E OGGI PARLIAMO DELLA CINA

Quella che ha messo in galera ed eliminato fisicamente tutti i medici, virologi, giornalisti che avevano tentato di dare l’allarme sull’epidemia che stava esplodendo. Quella che ha fermato tutti i voli interni ma non quelli per l’estero, e che non ha accettato di dichiarare l’epidemia fino a quando non è stata ben sicura che il virus avesse ormai raggiunto tutto il mondo, e poi ha iniziato a venderci a caro prezzo tutti i dispositivi medici necessari, compresi quelli che il nostro governo, criminalmente sconsiderato, le aveva regalato. Quella di cui già ho parlato qui, qui, qui e in infinite altre occasioni che ora non ho voglia di cercare. Quella che allena milioni di bambini in questo modo

affinché uno su centomila diventi un campione e gli altri, che soffriranno per tutta la vita delle conseguenze delle torture subite, si fottano, noi siamo fieri comunisti, mica checche capitaliste, che diamine.

Torno a parlarne per denunciare il genocidio attualmente in atto. Sappiamo bene – anche di questo si è ampiamente parlato qui – che i genocidi sono una specialità comunista (sì, certo, anche comunista), ma questo è il primo del dopoguerra, dopo quello tedesco e quello giapponese, ad essere messo in atto dai medici

E poi voglio parlare – in realtà questo, più ancora che con la Cina e la sua feroce persecuzione dei cristiani, ha a che fare col sedicente papa dei cattolici – del cardinale Joseph Zen:

“Il cardinale cinese Joseph Zen, nonostante l’età (88 anni) e gli acciacchi, vola da Hong Kong a Roma, per perorare la causa della chiesa cattolica cinese contro i tiranni comunisti di Pechino. Zen, per 4 giorni, attende invano di essere ricevuto da quello che supponeva fosse il Pontefice…
E’ ripartito, oggi, con l’amara consapevolezza di non esser stato ascoltato, a causa della propria “inopportuna” opposizione alla nomina di Peter Choi come nuovo vescovo di Hong Kong, uomo gradito a Xi Jinping, ergo disastroso per le sorti della comunità cattolica.
La Cina è vicina, anzi è di casa a Santa Marta.” (qui)

Ma, a pensarci bene, il cardinale può ringraziare di non essere stato preso a schiaffi, come capitato lo scorso dicembre alla sua connazionale che tentava di fermare il sedicente papa cattolico per farsi ascoltare sulla persecuzione di coloro che, convinta che quell’individuo fosse cattolico, riteneva essere suoi correligionari.

Ma ancora più, se possibile, degli schiaffi, colpisce la sua faccia, quell’espressione cattiva, dura, rabbiosa, malvagia, priva di ogni empatia, priva della più microscopica traccia di sentimento cristiano, o forse, dovrei dire, priva di qualunque traccia di sentimento tout court.

E infine voglio parlare di tiktok, diabolica macchinazione cinese, che il superkattivissimo Trump vuole bloccare. Questo ragazzo spiega di che cosa si tratta e come esattamente funziona.

Mi sto sempre più convincendo che ha ragione chi sostiene che la Cina sia ancora più pericolosa dell’islam, e che vada combattuta con ogni mezzo e con ancora maggiore determinazione.

barbara

OGGI PARLO DI SCUOLA

Martedì scorso ho trascorso sei ore dentro un seggio elettorale, ossia una scuola. Elementare, per la precisione. Avevo da fare, mi era stato chiesto di raccogliere i dati dello spoglio, e giostravo tra cinque sezioni, ma avevo anche del tempo libero, tra un dubbio e l’altro degli spogliatori (- Secondo te questa è valida? – Ssss-sì, però – Mmmm-no, però – L’intenzione però si capisce – Sì, ma non è scritta in modo regolare – Ma l’intenzione di voto è chiara – Ma doveva segnarlo sopra – Però è sul partito giusto – Vabbè, vado a chiederlo al presidente dell’altra sezione che lui ste cose le sa meglio). Tempo per guardarmi intorno. Per leggere. I regolamenti, per esempio, affissi dappertutto. Igienizzare le mani prima di entrare in classe, igienizzare le mani dopo avere fatto questo, igienizzare le mani prima di fare quest’altro, igienizzare le mani quando, igienizzare le mani se… E poi tutte le frequenti “sanificazioni”, e poi miliardi di regole su tutto. Per dare un’idea, ho trovato in rete questo tetraicosalogo.

