MEMORIA CORTA

Memoria corta 1
Germania 1918. La prima guerra mondiale è finita, e chi si è trovato dalla parte sbagliata devo pagare un prezzo molto alto: l’impero asburgico viene smembrato e cessa di esistere, l’impero ottomano viene smembrato e cessa di esistere, ma il prezzo più alto lo paga la Germania: la Germania, oltre che per la guerra voluta e persa, deve pagare anche per un’altra “colpa”: quella di essere lo stato contro cui nel 1870 la Francia era partita al grido di “A Berlino! A Berlino!” e una settimana dopo i tedeschi erano a Parigi. E alla Francia non bastava la punizione per i danni provocati dalla prima guerra mondiale, e non bastava neppure la vendetta: la Francia ha preteso, e ottenuto, l’umiliazione totale, la perdita totale della faccia, la perdita di ogni dignità. Il nazismo è figlio di quell’umiliazione. Hitler è figlio di quell’umiliazione. La Germania pressoché compatta intorno a lui è figlia di quell’umiliazione perché nessuno stato, e nessun cittadino di uno stato, può convivere con una simile umiliazione. Farebbe bene a ricordarlo chi non si accontenta di fermare Putin (anzi, a fermarlo non ci pensa neppure: al contrario, non fa altro che buttare benzina sul fuoco, a secchiate, per far divampare la guerra nel modo più virulento, e farla durare il più a lungo possibile, e renderla il più cruenta e sanguinosa possibile), non si accontenta di punirlo, non si accontenta di vendicarsene, ma cerca ogni modo possibile per umiliarlo. Con la riscossa della Germania non è andata a finire troppo bene.

Memoria corta 2
Unione Sovietica 1941. I lager disseminati in tutta la Siberia e le prigioni sparse in tutta l’Unione Sovietica traboccano di prigionieri. Molti sono innocenti arrestati e condannati con un pretesto, a volte senza neppure quello, ma non pochi sono dissidenti veri, odiano il comunismo, odiano Stalin, odiano tutta la baracca. Ma nel momento in cui Hitler sferra l’attacco, l’intero stato si compatta, non ci sono pacifisti a oltranza, non ci sono renitenti, molti prigionieri del Gulag chiedono di essere mandati al fronte a combattere per la Santa Madre Russia aggredita. Farebbe bene a ricordarsene chi si augura caldamente e insistentemente che qualcuno faccia fuori Putin in modo da risolvere il problema una volta per tutte: tolto di mezzo Putin, resta il popolo russo, quello di Stalingrado e Leningrado, quello che va a teatro vestito da lavoro, appena uscito dalla fabbrica, anche se provvisto unicamente di studi elementari, quello che nella metropolitana legge. Chi ha sfidato la Russia, sotto lo zar o sotto il Soviet Supremo, si è sempre trovato di fronte, oltre all’esercito, tutto il popolo russo compatto, dissidenti compresi.

Memoria corta 3
Israele 1967. Israele è accerchiato, tutto intorno ha nemici che lo odiano e vogliono distruggerlo. Nel Sinai ci sono i caschi blu dell’Onu per impedire scontri fra Egitto e Israele, ma Gamal Abdel Nasser, quando – dopo anni di guerriglia e scaramucce e attacchi terroristici e incursioni di ogni genere – si sente pronto per attaccare il vicino e dargli la botta finale, ordina all’Onu di rimuoverli e l’Onu, nella persona del Segretario Generale U’Thant, obbedisce immediatamente. Quando tutto è pronto per attaccare Israele, allo scopo dichiarato di distruggerlo e “ributtare i sionisti a mare”, quest’ultimo anticipa di qualche ora le mosse del nemico e attacca per primo, salvando così l’esistenza dello stato e la sopravvivenza degli ebrei che ci vivono. Da allora, da 55 anni, continuiamo a sentire il mantra che “Israele è l’unico colpevole della guerra perché ha sparato per primo”. La situazione non è identica, la Russia non stava correndo pericoli immediati (sono però identici i precedenti, di attacchi sistematici con molte migliaia di morti), ma credo che chi da una vita segue le vicende di Israele e combatte contro la sistematica disinformazione su di esso, dovrebbe almeno usare qualche cautela nei confronti di chi argomenta l’assoluta ed esclusiva colpevolezza della Russia col fatto che “ha sparato per prima”.

