LE COLPE DEI PADRI

Le colpe dei padri, come tutti sanno, sono quella cosa che non deve mai ricadere sui figli. Mai. Neanche per sbaglio. Neanche per distrazione. Neanche per scherzo. Neanche per uno scherzettino bonario. Mai. Tranne il caso che i padri in questione appartengano alla razza bianca. La quale razza è quella cosa che – anche questo lo sanno tutti – assolutamente non esiste, tranne la razza bianca, che non solo esiste, ma è anche una razza inferiore in quanto colpevole di tutti i danni del pianeta, conosciuti e sconosciuti, e di tutti gli altri pianeti scoperti e coperti nonché di tutte le galassie scoperte e coperte. In questo caso le colpe dei padri ricadono sui figli fino alla seimiliardesima generazione. E dunque succede che noi – nel senso di immonda razza bianca – abbiamo avuto le colonie, abbiamo sfruttato il loro suolo e sottosuolo e la popolazione, arricchendoci alle loro spalle, e impoverendo loro in proporzione. (Come? Dici che dopo la fine del colonialismo sono arrivati dei satrapi corrottissimi che li hanno depredati ancora più di noi? Colpa nostra: se non ci fossimo stati prima noi non sarebbero arrivati neanche i satrapi) E dunque, per scontare le colpe dei trisnonni dei nostri trisnonni, adesso dobbiamo accogliere e nutrire tutti quelli che arrivano, da qualunque parte del mondo arrivino. Ne arriva un milione? Accogliamo un milione. Dieci milioni? Accogliamo dieci milioni. Cento milioni? Accogliamo cento milioni. Un miliardo? Accogliamo un miliardo. Continuando infaticabilmente a chiedere scusa e batterci il petto e cospargerci il capo di cenere: scusa per il male fatto dai trisnonni dei nostri trisnonni, scusa per avere sviluppato una cultura superiore alla loro, una scienza superiore alla loro, una tecnologia superiore alla loro, scusa per avere concepito l’idea dei diritti umani ed esserci dotati di democrazia, scusa per esistere.

E gli arabi – che dopo l’arrivo del cammelliere predone assassino pedofilo sono diventati musulmani? Hanno aggredito, invaso, occupato, islamizzato a suon di massacri, deportazioni, stupri etnici, conversioni forzate tutto il nord Africa, buona parte del centro Africa, tutto il medio oriente, parti dell’estremo oriente, i Balcani, parti dell’Italia, la Spagna (se ho dimenticato qualcosa aggiungetelo voi), hanno cancellato culture, lingue, etnie, hanno depredato e devastato, hanno fatto razzie per catturare schiavi (ricordiamo che non solo gli schiavi bianchi sono stati più numerosi degli schiavi neri, ma che anche per gli schiavi neri erano i capitribù locali a fare le razzie, e i mercanti arabi a farne commercio, vendendoli ai negrieri bianchi) e in varie parti praticano tuttora la schiavitù. E stanno conquistando fette sempre più grosse di Europa, terrorizzando gli autoctoni, imponendo loro il proprio stile di vita, limitando le loro libertà e i loro diritti. E loro? Niente colpe da scontare? Niente danni da risarcire? No. al contrario, dobbiamo accoglierli. Dobbiamo essere indulgenti perché loro non lo sanno che in Italia non si può stuprare sulla spiaggia, proprio non lo sanno. Dobbiamo essere comprensivi se addobbano le loro donne come tende beduine, perché è la loro cultura. Dobbiamo capirli se infibulano le bambine, perché da loro si fa così. Non dobbiamo criticarli se sposano bambine prepuberi, perché stanno seguendo l’esempio del loro Profeta, piss be upon him. No, nessun senso di colpa per loro. Ma perché Dai su, ragazzi, non potete fare domande così stupide! Perché loro non appartengono alla famigerata razza bianca, ecco perché.
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PS: mi è capitato di sentir dire: “Se Allah ha dato il petrolio a noi, ci sarà una ragione”. Ora, a parte il fatto che lo ha dato anche agli americani e ai nordeuropei e – orrore degli orrori! – anche agli ebrei in Terra d’Israele, ma se per poterlo estrarre e raffinare e utilizzare  Allah li ha fatti aspettare fino a quando non sono arrivati i famigerati colonizzatori bianchi, non avrà avuto le sue ragioni?

barbara

EBREI IN VENDITA?