Back to school [ma dire ritorno a scuola pareva brutto?]: le 24 regole anti-Covid che ti salvano la vita [bum!]

Di Veronica Adriani. 11 Settembre 2020

Le 24 regole per prevenire la diffusione del Covid: ecco cosa fare e cosa non fare quando tornerai a scuola a settembre

RITORNO A SCUOLA

Regole anti-covid per un rientro a scuola in sicurezza — Fonte: Istock

In previsione del ritorno a scuolaOrizzontescuola ha elaborato una lista di 24 consigli per prevenire la diffusione del Coronavirus sulla base del regolamento di prevenzione e contenimento della diffusione del SARS-COV-2.
Queste regole si aggiungono alle misure che i singoli istituti stanno prendendo in questi giorni, come i tamponi rapidi o le misure adottate se non usi la mascherina. Nel frattempo la ministra Azzolina ha fatto sapere che sono previsti test sierologici a campione per gli studenti nel corso dell’anno.
Di seguito riportiamo quindi le 24 regole da seguire una volta tornati in classe. 

REGOLE PER LA PREVENZIONE DELLA DIFFUSIONE DEL COVID-19 

Ecco 24 consigli da seguire per prevenire la diffusione del virus:

  1. Misura la temperatura prima di uscire di casa. Se supera i 37,5°C oppure se hai sintomi influenzali, resta a casa, avvisa i genitori e chiamate il medico di famiglia.
  2. Installa sul tuo smartphone IMMUNI e ricordati di avvisare la scuola se hai avuto contatti sospetti con possibili positivi [NOTA: non se sei andato a trovare la zia che due giorni dopo si è ammalata e che quindi sicuramente in quel momento era già contagiata e contagiosa, no: se hai avuto contatti “sospetti” (se qualcuno poi volesse cortesemente spiegare cosa diavolo sono dei contatti “sospetti”… Sarà mica per caso qualcosa come la “relazione impropria” di Clinton con la stagista? Boh) con “possibili” positivi: ma mastodontiche teste di cazzo, cosa cazzo è un possibile positivo? Uno che potrebbe avere avuto un contatto sospetto con un altro possibile positivo? Ma quanta merda vi siete infilati nel cervello per riuscire a partorire una simile cloaca?!].
  3. Metti sempre nello zaino una mascherina chirurgica di riserva, un pacchetto di fazzoletti monouso e un flaconcino di gel disinfettante per uso personale.
  4. Sui mezzi pubblici indossa la mascherina e mantieni la distanza di 1 metro dagli altri [posso fare una grassa risata?].
  5. Cambia la mascherina ogni giorno oppure quando diventa umida. Attento a non danneggiarla o appoggiarla su superfici non disinfettate.
  6. Cerca di arrivare a scuola tra le 7:45 e le 7:55 già indossando la mascherina. Evita un anticipo eccessivo per non provocare assembramenti.
  7. L’entrata a scuola è dalle 7:48. Raggiungi rapidamente la tua classe senza sostare nei corridoi. Il personale scolastico potrebbe chiederti nuovamente di misurare la temperatura.
  8. Raggiungi il banco e sistema sulla sedia il giubbotto e gli altri effetti personali sotto il banco. Togli la mascherina solo in presenza dell’insegnante, una volta al banco [questa della presenza non l’ho capita].
  9. Indossa la mascherina ogni volta che non sei sicuro di poter mantenere la distanza di 1 metro dagli altri (insegnanti, compagni di classe…).
  10. Durante la lezione puoi chiedere agli insegnanti di uscire dall’aula solo per andare in bagno. Prima di uscire metti una spunta sul tuo nome nell’elenco affisso vicino sulla porta dell’aula [?].
  11. Ogni locale della scuola va arieggiato aprendo le finestre almeno ad ogni cambio d’ora oppure durante la lezione su indicazione dell’insegnante.
  12. Durante la giornata igienizzati più volte le mani, soprattutto dopo aver toccato oggetti di uso comune.
  13. Resta all’interno del settore a cui è assegnata la tua classe, spostandoti solo se necessario.
  14. Vai in giardino durante l’intervallo previsto per il tuo settore.
  15. Rispetta il distanziamento fisico fuori dall’aula servendoti dell’apposita segnaletica. Non intralciare il passaggio nei corridoi.
  16. Per andare in palestra e nei laboratori, utilizza la mascherina e rispetta le distanze.
  17. Fai lo stesso all’interno di palestra e laboratori.
  18. Alla fine delle lezioni in aule diverse dalla tua, disinfetta gli oggetti utilizzati.
  19. Puoi toglierti la mascherina durante le attività sportive, ma mantenendo una distanza di almeno due metri dagli altri.
  20. Porta con te due sacche per lo sport: una con gli oggetti che ti serviranno e una vuota per riporli alla fine dell’attività.
  21. Segui le indicazioni dei docenti in palestra e negli impianti sportivi: accedi agli spogliatori a gruppi di 4-5.
  22. Negli spogliatoi lascia i tuoi effetti personali in corrispondenza del numero indicato dal tuo insegnante.
  23. Quando suona la campanella, resta al tuo posto, indossa la mascherina, riprendi le tue cose e aspetta il tuo turno per uscire. Esci dalla scuola rispettando le uscite previste per il tuo settore, senza sostare negli spazi comuni.
  24. Se avverti sintomi influenzali, avvisa i tuoi professori, che ti accompagneranno in un’aula vicina dove attenderai l’arrivo dei tuoi genitori che ti riporteranno a casa. Una volta a casa, avvisate il medico di famiglia. (qui)

