Emanuel, pare che siano sorte delle polemiche, in ambito comunitario, in merito a una tua intervista apparsa su La Repubblica: potresti spiegarci che cosa è accaduto?
Ritengo che, per i lettori, sia necessario fare un passo indietro.
Era stata annunciata da tempo una tavola rotonda che si terrà a Torino con la partecipazione del sindaco Fassino e dell’ex segretario generale dell’UNRWA il prossimo 2 dicembre. In tale ambito era prevista una mostra sui profughi palestinesi.
Quando, pochi giorni or sono, mi sono reso conto che il tutto sarebbe avvenuto presso il Museo Diffuso di Torino che, tra le varie denominazioni, riporta anche “della Resistenza”, ho espresso in Consiglio della Comunità l’invito a inviare immediatamente una lettera alla Direzione del museo per metterla in guardia dal concedere le sale ad un ente che, pur operando per conto delle Nazioni Unite (o magari proprio per tale ragione, anche se non è politically correct dirlo) si è mostrato ostile proprio verso gli ebrei, e non solo verso gli israeliani, come ampiamente dimostrato dagli insegnamenti impartiti ai bambini palestinesi nelle sue scuole. Pure le ripetute collusioni della direzione dell’UNRWA con Hamas, ente riconosciuto come terrorista da USA, EU e dalla stessa ONU, dimostra la mancata considerazione da parte dell’UNRWA di quanto scritto nello statuto di Hamas. Il Consiglio della Comunità ha tuttavia scelto di aspettare l’imminente inaugurazione della mostra prima di esprimersi.
Mi sono quindi recato personalmente sia alla presentazione della mostra stessa giovedì 13 novembre, sia alla sua inaugurazione ufficiale, ed in tale occasione ho preso nota di tutto quanto dichiarato dagli oratori (è davvero ammissibile, in un museo che celebra la nostra Resistenza, fare un parallelismo con uno spietato terrorismo che gli organizzatori pretendono di chiamare “la resistenza palestinese”?) ed ho scattato numerose fotografie delle immagini esposte con le loro didascalie e di altre proiettate nei video. Lasciamo perdere la oramai ben nota didascalia che denuncia il massacro fatto a Sabra e Chatila dall’esercito israeliano (sic),
ma tutta la mostra appare come una voluta denuncia degli asseriti crimini israeliani senza che venga spiegato nulla di quanto Israele da tempo dichiara al mondo intero e, in particolare, proprio al Consiglio delle Nazioni Unite, per spiegare quanto succede sulle spalle dei palestinesi.
A questo punto anche il consiglio della Comunità di Torino non ha potuto esimersi dal decidere di scrivere una dura lettera di protesta alla direzione del Museo, lettera che dovrà essere inviata anche ai vari Enti che hanno assicurato la propria adesione alla mostra (dalla Presidenza della Repubblica al Consiglio dei Ministri per proseguire con Comune, Provincia e Regione, oltre ad altri enti).
Questa lettera doveva venire approvata mercoledì 19 e, in qualche modo, la notizia è giunta alle orecchie di una giornalista di Repubblica della redazione di Torino, la quale mi richiese insistentemente, per telefono, di fargliene pervenire copia entro le ore 16 del giorno stesso per non perdere l’occasione del solito scoop. Siccome la lettera, da me stesso preparata in bozza (e chissà chi lo aveva preannunciato alla giornalista!), quando essa mi telefonò, doveva ancora essere approvata, le risposi che ben difficilmente avrei potuto inviargliela prima di sera, che poi divenne notte inoltrata per dare spazio a numerosi suggerimenti, in gran parte dal presidente e da me stesso accolti.
In breve, potei inviarle il testo della lettera, come poi fu inviata alla direzione del Museo, solo nella prima mattinata di giovedì 20, ma grande fu la mia sorpresa quando mi accorsi che proprio nella stessa giornata Repubblica aveva pubblicato un articolo presentato come intervista al sottoscritto che, non essendo mai stata effettuata, riportava fatti e pensieri del tutto inventati.
Questo, anche se sono stato un po’ prolisso, è il resoconto dell’antefatto.
