La vittoria del No, salvacondotto a vita per un Senato intoccabile
Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo?
di Sergio Rizzo
Dopo la vittoria del No si sono sparse notizie di calorosi festeggiamenti al Cnel redivivo. Reazioni più sobrie, invece, al Senato. Dove qualcuno non ha comunque risparmiato ironie. Maurizio Gasparri, per esempio, ha twittato: «Il Senato c’è, Renzi non c’è più». Niente di più vero. Il Senato c’è e ci sarà sempre, perché il No è soprattutto un salvacondotto perpetuo per Palazzo Madama. Giusta o sbagliata che fosse la riforma, il risultato non può essere che questo. Chi avrà mai la forza di riproporre un sia pur minimo ridimensionamento dei poteri della Camera alta, dopo quello che è successo? E quanti sostengono che ora «si potrà fare una riforma seria» lo sanno benissimo.
Il meccanismo della conservazione, in questo Paese resistente a ogni cambiamento, è super collaudato. In un senso come nell’altro. Basterebbe ricordare in che modo si è salvato il ministero dell’Agricoltura dopo che un referendum popolare l’aveva abolito: semplicemente cambiando nome in «ministero delle Politiche agricole e forestali». O come i rimborsi elettorali siano esplosi proprio dopo un referendum che avrebbe dovuto cancellare il finanziamento pubblico dei partiti.
Idem accadrà per le Regioni, luoghi nei quali l’opposizione a ogni cambiamento è ancor più radicata. Vivrà in eterno quell’assurdo titolo V voluto nel 2001 da un centrosinistra in affanno nel disperato tentativo di arginare l’ondata leghista e poi incredibilmente confermato al successivo referendum dai cittadini ignari (come in questo caso) tanto del merito quanto delle conseguenze. Di più. Non solo le Regioni manterranno l’insensata competenza esclusiva su alcune materie quali turismo o energia, ma il voto del 4 dicembre varrà anche per loro come salvacondotto perpetuo nei confronti di qualunque tentativo di riforma futura. I consiglieri regionali, poi, sono finalmente al sicuro: nessuno potrà più imporre loro tetti alle generose buste paga, né vietare i contributi ai gruppi politici consiliari al centro di gravissimi scandali. L’ex commissario alla spending review Roberto Perotti ci ha già mostrato, del resto, con quale abilità i signori consiglieri siano riusciti ad aggirare il tetto alle retribuzioni imposto dal governo di Mario Monti.
Che dire infine delle Province? Sopravviveranno anch’esse nei secoli a venire. E quei martiri della democrazia che in Calabria hanno affisso una lapide nella sede della ex Provincia con scolpiti i nomi degli ultimi consiglieri «eletti a suffragio universale», troveranno un motivo di riscatto. Perché oggi nessuno si stupirebbe davanti a una proposta di abrogazione della legge Delrio che facesse tornare nuovamente elettivi quegli incarichi.
7 dicembre 2016
Già: chi ha votato no per ragioni serie, ossia perché il cambiamento non avveniva nel modo giusto, o non era sufficiente, ha in realtà decretato un immobilismo perpetuo.
Sì e no
Mi è difficile esprimere con chiarezza i miei pensieri e le mie sensazioni a seguito della chiusura della battaglia referendaria e dell’esito della consultazione. Un esito evidentemente inequivocabile: chi ha vinto ha stravinto, e la sconfitta di chi ha perso è stata schiacciante, inequivocabile, un’autentica disfatta. Altro che vittoria sul filo del rasoio, al fotofinish, per una manciata di voti! Le dimensioni della vittoria del No sono travolgenti, il Sì è stato distrutto. In democrazia il popolo sovrano ha sempre ragione, chi ha perso – anzi, straperso – deve solo prenderne atto.
Tra gli straperdenti ci sono io, che ho fatto un’accanita e convinta battaglia per il Sì, iscrivendomi a un Comitato, e partecipando a diversi incontri pubblici, nei quali ho sostenuto, con una molteplicità di argomentazioni, le ragioni del Sì, e confutando con forza quelle del No. E alcune persone – poche, in realtà: ma l’esito non avrebbe dovuto essere deciso per una manciata di voti? -, originariamente indecise, o orientate per il No, mi hanno addirittura detto di essere state indotte dalle mie parole a cambiare opinione. Ma ho straperso, e mi assumo tutto il peso della sconfitta. Certo, questa mia personale sconfitta ha un significato del tutto ininfluente, nessun giornale ne parla, e non devo salire su nessun colle a rassegnare dimissioni di sorta, ma mi pare comunque giusto che riconosca il mio fallimento, senza scuse e senza ridimensionamenti. Ho perso, ho straperso e, come si dice, veh victis. Ho sbagliato a combattere una battaglia destinata alla sconfitta? No, anzi, ne sono orgoglioso, e mi pare che le dimensioni del tracollo diano ancora più valore alla mia battaglia perdente, per le seguenti ragioni.