Il sottotitolo di questa recensione potrebbe essere: ma veramente Netanyahu delirava? Veramente ha detto delle così colossali sciocchezze? Veramente ha mostrato una così abissale ignoranza della storia? Si trattava, come si ricorderà, delle trattative fra autorità ebraiche e dirigenti nazisti per tentare di salvare ebrei facendoli emigrare nella Palestina mandataria, trattative sabotate dal gran Mufti di Gerusalemme Haji Amin al Husseini, che avrebbe invece spinto verso lo sterminio. Qualcuno ha addirittura negato che tali contatti vi siano mai stati; ora, non solo vi sono stati, come ho documentato qui, ma sono stati talmente intensi e prolungati nel tempo da poter riempire, con la loro narrazione, un libro di oltre trecento pagine. E cominciamo a vedere qualche indicazione.

Abbiamo visto come l’Ha’avarah venisse ostacolata e come, all’inizio del 1938, l’opposizione all’accordo fosse divenuta quasi unanime. Perché, allora, esso rimase in vigore fin dopo il pogrom del novembre 1938, anzi, fino allo scoppio della guerra? La ragione, come indicano tutte le nostre fonti, è che gli accordi esistenti avevano l’appoggio di Hitler. Se non esistono documenti che portino la sua firma, ciò è dovuto semplicemente al modo in cui governava la Germania in generale: preferiva trasmettere le sue decisioni oralmente, e solo quando era indispensabile. I documenti mostrano chiaramente come la maggior parte dei funzionari dell’epoca aspettassero con impazienza una decisione del Führer, in particolare che rivedesse il suo sostegno all’emigrazione in Palestina e, quindi, anche all’Ha’avarah. È provato che all’inizio del 1938 egli invece confermò quel sostegno, naturalmente a voce. Una nota del 27 gennaio 1938 di Clodius, direttore della divisione Economia del ministero degli Esteri, riporta un’affermazione di Rosenberg: nel corso di una consultazione, Hitler aveva ribadito la sua risoluzione di sostenere l’emigrazione in Palestina e I’Ha’avarah. Di nuovo, com’era tipico dei processi decisionali nel Terzo Reich, questo non significa che tentativi di mutare la decisione non venissero compiuti. In effetti solo von Hentig continuò, per motivi pratici, a dare in certo qual modo appoggio alla politica del Führer; tutti gli altri cercarono di modificarla. L’Ha’avarah fu tenuta in vita contro i desideri di quasi tutti i burocrati dell’economia del governo tedesco perché Hitler aveva deciso che l’emigrazione degli ebrei era più importante di qualunque considerazione economica, e che la Ha’avarah era uno dei modi per raggiungere l’obiettivo. (p. 35)

Da parte dei nazisti ci fu una rispondenza perché l’emigrazione degli ebrei era la loro politica. Le forze dei due campi erano squilibrate. Gli ebrei si trovarono sin dall’inizio in una trappola: non potevano contare sull’aiuto di terzi e, in Palestina, lottavano con un’amministrazione britannica che si faceva sempre più ostile. Imboccarono l’unica strada che avevano a disposizione per salvare il salvabile: trattare con il nemico. Il loro intento in quella fase non era ancora di salvare vite [poiché all’epoca nessuno poteva prevedere che un giorno tutti gli ebrei sarebbero stati condannati a morire, ndb]. Il loro principale obiettivo era lo sviluppo della Palestina, perché la Palestina ebraica era troppo debole per lanciarsi in operazioni di salvataggio in Germania o altrove. Con abbastanza tempo a disposizione, essa sarebbe divenuta in grado di assorbire masse di ebrei. Solo che abbastanza tempo non fu dato. (p. 38)

Ma le date non tornano, è stato obiettato anche da chi sapeva perfettamente delle trattative: Netanyahu ha parlato del 1941, e tutti sanno che in quella data la soluzione finale era già in atto. In realtà, pur con qualche accento retorico e forzando i toni, Netanyahu non ha detto sciocchezze neppure nelle date.