Manca il divieto di scambiare coi compagni matite penne gomme elastici fogli vocabolari e qualunque altro oggetto, che ho letto da alte parti. E mi chiedo: ma c’è qualcuno che si renda conto che stiamo annientando le difese immunitarie di un’intera generazione, ossia che li stiamo assassinando? Letteralmente: con l’igiene assoluta come quella imposta è impossibile il formarsi degli anticorpi, ossia delle difese immunitarie, e il primo batterio in cui tutte queste vittime di una follia delirante inciamperanno – perché non c’è niente da fare, i batteri esistono e prima o poi ci inciampi – il batterio li ucciderà. Io comunque di pericoli non ne corro: non ho mai usato un “igienizzante”, tranne le pochissime volte in cui mi è stato imposto, con severo controllo che lo facessi a dovere, all’ingresso di qualche esercizio, non mi sono lavata le mani una sola volta più del consueto, ossia quando sono sporche, quando vado in bagno e quando devo maneggiare il cibo, mi sono regolarmente infilata le dita in naso occhi e bocca – non necessariamente in quest’ordine e non necessariamente nella stessa seduta – il tutto per tutta la durata dell’epidemia, e per questo ho goduto per tutto il tempo di ottima salute, e ancora continuo a goderne (più o meno come in Somalia, dove sono stata l’unica a mangiare abitualmente verdura cruda, evitata da tutti come la peste in quanto possibile veicolo di infezioni intestinali, e fra tutti i colleghi sono stata quella che ha sofferto meno problemi intestinali di tutti, perché, a differenza di loro, mi sono fatta una vagonata di anticorpi). E leggo poi questa testimonianza.

Rosalba Diana

Dalla bacheca di un amico :

Cito un docente e che Dio stramaledica chi ha organizzato questa colossale presa per culo:
<<È questo che volete per i vostri figli ?
Gli sguardi preoccupati degli alunni mi tolgono il sonno:
“Prof. ma fino a quando ci saranno queste regole?”.
“Prof. posso alzarmi, sono 4 ore che non mi muovo, mi fa male la schiena..”
Si Dario. Puoi alzarti. Ragazzi! Mettete tutti la mascherina. Dario si alza, ma non può andare in giro per la classe. Fermo. In piedi… Ci guardiamo da dietro la mascherina ed io mi vergogno come un ladro per essere lo “sgherro” che gli impedisce di vivere e respirare. “Dario vai in bagno”. Non mi scappa.
Gli occhi cerchiati di stress. “Lo so. Vai lo stesso, mi sembri stanco, fai due passi”. “Grazie prof.”.
Che vergogna.
Gli alunni sono turbati, spaventati. Queste figure asettiche poi che entrano una volta all’ora a spruzzare ovunque “nebbie” disinfettanti.. il terrore di toccare, anche accidentalmente, il compagno… sollevano lo sguardo.. “Mi scusi”…
Agamben qualche mese fa parlava di Requiem per gli studenti. Ci siamo per davvero. Salvare questi ragazzi è responsabilità di Docenti e Genitori. Dalle Istituzioni possono arrivare solo pagine e pagine di Protocolli da applicare. Siamo al 17 settembre. Non reggono. Nessuno regge nella scuola. Il personale ATA è stanco, nervoso. I docenti, quelli normali, pure. Gli studenti si muovono all’entrata e all’uscita come piccoli automi. Qualcuno urla “Le distanze! Rimettiti la mascherina!”. Per il resto tutto è immobile.
Qualcosa – docenti, alunni.. – morirà in noi durante questo periodo infernale. A Verona, un bambino che ha portato per ore la mascherina è svenuto e ha sbattuto la testa sul banco. I media hanno oscurato questa notizia.>> (cit.)