Memoria corta 4
Onu 1967-giorni nostri. La pioggia, la raffica, la grandine di risoluzioni di condanna da parte dell’Onu, compatta come un sol uomo, contro Israele, è iniziata più o meno con la guerra dei Sei giorni, e a ogni nuova risoluzione di condanna noi, amici e amanti di Israele, mostriamo indignati e inorriditi i tabelloni delle votazioni con quei numeri scandalosi, la quasi totalità a favore della condanna, le decine di astenuti e le unità di contrari, inveendo contro l’osceno baraccone. È passata qualche manciata di mesi dall’ultima di queste vergognose risoluzioni, e vediamo ostentare, trionfalmente, il tabellone che riporta che “141 Paesi a favore, 5 contrari e 35 astenuti: L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato per condannare la Russia”: e dunque l’Onu non è più un osceno baraccone? Le stesse, identiche, percentuali bulgare, sono diventate motivo di vanto? Il voto dell’Onu pilastro portante della giustezza della propria posizione come prima lo era per Paesi islamici e comunisti odiatori di Israele? Occhio ragazzi, che l’amnesia è una malattia pericolosa.

Aggiungo – e poi per oggi mi fermo (quasi) – il discorso del ministro degli esteri della Federazione Russa, Sergej Viktorovič Lavrov pubblicato sul sito dell’Ambasciata russa in Italia