L’emigrazione in Palestina levava di torno solo poche migliaia di ebrei: tra il 1° settembre 1939 e il marzo 1941, in effetti, gli emigranti B furono 12.863, e non tutti provenivano dal Reich, né tutti raggiunsero la Palestina. Eichmann voleva che si facesse molto di più, il che sembra spiegare i viaggi della Sakariya dell’inverno 1939-40 e le tre navi di Storfer dell’autunno 1940. Tali esiti di pressioni interne dovettero apparire a Eichmann piuttosto scarsi, ed egli tentò di far partire gli ebrei con pressioni più brutali. Il 3 luglio 1940 convocò i capi della RVE delle comunità di Praga e Vienna e chiese loro di sottoporgli nel giro di quarantott’ore un piano per liberare il Reich da tutti gli ebrei. È inutile dire che questo ultimatum non servì. All’inizio del 1941 ogni tentativo nazista di spingere gli ebrei in direzione della Palestina cessò. A prenderne il posto fu lo sviluppo della «soluzione finale». Fino all’ottobre 1941, tuttavia, agli ebrei del Reich fu ancora permesso partire, e molti vennero spinti oltre i confini, anche se, nelle zone dell’Unione Sovietica che venivano conquistate, lo sterminio di massa era iniziato. In quello stesso ottobre, in effetti, era in allestimento a Chelmno il primo campo di sterminio, dove s’iniziò a uccidere con il gas l’8 dicembre 1941, ma i preparativi erano in corso già in ottobre, quando gli ebrei potevano ancora andarsene. In Serbia le uccisioni di massa erano già, a quella data, in pieno svolgimento. Le due politiche, lo sterminio e l’espulsione, furono per un breve periodo in vigore contemporaneamente. (p. 67)

Il 27 agosto Wisliceny s’incontrò con il Gruppo e comunicò che doveva ricevere nuove istruzioni. I suoi capi, disse, stavano preparando un convoglio dalla Polonia a Theresienstadt di cinquemila bambini ebrei, duemila dei quali erano già in viaggio. Il fatto che lo sapesse dimostra che aveva effettivamente parlato con Eichmann, perché mille bambini di Bialystok arrivarono a Theresienstadt in agosto. Eichmann aveva posto il veto alla loro emigrazione in Palestina a causa dell’opposizione del Mufti di Gerusalemme, capo del movimento nazionale arabo palestinese, Hajj Amin al-Husseini, che nel 1941 s’era recato in Germania. Il Muftì, disse, era tra i maggiori fautori dello sterminio degli ebrei. (p. 109)

I contatti riguardo ai bambini furono ripresi nell’estate del 1943, quando Eichmann e Himmler dovettero far fronte a un tentativo svizzero, di cui parleremo più avanti, di intervenire a loro favore. Fu allora, il 28 agosto 1943, che circa mille bambini vennero trasferiti da Bialystok a Theresienstadt, dove furono tenuti fino al 5 ottobre, evidentemente per qualche progetto di scambio. Anche Steiner, in una deposizione resa il 2 dicembre 1946 di fronte alla corte nazionale slovacca, conferma che le trattative sui bambini vi furono, e che all’epoca Wisliceny, a nome di Eichmann, disse che il Muftì di Gerusalemme, Hajj Amin el-Husseini, stava cercando di impedire che andassero a buon fine. (pp. 122-123)

Dunque Netanyahu non ha inventato fatti, non ha sbagliato date, non ha falsificato la storia, contrariamente a quanto urlato in quei giorni di novembre (“Ma qui, ci premeva spiegare solo, dati alla mano, perché quello che ha detto Netanyahu sia una menzogna. L’espresso). La cosa curiosa è che le accuse più furiose contro Netanyahu che avrebbe “riscritto la storia a fini politici” e fatto “affermazioni senza fondamento”(La Stampa) è proprio Yehuda Bauer, l’autore del libro che tutto questo ha raccontato e documentato in prima persona.

Un altro inestimabile pregio di questo ottimo libro è quello di fare piazza pulita delle leggende nere cresciute intorno ai dirigenti sionisti, accusati, con tanto di citazioni inventate, di essersi del tutto disinteressati del destino degli ebrei europei, interessati unicamente alla battaglia sionista: niente di più falso.

Notizie attendibili sui piani nazisti di sterminio di massa erano giunte in Palestina con l’arrivo, il 13 novembre 1942, di sessantanove cittadini ebrei palestinesi catturati in Europa allo scoppio della guerra. Essi provenivano da diverse zone dell’Europa occupata, comprese numerose città della Polonia, e furono scambiati contro un numero maggiore di tedeschi residenti in Palestina. Portavano informazioni dirette, frutto di esperienze personali, che non lasciavano dubbi su quanto stava accadendo. Come ovunque altrove, esse rappresentarono uno shock e suscitarono incredulità e disperazione. Ma spronarono anche all’azione la dirigenza dell’Agenzia ebraica, i leader in Palestina del movimento sionista. David Ben Gurion, presidente dell’esecutivo, Moshe Shertok (Sharett), capo della sezione politica, Yitzhak Grünbaum, capo del comitato polacco, che nel 1943 avrebbe presieduto il Comitato di salvataggio dell’Agenzia ebraica, Eliezer Kaplan, tesoriere, e Chaim Weizmann, presidente, che risiedeva a Londra, erano le figure principali. Di nuovo, l’abituale accusa, oggi, è che l’Agenzia ebraica fece troppo poco troppo tardi per soccorrere gli ebrei in Europa, che poneva la creazione di uno stato ebraico al disopra della salvezza degli ebrei, e che Ben Gurion e Grünbaurn in particolare erano politici freddi, pervicaci nell’ignorare la distruzione del loro popolo in Europa. Autori e storici ebrei liberali, non ortodossi, ortodossi e ultraortodossi ripetono queste accuse da anni.
Oggi, tuttavia, sappiamo con sufficiente chiarezza che Ben Gurion ricevette informazioni circostanziate nel momento in cui esse divennero disponibili. Egli colse fino in fondo, si direbbe, le implicazioni dei piani di sterminio nazisti; e, al contrario della visione che si è imposta, divenne estremamente attivo nel promuovere contatti con gli Alleati per persuaderli a intervenire a favore degli ebrei europei. (pp. 101-102)

