C’è un racconto ebraico: un mendicante va dal suo rabbino e chiede, spiegami rabbino, che io non capisco: busso alla porta di un povero che in casa non ha altro che un pezzo di pane, e lui prende il pezzo di pane e lo divide con me; busso alla porta di un ricco che ha la dispensa piena, e quello mi caccia in malo modo: perché? Il rabbino lo invita ad andare alla finestra e descrivergli quello che vede, e il mendicante comincia a dire: vedo la strada, due alberi, una donna con un bambino per mano, un uomo in bicicletta… Poi il rabbino lo manda davanti a uno specchio e, ugualmente, gli chiede di descrivere quello che vede. Perplesso per una richiesta che gli appare assurda, il mendicante risponde: la mia faccia vedo, e che altro dovrei vedere? Vedi – spiega il rabbino – è sempre vetro, ma appena ci metti dietro un po’ d’argento, non vedi più altro che te stesso.
Povera tra i poveri è Fula; povera e per giunta appartenente ai rifiuti dell’umanità, i dalit, i fuori casta, quelli che gli altri “Se potessero, non starebbero neppure sotto la stessa pioggia che scende dal cielo, con gente come noi”. E non è una donna sterile con vuoti da riempire: ha già tre figli, lei. E tuttavia non esita un solo istante a raccogliere quella neonata urlante e sanguinante abbandonata presso i binari, ignorando le perplessità del marito, a stringersela al petto e decidere di tenerla con sé. La bambina è di pelle più chiara, ma vivendo con la famiglia dalit diventa automaticamente parte dei fuori casta, ossia persona priva di ogni diritto, cominciando da quello allo studio. Al villaggio, a dire la verità, una scuola ci sarebbe, ma il maestro, quando non dorme perché troppo ubriaco, oltre a bastonare furiosamente i bambini non fa altro che far loro ripetere fino allo sfinimento pezzi di alfabeto e qualche numero, cosa che fa disperare Bharti, per la quale lo studio è la passione più grande, ma le scuole private, le uniche in cui c’è la possibilità di imparare davvero, costano, e nessun dalit se ne può permettere la retta.
Bar ama baro, “impara o insegna”, dice un proverbio somalo, con la saggezza concreta dei popoli che per sopravvivere possono contare solo sulle proprie forze. La mente non deve sostare, se non sei impegnato a imparare, provvedi a trasmettere ciò che hai imparato. E questa sembra essere la filosofia della piccola Bharti, messa immediatamente in pratica: appena esce dalla scuola, alla fine di quelle noiosissime e inutili lezioni, si siede all’ombra del grande mango, e i bambini più piccoli si siedono intorno a lei e ne ricevono a loro volta il poco sapere che è riuscita ad acquisire. A segnare la svolta sarà un imprevisto e tragico evento, che cambierà la vita di tutti, e aprirà a Bharti la via del sapere.
Dalla postfazione
In India, più di un bambino su cinque non va a scuola. Metà degli allievi lascia gli studi alle elementari, prima degli undici anni. L’analfabetismo riguarda più di ottanta milioni di bambini. Cifre allarmanti, che tuttavia non devono offuscare l’evoluzione che il paese ha conosciuto dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1947.
Nel suo discorso del primo aprile 2010, il primo ministro indiano Manmohan Singh annuncia che la scuola diventa obbligatoria per tutti i bambini dai sei ai quattordici anni. Ufficialmente, la misura riguarderebbe più di dieci milioni di bambini delle aree sfavorite, fino a quel momento esclusi dal sistema scolastico. Ma la cifra, secondo gli esperti, è molto più alta.
Se questa nuova legge riflette intenzioni nobili e sincere, la sua applicazione si scontra con numerosi ostacoli, in particolare la carenza di insegnanti preparati e di scuole adatte ad accogliere l’ondata di nuovi allievi, soprattutto nelle zone rurali.