Tra i sostenitori del No ci sono molto sinceri democratici, che hanno profondamente a cuore le sorti della nostra democrazia, e che hanno contestato la riforma per una varietà di ragioni, alcune delle quali ho anche condiviso. Io sono un giurista, e tra i miei colleghi la larga maggioranza ha votato No, ritenendo che la riforma sia stata pensata e scritta in modo discutibile. Tra questi colleghi molti sono miei amici da una vita, persone da cui ho tantissimo da imparare, di limpidissima fede democratica, e sulle cui ragioni ho riflettuto a lungo. Sono stati schierate per il No molte persone che alla difesa della Costituzione hanno dedicato tutta la vita, tra cui, in particolare, il mio amatissimo Maestro Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Consulta, che ritengo, e non per devozione personale, il più alto punto di riferimento, a livello mondiale, in tema di dignità dell’uomo e diritti umani. Faccio a tutti loro, uno per uno, i miei più sinceri complimenti, senza alcun retropensiero, e la loro presenza nel fronte vittorioso contribuisce a lenire un pochino il pesante peso della mia sconfitta. Non mi permetterei mai e poi mai di criticarli, o di dire che hanno sbagliato. Hanno fatto bene, si sono impegnati in buona fede per la democrazia, il diritto e la civiltà. Mi permetto solo di notare, però, sommessamente, che la loro presenza nel fronte vittorioso, purtroppo, appare, almeno sul piano mediatico, alquanto sfocata e minimale. Non sembra che siano loro ad avere vinto, né, tanto meno, ad avere vinto – come tanto spesso si legge e sente dire – mi sembra che sia stata la Costituzione repubblicana. Una Costituzione che – per chi l’abbia davvero letta – non urla, non fa la faccia feroce, non insulta, non sbraita, non denigra, non umilia, non offende i deboli e le minoranze.
Il vero vincitore, a mio avviso, è qualcuno che ama la Costituzione quanto Erode amava i bambini, e le cui urla contro “lo stupro della Costituzione” che sarebbe stato tentato mi sono sembrate come la criminalizzazione, in nome del vegetarianismo, di chi osa mangiare un po’ di pollo, da parte di chi usa invece nutrirsi solo di carne umana.
È lui, sono loro che hanno vinto. Non solo lui, non solo loro, d’accordo, ma soprattutto lui, soprattutto loro.
Ed è bene, secondo me, che tutti ne siano consapevoli, perché la verità è sempre salutare.
Francesco Lucrezi, storico
(7 dicembre 2016)
Come Erode amava i bambini: ecco, mi sembra una buona definizione.
…italiani
Il voto del 4 dicembre lascia l’Italia in uno stato di paralisi totale, senza un governo, senza un metodo elettorale in grado di farne eleggere un altro, senza un partito dominante capace di guidare il paese nelle sue scelte, spaccato ideologicamente, con una situazione economica gravemente deteriorata, e preda delle facilonerie populiste di esponenti politici che nella loro vita hanno condotto, se lo hanno fatto, la propria autovettura e nulla più. In questo quadro sconcertante è interessante notare come il voto degli Italiani all’estero sia stato diametralmente differente (65% Si – 35% No) da quello degli Italiani in patria (60% No – 40% Si). Ci si può chiedere che cosa abbiano visto gli Italiani all’estero che i cittadini in Italia non hanno visto. Forse la risposta è questa: che chi sta in mezzo a una cosa non si rende bene conto di quali altre alternative ci possano essere, ma chi vede quella cosa dall’esterno è in grado di confrontarla con altre realtà e può meglio giudicare i pregi e i difetti di quella tale cosa. E la cosa in questione, l’incomparabilmente bella, inimitabile e amata Italia, vista dall’esterno, è divenuta nel corso degli anni ed è oggi un paese enormemente arretrato rispetto ad altri dello stesso continente o classificati (come l’Italia) fra i paesi maggiormente sviluppati. Per superare questi ritardi che aumentano col passare del tempo, sono necessarie profonde riforme, e queste riforme bisogna pur cominciare a farle da qualche parte, anche se le soluzioni sarebbero molte e diverse, e quelle proposte da Matteo Renzi non erano forse le migliori, o le più utili e incisive.
Il voto degli Italiani in Israele si colloca in questo contesto. La circoscrizione di Tel Aviv, che include tutto il paese meno la zona di Gerusalemme, ha dato al Sí l’81%, e la circoscrizione di Gerusalemme, che include anche la Cisgiordania, ha votato 71% Sí. Se sommiamo i due dati, il 79% dei 2.704 votanti in Israele hanno scelto il Sí. Questo è il secondo dato più alto al mondo dopo il Brasile (84%), e prima di sette paesi latinoamericani (Uruguay, Perù, Ecuador, Cile, Colombia, Guatemala e Honduras) in cui il Sí ottiene il 75%-77%, due paesi africani (Eritrea e Uganda) al 73%-74%, e l’Iran con il 71% – questi tre ultimi stati peraltro con meno di 200 elettori ciascuno. Gli Italiani in Israele hanno dunque fatto una scelta ostentatamente chiara, e non sarebbe assurdo ipotizzare che anche gli elettori ebrei in Italia abbiano espresso una scelta simile, anche se probabilmente non altrettanto netta. E questo può significare tre cose. La prima è che da Israele, anche in virtù della propria esperienza, si ha una percezione specialmente acuta dei malesseri dell’Italia che per certi versi non sono troppo dissimili dai nostri di qui. La seconda è che la possibile successione politica di Renzi suscita qui timori particolarmente forti alla luce dei discorsi uditi, dei programmi sbandierati, e dei leader incontrati o visti sullo schermo. E la terza è che gli ebrei italiani, come già tante volte in passato, sono irrimediabilmente fuori dal passo della vita politica vera, si cullano in certe loro bellissime illusioni e ingenue speranze, e ancora una volta non capiscono che loro vanno da una parte, mentre l’Italia va da un’altra parte.
Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme
(8 dicembre 2016)
Raramente – molto raramente – mi capita di trovarmi d’accordo con Sergio Della Pergola. Questa è una di quelle volte. E concludiamo la carrellata di pensierini con questo, veramente magistrale.

barbara