I maggiori contrasti all’interno dell’Agenzia ebraica vertevano sui rapporti con gli inglesi. Specialmente Grünbaum non si fidava di loro: era sicuro che avrebbero sabotato ogni tentativo di salvare gli ebrei. Ben Gurion era di parere opposto; pensava che se gli Alleati occidentali non si fossero persuasi a sostenerla, la missione non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo. Un tentativo ebraico indipendente era condannato a un immediato fallimento. Avevano ragione entrambi, naturalmente. Ma a emergere qui è un quadro diametralmente opposto a quello dipinto dalla letteratura storica popolare, che vede in Grünbaum un personaggio che fece poco e si preoccupò ancor meno, e in Ben Gurion quasi un collaboratore dei nazisti, un uomo insensibile e indifferente che aveva a cuore soltanto il futuro della Palestina ebraica, non gli ebrei della diaspora. La verità, come abbiamo visto, è ben diversa. Entrambi erano profondamente coinvolti. L’esecutivo dell’Agenzia ebraica si riunì sette volte nel mese successivo all’arrivo di Pomeranz da Istanbul, e tre volte in sessioni speciali a casa di Ben Gurion. Questi vedeva nella vicenda Brand l’evento al momento centrale per l’Agenzia ebraica, vi consacrò tempo ed energie, e dichiarò a MacMichael, oltre che all’esecutivo dell’agenzia, che gli ebrei andavano portati ovunque, non solo in Palestina. (pp. 223-224)

E infine ancora un accenno al comportamento degli Alleati nel corso della guerra, difficilmente comprensibile nella sua illogicità.

Nel gennaio 1944 i capi di stato maggiore alleati occidentali presero una decisione che non aveva niente a che vedere con gli ebrei o il loro salvataggio: non avrebbero usato mezzi militari a scopi civili quali il salvataggio o il soccorso. Ogni proposta ebraica di servirsi dell’aviazione o di altre forze armate per impedire ai nazisti di portare avanti gli assassinii era quindi destinata ad andare incontro alle obiezioni dei militari. Compito di questi ultimi, com’era stato loro esplicitamente detto, era passar sopra a ogni altra considerazione per concentrarsi esclusivamente sul raggiungimento della vittoria. Questo principio, «la vittoria innanzi tutto», fu ripetutamente enunciato dai politici: gli ebrei, e le altre vittime del nazismo, avrebbero potuto essere salvati solo da una vittoria alleata. Finché essa non fosse stata raggiunta, ogni altra politica sarebbe stata controproducente: non avrebbe fatto altro che permettere al regime nazista in Europa di durare più a lungo del dovuto.
Nella posizione degli Alleati c’era una contraddizione. Essi stavano combattendo, tra le altre cose, per la liberazione delle popolazioni civili in Europa dall’oppressione nazista. Secondo logica, piani di salvataggio che non ostacolassero il vittorioso proseguimento della guerra sarebbero dovuti diventare una priorità. Negoziare per guadagnare tempo, esercitare pressioni sulla Croce Rossa affinché intervenisse a favore degli internati nei campi di concentramento e fornirle i mezzi per farlo efficacemente, promettere per tempo ai neutrali che ogni rifugiato che giungesse ai loro confini non sarebbe divenuto un peso per la loro economia: tattiche del genere non erano in contraddizione con lo sforzo bellico. Bombardare le ferrovie o le installazioni dove la gente veniva gassata e aiutare i partigiani ebrei nella stessa misura in cui venivano aiutati quelli non ebrei sarebbero state mosse perfettamente corrispondenti allo scopo di una vittoriosa prosecuzione della guerra. La distribuzione di volantini che dichiarassero che i bombardamenti erano una rappresaglia per gli assassinii di civili, inclusi specificamente gli ebrei, perpetrati dai nazisti non avrebbe certo prolungato il conflitto. Nel rifiuto di aiutare gli ebrei gli Alleati andarono molto oltre quanto le loro stesse politiche dichiarate, in se erronee e contraddittorie, richiedevano. Essi contravvennero ai loro stessi obiettivi bellici e macchiarono indelebilmente la loro immagine.
Come abbiamo visto, all’origine della posizione degli Alleati, persino nel caso di leader (e viene in mente Churchill) tutt’altro che indifferenti alla sorte degli ebrei, c’era una ragione. Gli Alleati non capirono veramente mai la politica antiebraica dei nazisti. Non prendevano i loro scritti e la loro propaganda alla lettera. Pensavano che l’antisemitismo nazista fosse uno strumento per conquistare il potere e mantenerlo: non si resero conto che, per loro, esso non era un mezzo, bensì uno scopo. Si creò così uno squilibrio: i nazisti vedevano negli ebrei i propri principali nemici, quelli che stavano dietro a tutti gli altri e li controllavano; gli Alleati non compresero, e forse non potevano comprendere, che quella demonizzazione, puramente illusoria, che trasformava una minoranza impotente e indifesa in una minaccia globale, era presa sul serio. Per loro gli ebrei erano solo una seccatura, e per gli inglesi una minaccia ai propri interessi nazionali in Palestina e Medio Oriente. La storia si prese la sua vendetta: gli inglesi non persero solo la Palestina, ma tutto l’Impero. L’avrebbero perso comunque, ma indubbiamente la guerra accelerò il processo. (pp. 309-310)