Li stanno massacrando. Li stanno uccidendo. E gli stanno facendo il lavaggio del cervello per convincerli che questa tortura è per il loro bene. Un’intera generazione di alienati, che finirà molto male.
Però adesso tiratevi su, che arriva una buona notizia: la scuola si occupa anche di cose serie e di grandissima utilità; anzi, se ne stava già occupando lo scorso aprile, quando marciavamo sul mezzo migliaio di morti covid al giorno. Guardate un po’ che bello!

Che se poi, Lombroso docet, pensiamo che il promotore ha questa faccia qui

si spiegano parecchie cose. E se pensiamo, oltretutto, che questa canzone non ha MAI avuto alcunché a che fare coi partigiani, ennesima fabbricazione farlocca della sinistra, abbiamo il quadro completo.
E poi vai a leggere anche qui, dopodiché possiamo tranquillamente spararci.

AGGIORNAMENTO:

qui

barbara

QUELLE FAMOSE ANTICHISSIME TRADIZIONI CINESI – PARTE PRIMA

Che vanno rispettate perché sono antichissime. E perché sono cinesi. Che a voler pignoleggiare, ci sono state delle antichissime tradizioni che per garantire solidità a un edificio esigevano di cementare vivo nelle fondamenta un figlio neonato, e di far passare per il fuoco un figlio neonato per ottenere il favore degli dei in qualche impresa che ci si accingeva a intraprendere: dobbiamo rispettarle? Dobbiamo adottarle? Quello che noto è che il mantra “antica tradizione cinese” sembra essere l’argomento principe per chiudere la bocca a qualunque obiezione o critica, come è avvenuto qui, prima nella cosa descritta alla fine del post, poi nei commenti, con minaccia di querele per non avere manifestato il dovuto rispetto nei confronti della “antichissima tradizione cinese”, e con successivo intervento di un altro commentatore che pretende rispetto per una “antichissima disciplina” che, oltre a essere contro natura provoca anche, come raccontato dal commentatore stesso, gravissimi danni alla salute.
Un’altra antichissima tradizione cinese, figlia dell’antica e nobile cultura cinese, è la legatura dei piedi.

La pianta dei piedi veniva piegata e mantenuta di una lunghezza tra i 7 e i 12 centimetri.
piedi Cina 4
Nelle famiglie più ricche ed influenti le bambine venivano fasciate quando erano molto piccole, in base al loro sviluppo, in genere tra i 2 e gli 8 anni; questo rendeva la pratica meno dolorosa e meno traumatica psicologicamente. Nelle classi contadine la fasciatura cominciava più tardi perché le bambine dovevano essere abili al lavoro fino a che non si concordava loro un matrimonio, o fino a che non erano in età da matrimonio, comunque prima dei 15 anni, finché le ossa erano ancora malleabili.
Per deformare i piedi nella loro forma definitiva erano necessari almeno 3 anni, talvolta anche 5 o 10. Per tutta la vita, i piedi necessitavano di continue attenzioni e di scarpine rigide che fossero sufficientemente resistenti da sorreggere il peso della donna. Le scarpette andavano indossate anche di notte affinché la deformazione non regredisse. Dopo la fasciatura il piede assumeva una forma a mezzaluna.
piedi Cina 1
Prima di essere fasciati, i piedi erano lavati e puliti dai residui organici (pelle morta e ulcere), quindi erano cosparsi di allume, avente funzione anti-emorragica e coagulante. La benda era larga cinque cm e lunga fino a tre metri.
La deformazione consisteva in due operazioni distinte:

  1. piegare le quattro dita più piccole (ad esclusione dell’alluce) al di sotto della pianta del piede
  2. avvicinare l’alluce ed il tallone inarcando il collo del piede. Le articolazioni del tarso e le ossa metatarsali venivano progressivamente deformate.