“Per molti anni l’Unione europea, mascheratasi da “pacificatore”, ha generosamente finanziato il regime di Kiev, che è salito al potere come risultato di un colpo di stato anticostituzionale. Ha osservato in silenzio lo sterminio della popolazione nel Donbass e lo strangolamento dei russofoni in Ucraina. L’UE ha ignorato i nostri continui appelli per attirare l’attenzione sul dominio nazista sui vertici dell’Ucraina, sul blocco socio-economico e sull’uccisione di civili nel sud-est del paese. Avendo legato tutte le prospettive delle relazioni con la Russia all’attuazione del pacchetto di misure di Minsk, non ha fatto nulla per incoraggiare Kiev a iniziare ad attuarne i suoi elementi chiave. Allo stesso tempo, ha concesso denari ai vertici di Kiev e l’eliminazione del regime dei visti. Hanno esteso le sanzioni anti-russe con pretesti dubbi. Ha partecipato alle rappresentazioni organizzate da Kiev mettendo in discussione l’integrità territoriale della Federazione Russa.
Ora, però la maschera è caduta. La decisione dell’UE del 27 febbraio di iniziare a fornire armi letali all’esercito ucraino è un’autodenuncia. Segna la fine dell’integrazione europea come progetto “pacifista” per riconciliare i popoli europei dopo la Seconda guerra mondiale. L’UE si è definitivamente schierata con il regime di Kiev, che ha scatenato una politica di genocidio contro parte della sua stessa popolazione.
Nelle sue azioni antirusse Bruxelles è arrivata, senza nemmeno accorgersene, a usare la “neolingua” orwelliana. Ha annunciato che “investiranno” nella guerra scatenata in Ucraina nel 2014 attraverso un meccanismo chiamato Fondo Europeo per la Pace”. La leadership dell’UE non ha esitato a includere missili e armi leggere, munizioni e persino aerei da combattimento tra i mezzi “difensivi”.
L’UE ha mostrato quanto vale veramente la supremazia del diritto in Europa ignorando tutti gli otto criteri della propria “Posizione comune” del Consiglio UE 2008/944/CFSP dell’8 dicembre 2008 “Sulla definizione di regole comuni per controllare l’esportazione di tecnologia e attrezzature militari”, che vieta espressamente l’esportazione di armi e attrezzature militari dall’UE nelle seguenti situazioni:
1. inosservanza degli obblighi internazionali da parte del paese di destinazione (Kiev ha ignorato i suoi obblighi derivanti dal pacchetto di misure di Minsk, approvato dalla risoluzione 2202 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite);
2. mancato rispetto dei diritti umani, compreso il rischio che le armi siano usate per la repressione interna (nel Donbass, Kiev stava commettendo un genocidio);
3. conflitto armato nel paese di destinazione e rischi di sua escalation a seguito del trasferimento di armi;
4. minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità regionali, compresa la possibilità di un conflitto armato con un paese terzo;
5. rischio per la sicurezza nazionale dei paesi dell’UE (le armi fornite possono essere utilizzate contro gli interessi dei paesi dell’UE);
6. la politica del paese ricevente, compreso il rispetto del principio di non impiego della forza, del diritto internazionale umanitario, così come del regime di non proliferazione nell’ambito del controllo delle armi (non crediamo che Kiev sia stata esemplare nell’adempimento di questi obblighi, anche in considerazione dei noti casi di commercio in nero di armi dall’Ucraina);
7. Il rischio che le armi cadano nelle mani sbagliate, comprese le organizzazioni terroristiche (data la distribuzione incontrollata di armi in Ucraina alla popolazione, è quasi certo che alcune di esse finiranno sul mercato illegale);
8. equilibrio tra militarizzazione e sviluppo economico del paese acquirente (crediamo che Kiev dovrebbe preoccuparsi più dell’economia ucraina che della repressione dei dissidenti con la forza).
I cittadini e le strutture della UE coinvolti nella fornitura di armi letali e di carburante e lubrificanti alle Forze Armate Ucraine saranno ritenuti responsabili di qualsiasi conseguenza di tali azioni nel contesto dell’operazione militare speciale in corso. Non possono non capire il grado di pericolo delle conseguenze.
È stato finalmente sfatato un altro mito che era stato propagato dall’UE in passato e cioè che le restrizioni unilaterali della UE, illegittime secondo il diritto internazionale, non fossero dirette contro il popolo russo. I funzionari di Bruxelles, che fino a poco tempo fa si dipingevano come “partner strategico” del nostro paese, ora non si fanno più scrupoli a dire che intendono infliggere “il massimo danno” alla Russia, “colpire i suoi punti deboli”, “distruggere la sua economia sul serio” e “impedire la sua crescita economica”.
Vogliamo assicurarvi che non sarà così. Le azioni dell’Unione Europea non resteranno senza risposta. La Russia continuerà a perseguire i suoi interessi nazionali vitali a prescindere dalle sanzioni e dalle loro minacce. È ora che i paesi occidentali capiscano che il loro dominio indiviso nell’economia globale è da tempo cosa del passato. (Qui)

Chi dovesse trovare eccessivo l’utilizzo del termine “genocidio”, ascolti queste parole del giornalista Bogdan Butkevich, a una televisione nazionale Ucraina, il 31 luglio 2014

Per chi, oltre che con l’ucraino, avesse problemi anche con lo spagnolo, traduco qui il testo in sovraimpressione:
“Lei mi ha chiesto come è possibile. È possibile perché il Donbass, in generale, non è solo una regione depressiva. Ha un insieme di problemi molto grandi, e il più grande di questi problemi è la brutale quantità di gente inutile. Mi creda, so di che cosa sto parlando. Parlando della regione del Donetsk, la sua popolazione conta approssimativamente 4 milioni di abitanti. Almeno un milione e mezzo di essi sono persone assolutamente inutili. Quello che voglio dire è che non dobbiamo cercare di capire il Donbass. Dobbiamo occuparci degli interessi nazionali dell’Ucraina,e il Donbass dobbiamo utilizzarlo come una risorsa… Quanto alla comprensione del Donbass, io non ho una ricetta di ciò che si può fare lì a breve termine, ma la cosa principale che bisogna fare, per quanto possa suonare crudele, è che esiste una certa categoria di persone che, semplicemente, devono essere assassinate”.