E oggi, a settant’anni di distanza, abbiamo entità simil-naziste che si producono in carneficine quotidiane, e che in discorsi e proclami e video e con ogni mezzo a loro disposizione annunciano apertamente i loro programmi di sterminio. E non vengono presi sul serio. E si deride chi sostiene che si dovrebbe invece farlo. E anche con noi, purtroppo, prima o poi la storia si prenderà la sua vendetta.

Il libro va letto, naturalmente.

Yehuda Bauer, Ebrei in vendita?, Mondadori
ebrei in vendita
barbara

RACHITISMO

Il rachitismo è una grave e invalidante malattia delle ossa, che colpisce prevalentemente i bambini. Può determinare alterazioni del bacino (cosa che in passato ha provocato un alto tasso di mortalità tra puerpere e feti al momento del parto), asimmetrie del cranio, ritardo e deficit nella crescita, difetti nella struttura dei denti. Sintomo frequente è il dolore osseo, oltre a tutte le difficoltà che le malformazioni creano nella vita quotidiana.
La causa principale del rachitismo è di natura alimentare, ossia la carenza di vitamina D, responsabile dell’assorbimento del calcio nell’intestino e del suo fissaggio nelle ossa, carenza che nel bambino provoca appunto il rachitismo, e nell’adulto l’osteomalacia. La vitamina D si trova nei pesci grassi, nel latte e nei latticini, e nelle uova.
Fino a qualche decennio fa capitava abbastanza spesso, andando per strada, di poter godere dello spettacolo di questi esseri deformi, storti e contorti, che trascinavano faticosamente i loro miseri corpi. Poi è successo che l’accresciuto benessere (ah, il maledetto capitalismo!) ha messo a disposizione di un sempre crescente numero di persone cibi di origine animale, e il popolo vi si è sconsideratamente buttato sopra, facendo così sparire questo ameno fenomeno. Ma niente paura: grazie alla benemerita setta dei vegani, che allattano perfino i neonati col famigerato e puzzolente latte di soia, molto presto torneremo a godere dello spettacolo di gambe che formano cerchi pressoché perfetti (o parentesi contrapposte), corpi più contorti di un ulivo di montagna, piedi che non possono sorreggere il corpo, donne impossibilitate a partorire, bambini che non si possono toccare altrimenti attaccano a urlare dal dolore.