Dopo anni di campagne di sensibilizzazione, condotte in principal modo dalle organizzazioni umanitarie o dalle Nazioni Unite, gli adulti sembrano aver compreso l’importanza di dare un’educazione ai loro figli. Anche nelle regioni più isolate e arretrate, ormai sono in pochi a non realizzare le conseguenze benefiche di una scolarizzazione continua. Però, nella vita quotidiana, mandare un bambino a scuola costituisce spesso una difficoltà insormontabile, soprattutto per le famiglie più povere. Per loro, il costo della scuola è ancora troppo elevato: le rette, anche minime, a volte rappresentano quanto spende la famiglia per mangiare una settimana. Inoltre il retaggio coloniale impone ai bambini di portare l’uniforme: altre centinaia di rupie supplementari da reperire. Senza dimenticare le spese di trasporto per arrivare alla scuola più vicina. È vero che esistono sovvenzioni regionali e nazionali, ma molto spesso la corruzione impedisce a questi aiuti cruciali di arrivare ai beneficiari.
Gli adulti inoltre preferiscono far lavorare i bambini. Una consuetudine difficile da estirpare da parte delle autorità perché spesso sono i parenti, uno zio, una zia, che impiegano i loro figli e nipoti. Una manodopera gratuita, esclusiva e disponibile. Un droghiere userà suo figlio per fare le consegne, un agricoltore come manodopera durante il raccolto e la semina… E cosa dire delle ragazze attirate da un salario da donna delle pulizie, o che aiutano regolarmente la loro madre con le incombenze quotidiane quando invece dovrebbero essere sui banchi di scuola?
Nel caso delle famiglie più povere, capita che siano i bambini stessi i primi a voler contribuire alle spese per la propria sussistenza. Hanno così l’impressione di non essere più un fardello e di responsabilizzarsi, una qualità incontestabile in una società fondata sul rispetto e l’accettazione della gerarchia familiare.
Esiste inoltre una grande disuguaglianza tra ragazzi e ragazze. Se al ragazzo spetta il compito di perpetuare il nome di famiglia e di vegliare sullo svolgimento dei riti induisti, la ragazza, che porterà il nome del marito, è considerata un peso. Un proverbio indiano dice che “avere una figlia è come annaffiare il giardino del vicino”. Significa che una ragazza deve essere nutrita e cresciuta per anni, ma alla fine sarà la famiglia dello sposo a trarne profitto. E la pratica della dote, che è sempre diffusa nonostante sia vietata, costituisce un carico finanziario supplementare per i genitori. Il fenomeno è ben noto, così come le sue derive, per esempio l’aborto. L’ecografia prenatale è proibita in India proprio per prevenire l’aborto selettivo. Ma anche in questo campo, la corruzione consente di aggirare le leggi. I medici, per esempio, consegnano i risultati delle analisi in buste rosa o azzurre, secondo il sesso del bambino. Non appena si denuncia un’astuzia, ne viene escogitata un’altra.
Questo fenomeno ingiusto e pericoloso – in alcuni stati la carenza di donne in rapporto al numero di uomini è ormai una piaga – riguarda tutti gli indiani, indipendentemente dalla loro origine e dal loro stato sociale.
Il sistema delle caste risale a millenni fa. Casta significa “puro, non mischiato”. Concepito inizialmente per definire il ruolo di ciascuno nella società, secondo le competenze e l’abilità nel lavoro, oggi si basa esclusivamente sull’ereditarietà delle origini. In caso di matrimonio misto, relativamente raro, gli sposi adottano la casta più elevata.
In cima a questa gerarchia sociale c’è il bramino (”cuore puro e intelletto superiore”), al gradino più basso i dalit, gli intoccabili che rappresentano l’impurità. La loro possibilità di ascesa sociale è molto limitata: essi sono relegati ai lavori sporchi, come la raccolta degli escrementi. In India se ne contano quasi centosessanta milioni e sono le prime vittime di questo sistema di discriminazione, oggi proibito dalla Costituzione indiana, redatta peraltro da un intoccabile. Gandhi li chiamava harijan (”figli di Dio”). Gli intoccabili preferiscono il termine politico più appropriato di dalit (oppressi).
Questo testo non è dell’anteguerra: è di due anni fa. Nella narrazione in prima persona della vita quotidiana di Bharti, è possibile trovare una rappresentazione concreta di ciò che è ancora oggi, almeno nelle zone rurali, la vita di un intoccabile.
Bharti Kumari, La maestra bambina, Piemme

barbara