturazione neoautoritaria». 
La vera coltellata fu però la pubblica lettera – indirizzata teoricamente al Guardasigilli  – che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi  in data 23 ottobre 1991.  
Poi c’erano i giornalisti, c’erano gli articoli del Giornale di Napoli: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». C’era Raitre con Corrado Augias, che si rivolse a Falcone ospite in studio: «Non voglio dire che lei ci abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia…». C’era Repubblica con questo incredibile commento di Sandro Viola del 9 gennaio 1992: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera… Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi a uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico… non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo, non ne faccia la sua professione definita, abbandonando  la magistratura. Scorrendo il suo libro-intervista, s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. La fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini del suo libro».

La fama «usurpata» – E c’era l’Unità con Alessandro Pizzorusso, 12 marzo 1992: «Falcone superprocuratore? Non può farlo… Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia». Sul Resto del Carlino, nello stesso giorno, si giunse a sostenere che secondo il Csm «la sua fama di magistrato antimafia è semplicemente usurpata».
Poi, purtroppo, contro Falcone c’era persino la mafia. Ha raccontato Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone, scritto con Saverio Lodato nel 1999: «Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta… Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982». 

I vicini di casa, i colleghi magistrati, persino gli amici, poi i giornalisti, persino i mafiosi. Parrà strano, ma dopo tutto questo, e prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone era ancora vivo. 

di Filippo Facci (qui)

E qui il testo completo dell’immondo articolo di Sandro Viola (leggetelo tutto. Con cura. Ma prima assicuratevi di avere a portata di mano un’autobotte di Maalox).

FALCONE CHE PECCATO


barbara

QUEL GUITTO…

Abbiamo recuperato l’introvabile articolo di Sandro Viola che nel gennaio 1992 si scagliava contro Giovanni Falcone, accusandolo di essere un “guitto televisivo”. Qualche giorno dopo sullo stesso giornale Giuseppe D’Avanzo difendeva il giudice antimafia: “Non ha mai avuto una vita facile”.
  

È il 9 gennaio del 1992, un giovedì. Il quotidiano la Repubblica in quel periodo vende mediamente circa 750mila copie. Nella pagina dedicata ai commenti viene pubblicato un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” vergato da Sandro Viola, firma di punta del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L’argomento del commento è il giudice antimafia che Viola prende di mira per via della sua esposizione mediatica. Un pezzo durissimo che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritorna a galla con la violenza d’una colpa.
L’articolo, introvabile nell’archivio online di Repubblica, è oggetto di discussione in queste ore sulla Rete, ma nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore un’autonoma valutazione.
Eccolo, l’articolo, in versione integrale: recuperato grazie all’Emeroteca Tucci di Napoli. Che ognuno faccia le sue valutazioni dopo averlo letto.
Viola attacca definendo Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione quanto meno riduttiva per l’anima del maxi-processo di Palermo, per colui che, lo dicono i suoi colleghi magistrati, individuò nuove tecniche e nuovi metodi per l’approccio alla questione mafiosa. Continua Viola: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato”.
Poi, l’accusa di essere diventato una sorta di esternatore, al pari dell’allora Capo dello Stato, il “picconatore” Francesco Cossiga: “Egli è stato preso – scrive Viola su Repubblica – infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”.
La preoccupazione dell’editorialista è che Giovanni Falcone abbia perso il suo equilibrio. Gli chiede di lasciare la magistratura viste le sue rubriche sulle pagine dei giornali: “Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”.
“Quel che temo, tuttavia – continua il pezzo – è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Poi si passa all’analisi, anzi alla demolizione, del libro ‘Cose di cosa nostra’ scritto da Falcone con la giornalista francese Marcelle Padovani pure lei nel mirino della penna al vetriolo di Viola: “E scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”.
Nel finale, Viola, pur ammettendo di trovarsi davanti ad un “valoroso magistrato” si chiede “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista ignorava che il giudice aveva intuito qualcosa: la necessità di comunicare ad una platea più vasta, da magistrato, la mentalità mafiosa. Inoculare il virus ai giovani, come come un vaccino, in maniera da renderli resistenti al fascino della cultura dell’omertà e della morte. “Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”: qualche giorno dopo, dalle colonne della stessa Repubblica, qualcuno scriveva questa frase, riferendosi a Giovanni Falcone. Quel qualcuno si chiamava Giuseppe D’Avanzo.

Curiosa la storia di questi articoli che scompaiono dagli archivi, vero? E sembra scomparso anche l’articolo, sempre di Sandro Viola, del 20 gennaio 2002 di cui si parla qui, e a cui qualcuno ha risposto con la testimonianza riportata qui, e pure un autentico distillato di antisemitismo del 10 ottobre 1982. Tutti gli altri articoli si trovano, e questi no. Misteri della rete…

barbara