Parlando seriamente, io credo che i vegani, e soprattutto i propagandisti di questo delirio, andrebbero processati per crimini contro l’umanità: fra lo sterminio delle generazioni presenti e quello delle generazioni future, faccio davvero fatica a vedere differenze. O la galera, o il manicomio criminale, fate un po’ voi. L’importante è non lasciarli a piede libero (poi magari se hai un po’ di tempo vai anche qui)

veganamenti
barbara

ANTON L’ALLEVATORE DI COLOMBE

La mia nonna paterna era convalescente da un ictus. Riusciva a camminare aiutandosi con un bastone. Tremavo al pensiero di doverla portare là. I nazisti stavano preparando qualche azione subdola. Sapevo che l’ospedale non era abbastanza grande per accogliere tutti gli ammalati del ghetto.
Quando fui ritornato dalla piazza, mia madre studiò la mia espressione. Nel suo sguardo si leggeva lo spavento. Mi domandò che cosa stesse succedendo là fuori, che cosa dicesse la gente, e io le mentii. Non parlai dei riflettori, ma compresi che sapeva quel che sarebbe accaduto.
Aveva riempito la sua valigetta, e il suo impermeabile, accuratamente ripiegato, era steso sul divano, come se dovesse partire per un viaggio che l’avrebbe tenuta fuori per la notte, come accadeva di solito prima della guerra. Pronunciammo solo poche parole: comunicavamo attraverso il silenzio, con il cuore in tumulto. Mio padre tirò fuori il vecchio album delle foto di famiglia e si mise in piedi vicino alla finestra, voltando lentamente le pesanti pagine. Guardai sopra la sua spalla e vidi che stava osservando il proprio ritratto nuziale. Lo trasse fuori dall’album e se lo mise nella tasca interna del vestito. Feci finta di non aver visto.
[…]
Era passato mezzogiorno, e mia madre era indaffarata in cucina. Aveva trovato della farina e qualche patata che era riuscita a mettere da parte, e arrivò con una zuppa deliziosa e frittelle di patate cosparse di cipolle fritte. Mi chiedevo: sarà questo il nostro ultimo pasto insieme?
Entrarono alcuni amici e vicini con espressioni spaventate sul volto, a confermare le voci sulla deportazione imminente e a dire arrivederci. Venne la famiglia Zilber, e piangevano tutti. Non riuscivo a impormi di dire ‘arrivederci’ a nessuno: temevo che non li avrei rivisti mai più.
Erano quasi le quattro del pomeriggio quando mia nonna, con indosso il suo vestito migliore, uscì dalla propria camera. Se qualcuno avesse voluto accompagnarla all’ospedale, disse, lei era pronta. Ci offrimmo mio fratello e io. Lei insistette per camminare da sola, così la sorreggemmo appena per le braccia nel caso incespicasse. Camminava diritta, con la testa alta; a tratti guardava uno di noi due senza dire una parola. La gente ci sorpassava confusa. Sembravano uccelli in gabbia in cerca di una via di fuga. Un uomo di una certa età, che portava sulle spalle un fagotto enorme, ci fermò e ci chiese l’ora. «Che bisogno ha di sapere l’ora?», chiesi. Mi guardò come turbato dalla domanda e rispose: «Presto sarà il momento della preghiera della sera, non lo sai?». E continuò per la propria strada, parlando tra sé e tenendo lo scomodo fagotto in equilibrio sulle spalle.
Quando raggiungemmo il portone dell’ospedale, mia nonna insistette perché la lasciassimo lì. Sarebbe andata avanti da sola. Con il cuore grosso le diedi un bacio di commiato. Sorrise e si volse verso di noi, dicendo: «Com’è che si dice in questi casi? ‘State bene’?» Poi sparì dietro la cadente porta imbiancata dell’ospedale. Avevo bisogno di piangere, ma mi vergognavo di farlo davanti a mio fratello maggiore. Deciso a dar prova di quanto fossi duro, trattenni le lacrime. Tornammo indietro camminando in silenzio, probabilmente pensando entrambi alla stessa cosa.
Non dimenticherò mai il ritorno a casa dopo aver accompagnato la nonna all’ospedale. Mia madre era in cucina a salutare una delle sue amiche. Non l’avevo mai vista piangere come allora. Quando ci vide ci corse incontro e tra le lacrime ci supplicò di darci alla macchia. Ci implorò di rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo. La sua amica piangeva con lei, e io mi sentii spezzare il cuore.
Entrò un vicino a dirci che il ghetto era circondato da uomini delle SS armati e che la deportazione stava ufficialmente per avere inizio. La polizia del ghetto era in stato di massima allerta, ed era impossibile ricavarne alcuna informazione.
Mio fratello e io ci voltammo e corremmo fuori di casa. Senza fermarci, corremmo per tutto il ghetto fino ad arrivare, grondanti di sudore, alla recinzione. Dall’altra parte del recinto c’era un circolo di ufficiali nazisti; più in là, in mezzo a un campo, una scuderia. Le guardie ucraine, con i loro fucili, erano ormai all’interno del ghetto. Scavalcammo la recinzione alle loro spalle, e fummo dall’altra parte. Entrammo nella stalla da una porta laterale. Per quel che potevo vedere, non c’era nessuno. I cavalli girarono la testa e ci osservarono. Mio fratello decise che dovevamo nasconderci separatamente, così che, se uno di noi fosse stato scoperto, l’altro avrebbe avuto ancora una possibilità. Mi arrampicai sui travicelli fin sopra a una piattaforma di legno incastrata tra due grosse travi. C’era abbastanza fieno per potermi coprire, e mi distesi bocconi. Attraverso le larghe fessure tra le assi della piattaforma potevo scrutare tutta la scuderia sotto di me. Scoprii anche una fessura nel muro che mi consentiva un’ampia vista della strada dall’altra parte della scuderia.