Buon divertimento, amici dell’Ucraina.
E ora, visto che non li fanno più gareggiare (sì, lo so, è solo per una questione di principio, non fatevi la strana idea che sia anche – almeno anche – perché tre quarti delle medaglie le vincono loro), li ospito io.

barbara

Тёмная ночь (TIOMNAJA NOCH, NOTTE BUIA, 1942)

Finalmente sono riuscita a trovare queste due canzoni

Notte buia, solo proiettili che fischiano attraverso la steppa,
solo il vento canticchia nei fili, le stelle brillano debolmente.
In una notte buia, tu, amore, sai, non stai dormendo,
e segretamente asciughi una lacrima dalla culla.
Quanto amo la profondità dei tuoi teneri occhi,
come voglio premerli alle mie labbra adesso!
La notte oscura è divisa, amata, da noi,
e una fastidiosa steppa nera giace tra noi.

Credo in te, nella mia cara amica,
Questa fede mi ha tenuto lontano da una pallottola in una notte oscura …
Fortunatamente per me, sono calmo in una battaglia mortale.
So che mi incontrerai con amore, cosa mi succederebbe.
La morte non è terribile, l’abbiamo incontrata più di una volta nella steppa,
e ora mi gira sopra …
Stai aspettando me e tu non dormi alla culla,
e quindi, so che non mi accadrà nulla!

Журавли (JURAVLI, GRU)

A volte mi sembra che i soldati
Dai campi sanguinosi che non sono venuti
Non una volta cadde nella nostra terra,
E trasformato in gru bianche.
Sono ancora dal tempo di quelli lontani
Volano e ci danno voti.
Non perché così spesso e triste
Stiamo zitti guardando il cielo?
Vola, vola nel cielo stanco,
Vola nella nebbia alla fine della giornata,
E in quell’ordine c’è un piccolo spazio,
Forse questo è il posto giusto per me.
Arriverà il giorno e con il gregge della gru
Salperò nella stessa foschia grigia
Da sotto il cielo come un uccello che saluta
Tutti voi che siete partiti sulla terra.
A volte mi sembra che i soldati
Dai campi sanguinosi che non sono venuti,
Non una volta cadde nella nostra terra,
E trasformato in gru bianche …

che mi perseguitavano da quando, anni fa, ho visto questo video.

Poi c’è che per caso Mark Bernes – per la precisione Mark Chaimovitch Bernes – era anche ebreo. La seconda canzone è stata composta nel 1969, poco prima di morire, e registrata, al primo tentativo, 38 giorni prima della morte. La registrazione è quella che abbiamo ascoltato qui.

barbara

COME PECORE AL MACELLO?

Non proprio, non solo, non tutti.