Quali sono state le conseguenze di questa improvvida iniziativa della giornalista di Repubblica?
Premesso che l’articolo pubblicato su Repubblica era, a mio parere, piuttosto inutile e, di per sé, non avrebbe meritato più della mail da me inviata alla giornalista nella quale prendevo le distanze dalle sue fantasie, è successo che Anna Segre l’ha raccolto per scrivere un pezzo pubblicato su Moked venerdì 21 il cui contenuto era anche condivisibile. Purtroppo Anna chiudeva con queste parole: ” È vero che le discussioni sono parte essenziale della nostra identità, ma non mi risulta sia vietato litigare per argomenti su cui ci siano reali differenze di opinione; così come non mi risulta sia obbligatorio che le nostre discussioni vadano a finire sui giornali”.
A questo punto, essendo evidente che per Anna sarei stato io ad aver sbagliato a diffondere ai giornali notizie che avrebbero dovuto restare riservate, ho prima parlato con Anna Segre che, una volta conosciuta la realtà dei fatti, ha compreso che io ero estraneo a quanto mi veniva rimproverato, e, successivamente ho inviato al direzione di Moked la richiesta di pubblicazione del seguente chiarimento: “Leggo su Moked di venerdì 21.11 l’articolo di Anna Segre che fa riferimento all’intervista fatta al sottoscritto e pubblicata su Repubblica di giovedì 20.11. Anna Segre termina molto opportunamente il suo articolo con queste parole: ‘non mi risulta sia obbligatorio che le nostre discussioni vadano a finire sui giornali’. Condivido queste parole, anche perché non mi risulta che mi sia stata fatta intervista alcuna”. Purtroppo il direttore dell’organo dell’Unione delle Comunità ha rifiutato di pubblicare queste poche parole se prima Repubblica non avesse smentito di avermi fatto un’intervista nella quale io avrei fatto quanto pubblicato nelle pagine torinesi. Insomma, io, vice presidente di una Comunità Ebraica italiana, non posso accedere con queste semplici parole all’organo dell’Unione e devo subire, in silenzio, un’accusa infondata.
Quindi, in definitiva, per poterti difendere dall’accusa (infondata) di avere lavato dei panni sporchi fuori casa ti stai vedendo costretto a rivolgerti fuori casa, perché in casa non ti viene consentito di farlo…
Già, questo è l’assurdo della situazione che si è venuta a creare. Pur essendo vice presidente di una Comunità Ebraica italiana, e certamente Repubblica mi ha interpellato in quanto tale, non mi è stato possibile far pubblicare sull’organo dell’Unione delle Comunità Italiane la semplice dichiarazione sopra riportata.
Ancora una domanda: ho letto che le pesanti critiche alla mostra sarebbero strumentali, dal momento che la stessa mostra, prima di essere trasferita a Torino, sarebbe stata esposta a Roma, precisamente a Montecitorio, dove nessuno avrebbe notato alcunché di scorretto. Che cosa ci puoi dire in proposito?
La direttrice dell’UNRWA, Tana De Zulueta, in occasione della presentazione e dell’inaugurazione della mostra torinese, ha pronunciato queste parole: “La mostra arriva per la prima volta in Europa qui a Torino” e: “La mostra in Italia nasce qui, oggi, e a Roma c’è stata solo una piccola mostra alla Camera, e in effetti nasce qua”. Ha anche aggiunto, circa una precedente mostra esposta a Gerusalemme: “Qui non è come a Gerusalemme; si è aggiunto del materiale e la mostra parla meglio”. In definitiva, chissà chi ha visto questa mostra a Roma; nessuno può esprimere un giudizio senza la conoscenza diretta e, soprattutto, completa. Ma purtroppo la mostra aperta e visitabile a Torino parla molto chiaramente! E in futuro la Mostra girerà per l’Europa con l’aureola di essere già stata ospitata nel Museo della Resistenza di Torino!
Ringrazio Emanuel Segre Amar, vice presidente della Comunità Ebraica di Torino, per averci offerto la possibilità di avere una visione un po’ più chiara e completa di questa brutta vicenda.
barbara