[…]
Nel rimettere a posto il panino sentii la porta che si apriva e vidi entrare un uomo. Camminò fino all’altro capo della scuderia e depose un pacchetto in una cesta. Poi si prese cura dei cavalli, fischiettando una vecchia canzonetta polacca. Dev’essere lo stalliere, pensai. Sembrava ancora giovane, anche se non potevo vederlo chiaramente in viso: aveva un’andatura svelta e portava con facilità pesanti balle di fieno. Temetti che facendo quel trambusto potesse attirare attenzione; si mise ad andare e venire, riempiendo d’acqua il secchio da cui bevevano i cavalli.
[…]
Dovetti cadere addormentato. Quando mi svegliai, udii forti rumori provenire da dietro la recinzione. Guardai attraverso la fessura nel muro: fuori era buio. D’un tratto risuonò forte un coro di pianti e grida, inframmezzato da voci che urlavano ordini in tedesco. Seguirono dei colpi di fucile, e altre voci che invocavano dei nomi trafissero l’oscurità. All’udire grida di bambini rabbrividii.
Mi sembrò di sentire le urla del mio cuginetto di quattro anni, che era là con la madre – mia zia -, la sorella di quest’ultima e le sue due bellissime figliolette. Erano tutti là, in trappola, disperati e inermi. Pensai al signor Gutman, il nostro amico che, qualche anno prima, aveva dichiarato che Dio era in esilio. Mi chiesi dove fosse e che cosa dicesse ora. Ero in ansia per mia nonna e per quello che le stavano facendo all’ospedale. Spaventato e pieno di apprensione com’ero, decisi di andare avanti, di non arrendermi.
Sentii il cigolio della porta; guardai giù e vidi scivolare fuori lo stalliere, che fermò la porta con un sasso per tenerla aperta. I rumori che provenivano dall’esterno si facevano più forti; i cavalli divennero inquieti e cominciarono a nitrire. I colpi di fucile erano più frequenti e risuonavano molto più vicini di prima. Tutti quei rumori proseguirono per la maggior parte della nottata. Sembrò un’eternità.
In mezzo a quella moltitudine che urlava e piangeva, immaginavo mia madre che mi implorava di rimanere vivo, e potevo udirla invocare aiuto. Cominciai a domandarmi se mio padre fosse con lei e dove fosse mia sorella.
Era quasi l’alba quando i rumori cominciarono ad attenuarsi. Stava sorgendo il sole; sembrava l’inizio di una calda giornata d’agosto. Si udivano ormai solo sporadici colpi di fucile, e un forte ronzio che faceva pensare a sciami di api che volassero in alto: era il rumore di migliaia di piedi strascicati sul selciato. Guardando attraverso la fessura nel muro, potei vedere lunghe colonne di persone scortate da uomini delle SS armati, con cani al guinzaglio. La maggior parte della gente portava in spalla degli zaini; altri tenevano tra le braccia quel che rimaneva delle loro proprietà. Fissai lo sguardo su tutte le persone che potevo, nella speranza di riconoscere un volto. Volevo sapere se mia madre era tra di loro, e cominciai a sforzare gli occhi, finché non ci vidi più. Mi chiedevo se mio fratello, all’altra estremità della scuderia, fosse in grado di vedere fuori. Dalle posizioni in cui ci trovavamo, non avevamo modo di comunicare.
[…]
Improvvisamente udii delle voci sotto di me. Prima di capire di chi fossero, vidi lo stalliere che si arrampicava verso il mio nascondiglio. Non riuscivo a capacitarmene. Smisi di respirare. Due uomini delle SS, con l’elmetto d’acciaio e il fucile, stavano in piedi sulla porta e guardavano lo stalliere che saliva. Lui arrivò vicino alla piattaforma su cui ero steso e a voce alta mi disse di scendere. «Sono venuti a prenderti», disse. «Lo sapevo che eri lì nascosto. Non puoi farmi fesso.» Ero scoperto.
Poi andò nel punto in cui era nascosto mio fratello e gli disse di uscire. Fummo entrambi picchiati a sangue dalle SS prima di essere nuovamente scortati nel ghetto. La prima cosa che vidi nel ghetto fu un grosso carro da traino su ruote gommate carico di cadaveri nudi. Su di un lato, schiacciata contro le assi, c’era mia nonna. Sembrava guardare diritto verso di me.
Non c’è vocabolario al mondo che contenga le parole adatte a descrivere ciò che vidi in seguito. Mia madre mi aveva implorato di recarne testimonianza in qualunque modo. Per tutti questi anni ho continuato a parlare e a raccontare, e non sono sicuro che qualcuno mi ascolti o mi capisca. Io stesso non sono sicuro di capire.
La notte seguente, mio fratello e io riuscimmo miracolosamente a sfuggire alla deportazione finale, e tutto per essere spediti ai campi separatamente poco tempo più tardi. Non vidi mai più mia madre, né fui più in grado di trovare una sua fotografia. Ogni volta che desidero ricordarla, chiudo gli occhi e penso a quella domenica d’agosto del 1942, quando la vidi seduta nel nostro giardino nel ghetto, mentre piangeva dietro la pianta di lillà.