piedi cina 2

In questo modo i talloni diventano l’unico punto di appoggio, causando l’andatura fluttuante della donna, come il loto che si piega al vento.
Nelle famiglie povere, in cui le ragazze dovevano conservare la capacità di camminare per lavorare, era praticata una fasciatura leggera consistente solo nella prima delle due operazioni (il ripiegamento delle dita). Il piede rimaneva più grande e precludeva il matrimonio con un uomo di ceto elevato. Nella Cina meridionale, era praticato un terzo tipo di fasciatura in cui, invece delle due suddette operazioni, l’alluce veniva piegato all’indietro e verso l’alto.
La pratica era molto dolorosa, perché il piede non smetteva di crescere ma cresceva deformato: le ossa conseguentemente si frastagliavano per poi saldarsi irregolarmente. Spesso le ossa dei metatarsi si rompevano, o venivano appositamente rotte, così come le articolazioni.
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Le unghie andavano sempre tagliate molto corte per evitare infezioni, ma nonostante tutti gli accorgimenti una fasciatura poteva portare a infezioni, setticemia, gangrena anche con perdita delle dita. Talvolta era necessario asportare i calli con un coltello o praticare un profondo taglio al di sotto della pianta per asportare la carne eccedente e facilitare l’avvicinamento dell’alluce e del tallone.
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I piedi così deformati erano coperti da minuscole scarpine lavorate, fabbricate dalla donna per esaltare la forma del piede
piedi Cina 3
e per mostrare le sue doti artigianali; erano accuratamente disegnate per evidenziare la forma arcuata ed appuntita del piede. Ogni scarpina era una forma d’arte ed un passaporto della donna. La dimensione del piede, e la struttura della scarpa dicevano tutto ciò che era necessario su di una donna: la sua capacità di sopportare il dolore, le sue abilità casalinghe.

«Quando avevo sette anni, mia madre mi lavò i piedi, li cosparse di allume e mi tagliò le unghie. Poi mi piegò le dita contro la pianta del piede, legandomele con una fascia lunga tre metri e larga cinque centimetri, cominciando dal piede destro e passando poi al sinistro. Mi ordinò di camminare, ma quando ci provai, il dolore fu insopportabile. Quella notte mi sentii i piedi in fiamme e non riuscii a dormire; mia madre mi picchiò perché piangevo. Nei giorni seguenti cercai di nascondermi, ma fui costretta a camminare sui miei piedi. Dopo alcuni mesi, tutte le dita, tranne l’alluce, erano schiacciate contro la superficie interna. Mia madre mi tolse le bende e lavò il sangue e il pus che mi colavano dai piedi. Mi disse che solo rimuovendo a poco a poco la carne, i miei piedi sarebbero diventati snelli. Ogni due settimane mi mettevo delle scarpe nuove: ogni nuovo paio era di qualche millimetro più piccolo del precedente. D’estate i piedi puzzavano tremendamente di pus e di sangue, d’inverno erano gelidi per la mancanza di circolazione. Le quattro dita arricciate all’indietro sembravano bruchi morti. Ci vollero tre anni perché potessi calzare le scarpe di otto centimetri, le mie caviglie erano sottili, i piedi erano diventati brutti e ricurvi.» (qui)

Il processo oltre che molto doloroso era estremamente pericoloso per la ragazza. Le unghie ricresciute nella carne gonfia dei piedi causavano spesso infezioni e la mancanza di circolazione poteva provocare la cancrena con conseguente caduta delle dita, cosa per altro apprezzata dalle famiglie in quanto rendeva i piedi ancora più piccoli. Se l’infezione si diffondeva nel sangue la ragazza moriva. Circa il 10% delle ragazze sottoposte a legatura del piede morì a causa della sepsi. (qui)

Naturalmente il dolore disumano continuava per tutta la vita, perché per tutta la vita i piedi dovevano continuare ad essere fasciati, stritolando le ossa. Oltre alle conseguenze fisiche, la fasciatura dei piedi aveva anche una pesantissima conseguenza sociale: data l’impossibilità di camminare per più di qualche passo, la donna dipendeva interamente dal marito, non poteva allontanarsi da casa né condurre una vita sociale, cosa altamente apprezzata dal confucianesimo che esaltava la sottomissione della donna nei confronti dell’uomo (ah, quelle meravigliose filosofie orientali, fonte di ogni saggezza!)
Per avere un’idea di come poteva camminare una donna coi piedi fasciati, possiamo vedere come camminano queste donne, che hanno avuto la fasciatura, di cui portano le irreversibili conseguenze, ma che da decenni ormai hanno i piedi liberi.

