IMBROGLI FIN DALL’INIZIO

La Dichiarazione Balfour

Da un articolo di Ashley Perry

Questo 2 novembre la Dichiarazione Balfour – il primo, cruciale riconoscimento ufficiale delle aspirazioni nazionali ebraiche – ha compiuto 91 anni. Sebbene in quanto tale la Dichiarazione non possedesse un elevato status giuridico (in quanto nasceva come una sorta di scrittura privata fra l’allora ministro degli esteri britannico Lord Arthur James Balfour e il presidente della federazione sionista britannica Lord Rothschild), tuttavia essa poco dopo, nel 1920, venne incorporata nel Trattato di pace di Sèvres con la Turchia e nel testo del Mandato sulla Palestina adottato all’unanimità dalla Società delle Nazioni nella Conferenza di Sanremo. Essa dunque conferì al sionismo una legittimità nel diritto internazionale che ben pochi movimenti nazionali, prima e dopo di allora, possono vantare. Forse ancora più sorprendente, oggi, è il fatto che il leader di allora del movimento nazionalista arabo, re Feisal, appoggiò la Dichiarazione Balfour, esplicitamente citata nell’Accordo Feisal- Weizmann del 1919 (art. 3).
Anche se, da allora, molti hanno cercato di negare il valore centrale di questo documento e il suo stretto rapporto con il Mandato conferito alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni, non è così che vedevano le cose i suoi estensori britannici. Anzi, come venne affermato nel Rapporto della Commissione Reale Peel del 1937, “scopo primario del Mandato, espresso nel suo preambolo e nei suoi articoli, è quello di promuovere la creazione del Jewish National Home (focolare nazionale ebraico)”.
Le bozze iniziali della Dichiarazione Balfour parlavano dell’aspirazione “che la Palestina venga ri-costituita come focolare nazionale del popolo ebraico” (in questi termini si esprime infatti il testo del Mandato). Chiaramente era la Palestina nel suo complesso che sarebbe dovuta diventare sede nazionale ebraica (come scrisse la Commissione Peel. “il campo in cui il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto stabilirsi era inteso, al tempo della Dichiarazione Balfour, che fosse l’interna Palestina storica”).
La stesura finale venne modificata includendovi la clausola: “essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.
Molti hanno sostenuto che il termine “Jewish National Home” non corrisponde alle aspirazioni del sionismo, suggerendo che la Dichiarazione non abbia mai inteso incoraggiare la creazione di uno stato vero e proprio. Interpretazione fallace, tant’è vero che tutti i principali protagonisti della stesura del documento pensavano proprio il contrario. Certo, in quel momento per il governo britannico sarebbe stato impossibile sul piano diplomatico promettere uno stato, non foss’altro perché il territorio in questione non era ancora sotto il suo controllo. Il termine “National Home” venne usato come primo passo sulla strada verso la sovranità statuale. David Lloyd George, che era allora il primo ministro a Londra, attribuì agli stessi ebrei l’onere di trasformare il focolare nazionale in uno stato nazionale. Come disse nella sua deposizione alla Commissione Peel, “l’idea era che, quando sarebbe arrivato il momento di accordare istituzioni rappresentative alla Palestina, se nel frattempo gli ebrei avessero risposto all’opportunità offerta loro dal concetto di focolare nazionale e fossero diventati una chiara maggioranza, … allora la Palestina sarebbe diventata una comunità indipendente (commonwealth) ebraica”.
Altre figure influenti come Lord Robert Cecil nel 1917, Sir Herbert Samuel nel 1919 e Winston Churchill nel 1920 parlarono dello stato ebraico che ne sarebbe seguito. Churchill, parlando alla Commissione Reale del Libro Bianco del 1922 da lui promulgato, disse anche che si sbagliavano coloro secondo i quali la Dichiarazione Balfour o il Mandato sulla Palestina precludevano uno stato ebraico. “In esso – stabilì infatti la Commissione – non c’è nulla che proibisca la definitiva creazione di uno stato ebraico, e il signor Churchill stesso ci ha sottolineato come nessuna proibizione di questo tipo fosse nelle intenzioni”.
Vi è anche chi sostiene che il linguaggio della Dichiarazione e del Mandato conferirebbero uguale peso alle aspirazioni nazionali degli ebrei e ai diritti civili e religiosi delle varie comunità di non-ebrei residenti sul territorio. Il che è errato per il semplice fatto che lo scopo principale sia della Dichiarazione sia del Mandato, come si è detto, era quello di “promuovere la creazione della National Home ebraica”. Tant’è vero che il testo del Mandato rendeva la Gran Bretagna “responsabile di mettere il paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da garantire la creazione della National Home ebraica”. Parole che implicavano chiaramente un intervento attivo da parte della potenza mandataria. “Stare semplicemente inerti – scrisse Churchill – per evitare frizioni con gli arabi e salvaguardare i loro diritti civili e religiosi abdicando al positivo esercizio della creazione della sede nazionale ebraica non costituirebbe una fedele interpretazione del Mandato”.
Infatti il testo del Mandato abbondava di riferimenti ad azioni che si sarebbero dovute intraprendere per garantire la National Home ebraica: l’amministrazione mandataria era chiamata a “favorire” l’immigrazione ebraica e “incoraggiare” l’insediamento di ebrei nel paese.
Innegabilmente la Dichiarazione Balfour costituì un unicum non solo nella storia degli ebrei, ma probabilmente anche nella storia dei movimenti nazionali. Per un breve periodo, tutte le maggiori potenze, lo stesso leader del mondo arabo e le principali parti interessate concorsero a creare un meccanismo inteso ad esaudire il sogno sionista. Un fatto che non dovrebbe essere trascurato né sottovalutato nel momento in cui il sionismo deve ancora battersi per veder riconosciuta la sua piena legittimità, nonostante ben pochi movimenti nazionali al mondo possano vantare al loro attivo un tale documento di legittimazione giuridica, integrato nel diritto internazionale.
(Da: Jerusalem Post, israele.net, 02.11.08)