mia madre che mi implorava di rimanere vivo
rimanere in vita, così da poter raccontare al mondo quello che fosse successo

Un po’ grazie alla determinazione e un po’ (un po’ tanto) alla fortuna, Bernard è riuscito ad esaudire il desiderio della madre: è sopravvissuto, e ha passato la vita a rendere testimonianza. Lo fa, qui, con ventuno bellissimi racconti, non tutti drammatici come quello da cui ho tratto questi brani, che meritano davvero di essere letti.
Nota a margine: leggere di questi due fratelli che decidono di separarsi con la speranza che, se qualcosa va storto, almeno uno dei due si salvi. E ricordare come, sessant’anni più tardi, in Israele – dopo gli accordi di Oslo, dopo la stretta di mano sul prato della Casa Bianca, dopo i premi Nobel conferiti ai protagonisti di quell’evento per il loro straordinario contributo alla pace, e prima del “muro” (dell’odio, della vergogna, dell’apartheid), le mamme mandavano i figli a scuola su due autobus diversi con la speranza che, se un autobus saltava in aria, almeno uno dei due si salvasse. L’odio cambia, a volte, leggermente la maschera. Mai la faccia.

Bernard Gotfryd, Anton l’allevatore di colombe, Guanda
Anton l'allevatore di colombe
barbara

POI LA SHOAH FINISCE

E arriva Ze’ev Tibi Ram, uno dei due sopravvissuti alla Shoah che hanno combattuto in tutte le guerre di Israele. Tibi è il perfetto simbolo del “Shoah ve Tkuma”, Shoah e rinascita. Proprio in quanto sopravvissuto alla Shoah – in cui ha perso tutta la famiglia – Tibi comprende meglio di chiunque altro l’importanza di difendere lo stato ebraico.
Ora è l’orgoglioso nonno di un soldato dell’esercito israeliano.

barbara

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

Riservata ai signori negazionisti che, da quando un noto blog negazionista ha ripreso il mio post sulle camere a gas con relativi commenti, mi stanno infestando il blog come orde di cavallette.
Egregi signori, se vi fa piacere pensare che io non vi rispondo perché non ho argomenti, pensatelo. Se vi fa piacere pensare che Mattogno sia un grande storico e che abbia “fatto a pezzi” la Pisanty, pensatelo. Se vi fa piacere pensare che io mi stia rodendo il fegato perché voi siete tanto ganzi e io miserina e meschinella no, pensatelo. Qualunque cosa vi venga voglia di pensare, pensatela, se ciò può servire a dare un senso alle vostre vite. Quello che vorrei vi fosse chiaro è che ciò che voi pensate non mi riguarda e non mi interessa: SONO CAZZI VOSTRI – e chi non ama il turpiloquio si accomodi pure da un’altra parte. La seconda cosa che vorrei vi fosse chiara è che di vostre deiezioni ne ho pubblicate quanto basta per documentare ciò che deve essere documentato. D’ora in poi non ne saranno pubblicate più; se avete tempo da buttar via per continuare a scriverne, accomodatevi; sappiate però che io di tempo per leggere i vostri liquami non ne perderò. FINE DELLE TRASMISSIONI.

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