GALLERIA D’ARTE PRESENTA FOTO DI PARTIGIANI EBREI NELLA II GUERRA MONDIALE

Di Cari DeLamielleure-Scott
C & G Staff Writer

WEST BLOOMFIELD – In collaborazione con la Jewish Partisan Educational Foundation, la galleria Janice Charach di West Bloomfield presenterà “Immagini di resistenza: le fotografie di guerra della partigiana ebrea Faye Schulman” dal 19 ottobre al 14 dicembre.
Faye Schulman 1
Faye Schulman, che attualmente vive a Toronto, in Canada, ha documentato la vita partigiana dal 1942 al 1944 in quella che oggi è la Repubblica di Bielorussia.
“Questa mostra è davvero straordinaria, perché riguarda sicuramente l’Olocausto e i diritti ebraici, ma riguarda anche i diritti delle donne e il femminismo, ha detto Kelly Kaatz, direttore della galleria. “Nessuno aveva una macchina fotografica durante questo movimento, quindi non ci sono molte foto che lo documentano, tranne ciò che hanno documentato i nazisti.”
Faye Schulman è, a quanto si sa, l’unica fotografa partigiana ebrea che abbia fotografato la resistenza partigiana ebraica in Europa orientale durante la seconda guerra mondiale. Secondo Kaatz, quando le truppe tedesche occuparono la Polonia orientale nel 1941, Schulman, l’unica fotografa rimasta nella zona, fu risparmiata dai campi di concentramento e le fu permesso di scattare foto. Schulman alla fine fuggì e si unì a una brigata partigiana russa nelle foreste lungo il confine russo-polacco.
Faye Schulman 2
Voglio che la gente sappia che c’è stata resistenza. Gli ebrei non sono andati come pecore al macello. Io ero una fotografa. Ho le foto. Ho le prove,” ha detto Schulman in un comunicato stampa.
Kaatz ha detto che a Schulman fu permesso di unirsi alla brigata di Molotava perché era una fotografa ed essere donna, ebrea e accettata nel movimento partigiano era “una cosa straordinaria”. Prima di essere liberata dall’esercito sovietico nel 1944, è stata una combattente, un’infermiera e una fotografa.
“Quando gli ebrei avevano la minima possibilità di fuggire, di unirsi ai partigiani, di combattere gli assassini, lo facevano. Io sono stata una partigiana ebrea. Ho vissuto due anni e mezzo nei boschi in territorio occupato dai nazisti. C’erano migliaia di ragazzi e ragazze ebrei, anch’essi partigiani. La maggior parte di loro hanno perso la vita eroicamente combattendo il nemico,” ha detto Schulman in un comunicato stampa.
Faye Schulman 3
L’esposizione, che è costituita da 36 foto, presenta foto di partigiani nei boschi, negli ospedali e ai funerali. Poiché Schulman non aveva accesso a una camera oscura, usava una coperta per terra per sviluppare le foto, ha detto Kaatz. […]
La Galleria aprirà il 19 ottobre con una lezione della partigiana superstite Miriam Brysk. Brysk, che vive ad Ann Arbor, parlerà dalle 12 alle13, e la mostra sarà aperta dalle 13 alle 16. Docenti dell’Holocaust Memorial Center saranno a disposizione per le domande.

“Immagini di resistenza: fotografie del tempo di guerra della partigiana ebrea Faye Schulman” sarà aperto la domenica dalle 12 alle16, lunedì-mercoledì dalle 10 alle 17 e il giovedì dalle 10 alle19. Per ulteriori informazioni, contattare Kelly Kaatz al (248) 432-5579.
Per ulteriori informazioni su The Jewish Partisan Educational Foundation, visitate http://www.jewishpartisans.org.
(qui, traduzione mia, grazie a Primo Fornaciari per la segnalazione)
Faye Schulman 4
barbara

ADESSO PARLIAMO ANCORA UN MOMENTO DI TREGUA

Che pare essere una delle cose più gettonate al momento, da quelle parti. E quando viene proclamata una tregua, succede questo
tregue
Poi Israele prende atto che la tregua non c’è e riprende gli attacchi, e allora tutti giù a titolare “Israele rompe la tregua”. Perché gli ebbrei sono cattivi e amano la guerra, lo sanno tutti. Poi fanno questo
ospedale
che a me sinceramente sembrerebbe anche un bel po’ esagerato star lì sotto i missili a curare quelli che glieli tirano. A Vienna comunque hanno fatto vedere com’è

Ma chissà se saranno in molti a capirlo. Boh. Voi comunque cercate di non dimenticare mai che Israele uccide civili, soprattutto civili, e soprattuttissimo donne e bambini, come si vede anche da queste due tabelle
uccisi gaza 1
uccisi gaza 2
e che quelli che muoiono di più sono i buoni e quelli che muoiono di meno sono i cattivi.
WWII
Dixi.