Ricapitolando: prima è stato stabilito che l’intera cosiddetta Palestina storica (attuali Israele + Giudea e Samaria – aka West Bank aka Cisgiordania – + Gaza + Giordania) dovesse diventare lo stato ebraico; poi, prima della stesura finale, la formulazione iniziale è stata modificata per far piacere agli arabi; poi la Gran Bretagna ha rubato agli ebrei il 78% di quel territorio per farne dono all’emiro Abdallah col nome di Transgiordania (diventata istantaneamente il primo stato judenrein della storia moderna tramite l’espulsione di tutti gli ebrei che lì vivevano); poi nel 1939 ancora la Gran Bretagna, con il Libro Bianco, ha impedito l’immigrazione degli ebrei nell’unico territorio che avrebbe permesso loro di sfuggire alle camere a gas, favorendo contemporaneamente l’immigrazione araba; poi l’Onu ha ulteriormente diviso quel 22% del territorio iniziale rimasto dopo il furto/tradimento perpetrato dalla Gran Bretagna, portando il furto totale all’87% del territorio. E infine, dopo il danno la beffa: l’invenzione della leggenda che a rubare la terra sarebbero stati gli ebrei (spesso, quale “documentazione” di questo presunto furto di terra, ci viene raccontato che al momento della risoluzione Onu 181 sulla partizione della Palestina gli ebrei possedevano il 6% della terra. Vero. Verissimo. Quello che omettono regolarmente di dirci è che gli arabi ne possedevano il 3%: tutto il resto era demanio, prima dell’impero ottomano, poi del mandato britannico e infine dello stato di Israele. L’altra cosa che omettono di dire è che quel 6% di terra è stato regolarmente acquistato e pagato, fino all’ultimo centimetro, come documentato negli archivi ottomani). “Furto” la cui commemorazione ora fa bella mostra di sé anche nel Parco II Giugno di Bari.
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(Clic per ingrandire. E grazie a lui per la segnalazione)

barbara

 

A proposito della dichiarazione Balfour

Ricordare oggi la Dichiarazione Balfour significa ricordare perlomeno due punti fondamentali.

Primo: l’autodeterminazione ebraica nella terra dei padri è ufficialmente all’ordine del giorno dell’agenda internazionale da quasi un secolo, tanto è vero che anche il concetto di spartizione della terra risale a prima della Shoà, perlomeno alle raccomandazioni della Commissione Peel del 1937.
Secondo: a differenza di molti altri stati, la legittimità internazionale dello stato di Israele è saldamente ancorata nel diritto internazionale. La Dichiarazione Balfour, infatti, lungi dal rimanere (come amano ripetere i propagandisti anti-israeliani) una sorta di scrittura privata tra governo di Londra e organizzazione sionista, nel 1922 venne inclusa parola per parola nel testo del Mandato. Pertanto da quel momento è la Società delle Nazioni che investe la Gran Bretagna della “responsabilità di mettere in pratica la dichiarazione fatta originariamente il 2 novembre 1917 […] a favore della creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico”.
Il diritto alla creazione dello stato venne infine sancito, esattamente sessant’anni fa, dallo storico voto del 29 novembre 1947 con cui l’Assemblea Generale dell’Onu approvò la spartizione dell’ex Mandato britannico in due stati, che venivano definiti – è importate ricordare le parole esatte – “Arab and Jewish States”.
Si sa come è andata. Il rifiuto arabo della spartizione diede origine a un’interminabile conflitto. Ma per meglio comprendere la natura di quel rifiuto, bisogna ricordare che la Commissione UNSCOP non aveva formulato solo la proposta di maggioranza a favore della spartizione. Esisteva anche il rapporto della minoranza pro-araba, che proponeva la creazione di un singolo stato federale comprendente due cantoni, uno ebraico e uno arabo. L’autonomia del cantone ebraico sarebbe stata assai più limitata e temi come la libertà di immigrazione, la questione vitale per cui gli ebrei avevano combattuto, sarebbero stati sottratti alla sua giurisdizione: il cantone ebraico non avrebbe potuto soccorrere gli ebrei d’Europa sopravvissuti alla Shoà, né quelli a rischio nei paesi mediorientali. E tuttavia, le dirigenze arabe respinsero anche il rapporto di minoranza dell’UNSCOP perché comunque ammetteva l’esistenza di una qualche entità nazionale ebraica, ed era proprio questo il concetto totalmente intollerabile.
“La maggior parte dei delegati all’Onu – ricorda Amnon Rubinstein (Jerusalem Post, 16.05.06) – considerò in modo molto negativo questa posizione estremista e intransigente. Anziché accettare il compromesso deliberato dal massimo organismo internazionale, che aveva l’autorità e il dovere di decidere del futuro delle terre sotto Mandato della Società delle Nazioni, gli arabi dichiararono guerra”. Sul piano del diritto e della giustizia non si deve dimenticare che, se arabi palestinesi e paesi arabi avessero accettato la risoluzione di compromesso dell’Onu, al popolo palestinese e a quello ebraico sarebbero state risparmiate grandi sofferenze, e si sarebbe potuto dare giustizia a entrambi. (qui)

Poi, per rinfrescare un po’ la memoria, può essere utile rileggere questo, questo e questo.
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barbara