E la famosa antichissima medicina cinese, da cui ancora oggi noi occidentali tanto abbiamo da imparare? Ho letto moltissimi libri di Pearl S. Buck, figlia di un missionario presbiteriano, cresciuta ed educata in Cina, al punto da considerare il cinese la sua vera madrelingua. In uno di questi spiega che secondo l’antica e saggia medicina cinese, ciò che ci mantiene in vita è lo spirito vitale che è dentro il nostro corpo, perciò quando una persona ancora giovane rischia di morire per un incidente o per una malattia, significa che lo spirito vitale sta uscendo dal suo corpo, e per tentare di salvarla si fa in modo di impedire che ne esca dell’altro, tappandole ermeticamente tutti i buchi che ha in corpo, bocca e narici compresi. Quando il paziente, inevitabilmente, moriva, ne desumevano che erano arrivati troppo tardi, e che evidentemente ne era già uscito troppo. A spiegarlo, nel libro, è un giovane medico che sta cercando di convincere la moglie che la medicina occidentale è molto più valida di tutta quella loro paccottiglia, e per dimostrarglielo nel modo più convincente, con una mano le chiude le narici e le tappa la bocca, e la lascia andare solo quando quella comincia a mostrare sofferenza – e qualche dubbio, effettivamente, comincia a insinuarsi nella sua mente. E credo che questo – fosse anche solo questo – dovrebbe essere più che sufficiente a farci nutrire una sana diffidenza verso tutto ciò che arriva da quelle parti.

E non è finita.

barbara

QUELLO CHE SOPRATTUTTO SORPRENDE

A proposito del post sulla denuncia dei crimini palestinesi da parte di un palestinese, la cosa che stupisce è che lo abbiano lasciato parlare.

Qualcuno ricorderà sicuramente la vicenda del medico palestinese Ashraf El Hagog e delle cinque infermiere bulgare accusati in Libia di avere infettato col virus HIV 426 bambini, incarcerati per otto anni durante i quali sono stati sottoposti a torture e a maltrattamenti di ogni genere e infine processati e condannati a morte – vicenda sulla quale anche l’immarcescibile Massimo D’Alema, l’equivicino per antonomasia, all’epoca ministro degli Affari Esteri, ha voluto dire la sua. Sospesa la pena ed espulsi i “reprobi”, nell’aprile del 2009, durante una riunione del solito UN human rights council presieduta – tenetevi forte – dalla Libia, il consueto osservatore per UNwatch Hillel Neuer, esattamente come nel caso di Mosab Hassan Yousef, cede il posto a qualcun altro: al medico Ashraf El Hagog che, trattandosi di una seduta finalizzata alla denuncia di violazioni dei diritti umani, incarcerazioni arbitrarie, torture eccetera, è sicuramente il più titolato a parlare. E questo è ciò che succede (NOTA: anche in questo video, come nel precedente, quello che è importante capire si capisce perfettamente anche senza capire una sola parola di inglese):

Pur penalizzato da un inglese piuttosto incerto, è riuscito bene o male a dire quello che aveva da dire, ma con quanta fatica! Quanti sforzi sono stati fatti per fermarlo! Evidentemente le violazioni dei diritti umani vanno denunciate, ma non se a perpetrarle è un Paese arabo; i palestinesi godono di tutti i diritti e di tutta la comprensione di questo mondo, ma non se parlano per denunciare qualcuno che non sia Israele. Per questo mi sorprende che Mosab Hassan Yousef sia stato lasciato parlare fino alla fine. Chissà, forse sarà stato il travolgente crescendo rossiniano a bloccarli. O forse non c’era la Libia a presiedere la seduta.