barbara

ANTON L’ALLEVATORE DI COLOMBE

La mia nonna paterna era convalescente da un ictus. Riusciva a camminare aiutandosi con un bastone. Tremavo al pensiero di doverla portare là. I nazisti stavano preparando qualche azione subdola. Sapevo che l’ospedale non era abbastanza grande per accogliere tutti gli ammalati del ghetto.
Quando fui ritornato dalla piazza, mia madre studiò la mia espressione. Nel suo sguardo si leggeva lo spavento. Mi domandò che cosa stesse succedendo là fuori, che cosa dicesse la gente, e io le mentii. Non parlai dei riflettori, ma compresi che sapeva quel che sarebbe accaduto.
Aveva riempito la sua valigetta, e il suo impermeabile, accuratamente ripiegato, era steso sul divano, come se dovesse partire per un viaggio che l’avrebbe tenuta fuori per la notte, come accadeva di solito prima della guerra. Pronunciammo solo poche parole: comunicavamo attraverso il silenzio, con il cuore in tumulto. Mio padre tirò fuori il vecchio album delle foto di famiglia e si mise in piedi vicino alla finestra, voltando lentamente le pesanti pagine. Guardai sopra la sua spalla e vidi che stava osservando il proprio ritratto nuziale. Lo trasse fuori dall’album e se lo mise nella tasca interna del vestito. Feci finta di non aver visto.
[…]
Era passato mezzogiorno, e mia madre era indaffarata in cucina. Aveva trovato della farina e qualche patata che era riuscita a mettere da parte, e arrivò con una zuppa deliziosa e frittelle di patate cosparse di cipolle fritte. Mi chiedevo: sarà questo il nostro ultimo pasto insieme?
Entrarono alcuni amici e vicini con espressioni spaventate sul volto, a confermare le voci sulla deportazione imminente e a dire arrivederci. Venne la famiglia Zilber, e piangevano tutti. Non riuscivo a impormi di dire ‘arrivederci’ a nessuno: temevo che non li avrei rivisti mai più.
Erano quasi le quattro del pomeriggio quando mia nonna, con indosso il suo vestito migliore, uscì dalla propria camera. Se qualcuno avesse voluto accompagnarla all’ospedale, disse, lei era pronta. Ci offrimmo mio fratello e io. Lei insistette per camminare da sola, così la sorreggemmo appena per le braccia nel caso incespicasse. Camminava diritta, con la testa alta; a tratti guardava uno di noi due senza dire una parola. La gente ci sorpassava confusa. Sembravano uccelli in gabbia in cerca di una via di fuga. Un uomo di una certa età, che portava sulle spalle un fagotto enorme, ci fermò e ci chiese l’ora. «Che bisogno ha di sapere l’ora?», chiesi. Mi guardò come turbato dalla domanda e rispose: «Presto sarà il momento della preghiera della sera, non lo sai?». E continuò per la propria strada, parlando tra sé e tenendo lo scomodo fagotto in equilibrio sulle spalle.
Quando raggiungemmo il portone dell’ospedale, mia nonna insistette perché la lasciassimo lì. Sarebbe andata avanti da sola. Con il cuore grosso le diedi un bacio di commiato. Sorrise e si volse verso di noi, dicendo: «Com’è che si dice in questi casi? ‘State bene’?» Poi sparì dietro la cadente porta imbiancata dell’ospedale. Avevo bisogno di piangere, ma mi vergognavo di farlo davanti a mio fratello maggiore. Deciso a dar prova di quanto fossi duro, trattenni le lacrime. Tornammo indietro camminando in silenzio, probabilmente pensando entrambi alla stessa cosa.
Non dimenticherò mai il ritorno a casa dopo aver accompagnato la nonna all’ospedale. Mia madre era in cucina a salutare una delle sue amiche. Non l’avevo mai vista piangere come allora. Quando ci vide ci corse incontro e tra le lacrime ci supplicò di darci alla macchia. Ci implorò di rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo. La sua amica piangeva con lei, e io mi sentii spezzare il cuore.
