A PROPOSITO DI SERVIZI SOCIALI

Verrebbe da dire che questa piaga sociale che va sotto il bizzarro nome di “servizi sociali” sia un male comune con caratteristiche comuni ovunque e causa di disastri ovunque. Ricordo ancora con raccapriccio la storia raccontatami quasi trent’anni fa da una signora svizzera. Suo figlio, ancora giovanissimo, aveva messo incinta la fidanzata e l’aveva sposata. Quando il bambino aveva un paio di mesi, la madre era già in giro a scopare a destra e a manca, e poco dopo i due si sono separati. Un anno dopo ha preso il bambino, lo ha consegnato a un orfanotrofio ed è scomparsa per sempre. Informata di quanto accaduto, si è immediatamente presentata insieme al marito per chiederne l’affidamento, ma i servizi sociali hanno rifiutato con l’argomento che “i nonni sono vecchi e non possono dare una prospettiva futura al bambino”. La nonna, per inciso, in quel momento aveva quarantacinque anni. Il bambino è stato affidato a una famiglia, e veniva periodicamente visitato da padre e nonna. Ad un certo punto si sono accorti che il bambino aveva sempre le orecchie piene di croste, e ci è voluto un po’ prima che si rendessero conto che non era sporco bensì sangue: il bambino veniva sistematicamente seviziato. Informati i servizi sociali, hanno fatto togliere il bambino da quella famiglia e la nonna ha nuovamente richiesto l’affidamento: richiesta respinta. Il bambino è stato affidato a una seconda famiglia, in cui ha nuovamente trovato violenze di ogni sorta. Nuova denuncia, nuovo ritiro del bambino dalla famiglia affidataria, nuova richiesta della nonna, nuovo rifiuto, e l’odissea è andata avanti.
A vent’anni c’è stato il primo tentativo di suicidio da parte del ragazzo. Quando la signora mi ha raccontato la storia ne aveva ventiquattro, e i tentativi erano arrivati a quattro, sempre salvato in extremis, l’ultima volta dal padre, rientrato in anticipo rispetto al previsto. Pochi mesi dopo c’è stato il quinto, e quello gli è finalmente riuscito.
Ma in Svizzera hanno i treni puntuali.

barbara

IL GIUSTO CHE NON CONOSCEVAMO

Proprio allora, quando l’inferno si approssimava. Proprio allora quando tutte le porte, una dopo l’altra, si chiudevano in faccia alla speranza di scampare alla tragedia ormai imminente. Proprio allora, quando la Svizzera chiedeva al governo tedesco di stampigliare una J per Jude sui passaporti degli ebrei in modo da poter riconoscere subito chi doveva essere respinto e gli Stati Uniti rifiutavano di aderire persino a quella minima opera umanitaria messa in atto dalla Gran Bretagna, ossia l’accoglienza di un certo numero di bambini da strappare alle fauci naziste (con la strepitosa argomentazione che… sarebbe stato crudele separare dei bambini dai genitori). Proprio allora accadde che una porta, inaspettatamente, si aprì: quella delle Filippine, per mano del loro presidente Manuel Quezon.

Poiché a quest’uomo generoso non poteva essere decretato il titolo di “Giusto fra le nazioni”, spettante unicamente a chi, per salvare ebrei, ha messo a repentaglio la proprio vita, e d’altra parte Israele non poteva ignorare il debito di riconoscenza che aveva verso quest’uomo e verso la sua nazione, è stata infine decisa la creazione di un monumento a Rishon LeZion, chiamato Open doors:
Israel-Open-Doors-Monument
tre porte spalancate, come ci spiega Giorgio Bernardelli, di dimensioni tra loro diverse. Tre porte che in un gioco di forme geometriche intrecciate, vanno a comporre tanto il triangolo della bandiera filippina quanto la stella di Davide della bandiera israeliana.

barbara