barbara

LETTERA APERTA ALLA RESPONSABILE ESTERI DELL’UNIONE EUROPEA, SIGNORA FEDERICA MOGHERINI

Gentilissima signora Federica Mogherini
Per lo show di insediamento, e la vergognosa storia dei suoi selfi con gli autori della repressione e del terrorismo internazionale, il regime degli ayattollah aveva momentaneamente sospeso le esecuzioni riprendendo subito dopo. Ieri abbiamo ricevuto la triste notizia delle esecuzioni di massa incluso un giovanissimo ragazzo che all’epoca dei fatti aveva soli 15 anni. ( alireza Tajik. Shiraz).
Signora Mogherini il suo viaggio in Iran non solo [non] ha prodotto vantaggi a favore dei diritti umani bensi ha prolungato la sofferenza di 35 detenuti, condannati a morte, che hanno dovuto sopportare 5 giorni di isolamento in attesa dell’esecuzione.
In poche parolea se lei non ci fosse andato avrebbe risparmiato loro 5 giorni interminabili di sogni, incubi, sofferenze e qualcos’altro. [che cosa sia il “qualcos’altro” che tutti i prigionieri devono subire nelle prigioni iraniane, lo sappiamo fin troppo bene. Soprattutto le donne ancora vergini, perché secondo l’islam una donna che muore vergine va automaticamente in paradiso, e quindi devono evitare che una condannata a morte abbia questa gratificazione almeno post mortem, ndb]
Signora Mogherini lei e la sua politica chamberliniana porterà sicuramente una macchia nera nella storia contemporanea. Lei avrà sulla sua coscienza, premesso che ne abbia un briciolo nel suo portafoglio, la sofferenza e la morte di chi resterà vittima di queste barbarie fatte nel nome dell’islam.
Sappi che fin quando non manderemo il regime degli ayattollah nella pattumiera della storia non la perdoneremo mai e mai.
Resteremo la voce dei soldati italiani uccisi a Nassiria da coloro con cui lei si è divertita con i selfi!
Resteremo la voce dei senza voce
Resteremo la voce di Atefeh Rajabi, impiccata il 15 agosto del 2004 quando lei si stava prendendo il sole da qualche parte di questa terra!
Signora Mogherini per fare bene il suo lavoro ci vogliono uomini col cuore DONNA e non donne col cuor UOMO!
Sono sicuro che l’ambasciatore Giulio Terzi avrebbe declinato l’invito e l’avrebbe rimandato al mittente.
davood karimi, presidente dell’associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia

Voglio aggiungere due parole su Atefeh Rajabi, del cui assassinio ricorrerà fra pochissimi giorni il tredicesimo anniversario. Rimasta orfana di madre molto piccola, un fratello annegato (pare), padre drogato, si prende cura dei nonni ottantenni, che da parte loro invece la ignorano. Stuprata da un uomo di cinquantun anni, viene processata per crimini contro la castità; sottoposta per tre mesi a stupri e torture di ogni sorta (al punto da doversi muovere a quattro zampe per il dolore causato dalle torture che le impedisce di camminare), “confessa” di avere avuto ripetuti rapporti sessuali con il cinquantunenne. Quando si rende conto che non ha alcuna speranza di scampare alla condanna a morte, si toglie in segno di sfida l’hijab, poi si toglie anche le scarpe e le scaglia contro il giudice. Il 15 agosto 2004 viene impiccata. Non aveva ancora compiuto diciassette anni.
(clic per ingrandire)

atefeh 2
atefeh 3
Buon anniversario, signora Mogherini (già ricordata in questo blog qui e qui)

barbara

TORTURA

Si è recentemente parlato, nei commenti a un post, di elettroencefalogramma. Mi è venuto allora in mente questo testo che ho scritto e consegnato alla mia dottoressa insieme al referto dell’ultimo EEG, per riferire sulla tortura a cui sono stata sottoposta e chiarire la situazione.