Entrò un vicino a dirci che il ghetto era circondato da uomini delle SS armati e che la deportazione stava ufficialmente per avere inizio. La polizia del ghetto era in stato di massima allerta, ed era impossibile ricavarne alcuna informazione.
Mio fratello e io ci voltammo e corremmo fuori di casa. Senza fermarci, corremmo per tutto il ghetto fino ad arrivare, grondanti di sudore, alla recinzione. Dall’altra parte del recinto c’era un circolo di ufficiali nazisti; più in là, in mezzo a un campo, una scuderia. Le guardie ucraine, con i loro fucili, erano ormai all’interno del ghetto. Scavalcammo la recinzione alle loro spalle, e fummo dall’altra parte. Entrammo nella stalla da una porta laterale. Per quel che potevo vedere, non c’era nessuno. I cavalli girarono la testa e ci osservarono. Mio fratello decise che dovevamo nasconderci separatamente, così che, se uno di noi fosse stato scoperto, l’altro avrebbe avuto ancora una possibilità. Mi arrampicai sui travicelli fin sopra a una piattaforma di legno incastrata tra due grosse travi. C’era abbastanza fieno per potermi coprire, e mi distesi bocconi. Attraverso le larghe fessure tra le assi della piattaforma potevo scrutare tutta la scuderia sotto di me. Scoprii anche una fessura nel muro che mi consentiva un’ampia vista della strada dall’altra parte della scuderia.
[…]
Nel rimettere a posto il panino sentii la porta che si apriva e vidi entrare un uomo. Camminò fino all’altro capo della scuderia e depose un pacchetto in una cesta. Poi si prese cura dei cavalli, fischiettando una vecchia canzonetta polacca. Dev’essere lo stalliere, pensai. Sembrava ancora giovane, anche se non potevo vederlo chiaramente in viso: aveva un’andatura svelta e portava con facilità pesanti balle di fieno. Temetti che facendo quel trambusto potesse attirare attenzione; si mise ad andare e venire, riempiendo d’acqua il secchio da cui bevevano i cavalli.
[…]
Dovetti cadere addormentato. Quando mi svegliai, udii forti rumori provenire da dietro la recinzione. Guardai attraverso la fessura nel muro: fuori era buio. D’un tratto risuonò forte un coro di pianti e grida, inframmezzato da voci che urlavano ordini in tedesco. Seguirono dei colpi di fucile, e altre voci che invocavano dei nomi trafissero l’oscurità. All’udire grida di bambini rabbrividii.
Mi sembrò di sentire le urla del mio cuginetto di quattro anni, che era là con la madre – mia zia -, la sorella di quest’ultima e le sue due bellissime figliolette. Erano tutti là, in trappola, disperati e inermi. Pensai al signor Gutman, il nostro amico che, qualche anno prima, aveva dichiarato che Dio era in esilio. Mi chiesi dove fosse e che cosa dicesse ora. Ero in ansia per mia nonna e per quello che le stavano facendo all’ospedale. Spaventato e pieno di apprensione com’ero, decisi di andare avanti, di non arrendermi.
Sentii il cigolio della porta; guardai giù e vidi scivolare fuori lo stalliere, che fermò la porta con un sasso per tenerla aperta. I rumori che provenivano dall’esterno si facevano più forti; i cavalli divennero inquieti e cominciarono a nitrire. I colpi di fucile erano più frequenti e risuonavano molto più vicini di prima. Tutti quei rumori proseguirono per la maggior parte della nottata. Sembrò un’eternità.
In mezzo a quella moltitudine che urlava e piangeva, immaginavo mia madre che mi implorava di rimanere vivo, e potevo udirla invocare aiuto. Cominciai a domandarmi se mio padre fosse con lei e dove fosse mia sorella.
Era quasi l’alba quando i rumori cominciarono ad attenuarsi. Stava sorgendo il sole; sembrava l’inizio di una calda giornata d’agosto. Si udivano ormai solo sporadici colpi di fucile, e un forte ronzio che faceva pensare a sciami di api che volassero in alto: era il rumore di migliaia di piedi strascicati sul selciato. Guardando attraverso la fessura nel muro, potei vedere lunghe colonne di persone scortate da uomini delle SS armati, con cani al guinzaglio. La maggior parte della gente portava in spalla degli zaini; altri tenevano tra le braccia quel che rimaneva delle loro proprietà. Fissai lo sguardo su tutte le persone che potevo, nella speranza di riconoscere un volto. Volevo sapere se mia madre era tra di loro, e cominciai a sforzare gli occhi, finché non ci vidi più. Mi chiedevo se mio fratello, all’altra estremità della scuderia, fosse in grado di vedere fuori. Dalle posizioni in cui ci trovavamo, non avevamo modo di comunicare.
[…]
Improvvisamente udii delle voci sotto di me. Prima di capire di chi fossero, vidi lo stalliere che si arrampicava verso il mio nascondiglio. Non riuscivo a capacitarmene. Smisi di respirare. Due uomini delle SS, con l’elmetto d’acciaio e il fucile, stavano in piedi sulla porta e guardavano lo stalliere che saliva. Lui arrivò vicino alla piattaforma su cui ero steso e a voce alta mi disse di scendere. «Sono venuti a prenderti», disse. «Lo sapevo che eri lì nascosto. Non puoi farmi fesso.» Ero scoperto.
Poi andò nel punto in cui era nascosto mio fratello e gli disse di uscire. Fummo entrambi picchiati a sangue dalle SS prima di essere nuovamente scortati nel ghetto. La prima cosa che vidi nel ghetto fu un grosso carro da traino su ruote gommate carico di cadaveri nudi. Su di un lato, schiacciata contro le assi, c’era mia nonna. Sembrava guardare diritto verso di me.
Non c’è vocabolario al mondo che contenga le parole adatte a descrivere ciò che vidi in seguito. Mia madre mi aveva implorato di recarne testimonianza in qualunque modo. Per tutti questi anni ho continuato a parlare e a raccontare, e non sono sicuro che qualcuno mi ascolti o mi capisca. Io stesso non sono sicuro di capire.
La notte seguente, mio fratello e io riuscimmo miracolosamente a sfuggire alla deportazione finale, e tutto per essere spediti ai campi separatamente poco tempo più tardi. Non vidi mai più mia madre, né fui più in grado di trovare una sua fotografia. Ogni volta che desidero ricordarla, chiudo gli occhi e penso a quella domenica d’agosto del 1942, quando la vidi seduta nel nostro giardino nel ghetto, mentre piangeva dietro la pianta di lillà.

mia madre che mi implorava di rimanere vivo
rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo

Un po’ grazie alla determinazione e un po’ (un po’ tanto) alla fortuna, Bernard è riuscito ad esaudire il desiderio della madre: è sopravvissuto, e ha passato la vita a rendere testimonianza. Lo fa, qui, con ventuno bellissimi racconti, non tutti drammatici come quello da cui ho tratto questi brani, che meritano davvero di essere letti.
Nota a margine: leggere di questi due fratelli che decidono di separarsi con la speranza che, se qualcosa va storto, almeno uno dei due si salvi. E ricordare come, sessant’anni più tardi, in Israele – dopo gli accordi di Oslo, dopo la stretta di mano sul prato della Casa Bianca, dopo i premi Nobel conferiti ai protagonisti di quell’evento per il loro straordinario contributo alla pace, e prima del “muro” (dell’odio, della vergogna, dell’apartheid), le mamme mandavano i figli a scuola su due autobus diversi con la speranza che, se un autobus saltava in aria, almeno uno dei due si salvasse. L’odio cambia, a volte, leggermente la maschera. Mai la faccia.

Bernard Gotfryd, Anton l’allevatore di colombe, Guanda
Anton l'allevatore di colombe
barbara