Ritengo necessario precisare che l’attacco di convulsioni – cosa mai avvenuta prima nella mia vita, né in questo tipo di circostanza, né in nessun’altra situazione – avuto alla fine non ha alcun collegamento con l’iperpnea ma unicamente con il comportamento della signora che ha condotto il test. La quale, prima di iniziare, mi ha perentoriamente intimato: “Stia rilassata!”, cosa che, come chiunque sa, può avere l’unico effetto di mettere in tensione. Infatti dopo un po’ mi ha ordinato di respirare normalmente, perché avevo una respirazione corta e semi-strozzata e, ha detto, questo alterava il tracciato. Allora ho cercato di respirare normalmente, ma per farlo dovevo controllare attentamente il mio respiro, e quindi ero tutto meno che rilassata. Poi è arrivato il momento dell’iperpnea. Tutte le volte precedenti, arrivata a quel punto, mi veniva detto adesso respiri velocemente e continui fino a quando non le dico basta, e io lo facevo. Questa volta la signora che conduceva l’esame, fin dall’inizio, ogni respiro e mezzo, cioè circa sei secondi, continuava a martellare respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri, era come se avessi un chiodo piantato in mezzo alla testa e un martello che ci batteva ritmicamente sopra respiri respiri respiri respiri respiri respiri respiri, come la tortura della goccia d’acqua. A un certo momento dentro la mia testa ho cominciato a urlare basta basta basta basta basta basta sperando che si arrivasse finalmente alla fine e invece continuava imperterrita, implacabile, spietata respiri respiri respiri respiri respiri respiri. Quando, ad un certo punto, forse percependo la mia sofferenza, ha detto “su, coraggio, dobbiamo arrivare a cinque minuti”, mi è stato chiaro che mancava ancora un bel po’, e a quel punto mi è esploso il cervello e ho avuto un provvidenziale attacco di convulsioni che ha posto fine alla tortura. (Sono sempre stata convinta che il corpo umano è un animale intelligente e nelle situazioni di emergenza riesce (quasi) sempre a trovare una soluzione prima che sia troppo tardi, come i tappi della corrente che saltano prima che si verifichi il disastro). Sono stata malissimo due giorni, e per diversi giorni ogni tanto nel sonno mi arrivava questo terrificante respiri respiri respiri respiri… un incubo.

Poi lei sul primo foglio ha scritto che l’esame era stato interrotto prima della conclusione causa sopravvenuto attacco epilettico con convulsioni, e il medico che ha stilato il referto lo ha fatto sulla base di questa indicazione, nonostante io sapessi con assoluta certezza di non avere avuto un attacco epilettico. Poi ho inviato all’amico neurologo che gira da queste parti la scansione degli ultimi fogli, tracciati mentre era in corso l’attacco di convulsioni, e lui non vi ha trovato la minima traccia di attacco epilettico, né in corso né montante.
EEG
Dato che il mio tumore (benigno) al cervello può scatenare attacchi epilettici, probabilmente dovrò sottopormi ad altri EEG in futuro, ma sicuramente mai più ne farò uno qui.

PS: e ancora non mi spiego perché quel “basta”, invece che col pensiero, non lo abbia urlato con le corde vocali.

E ora rilassiamoci davvero con una delle canzoni più belle mai scritte.

barbara

 

EVVIVA EVVIVA, HANNO VINTO I RIFORMISTI

I moderati. Quelli buoni insomma.

C’è “un’atmosfera nuova” in Iran, una brezza di novità che parte da Teheran e si espande, seppur con meno forza, nelle altre province. Il senso politico è chiaro: i moderati e i riformisti hanno vinto le elezioni in Iran (La Repubblica)
L’Iran premia la politica di apertura del presidente Hassan Rohani, autore dell’accordo sul nucleare che ha portato alla fine delle sanzioni. Alle elezioni legislative i conservatori arretrano ovunque, i riformisti avanzano in tutte le città, superano gli avversari (skyTG24)
Trionfo dei riformisti alle elezioni in Iran. (tgcom24)
Gioiscono i riformisti e i moderati d’Iran: i risultati parziali delle elezioni per rinnovare il Parlamento e l’Assemblea degli Esperti mostrano un crescente sostegno delle liste legate al presidente, il moderato Hassan Rohani, il che dovrebbe contribuire a promuovere una maggiore apertura dell’Iran verso l’Occidente. (Huffington post)
Elezioni in Iran, i riformisti stravincono a Teheran. Rohani: “Creata nuova atmosfera” (ansa)

Eccetera. E dunque dobbiamo fare tutti festa, giusto? Come quando ha vinto il moderato Khatami, ve lo ricordate?
Khatami
Con quel suo viso rassicurante da zio buono, forse a volte un po’ severo ma tanto tanto affettuoso.
torture Khatami
E così come quando, dopo gli anni bui del folle criminale invasato Ahmadinejad è arrivato il nuovo moderato Rouhani, anche lui così rassicurante con quel suo bel sorriso aperto…
Rouhani
Sì, lo so, lo so, adesso arriveranno i soliti guastafeste a tentare di smorzare il nostro entusiasmo raccontandoci che il presidente in realtà è una marionetta scelta e messa lì dalla guida spirituale ayatollah Khamenei. Ci racconteranno che a nessuno dei riformisti veri è stato consentito di presentarsi alle elezioni. Ci racconteranno che qualcuno è stato addirittura messo in isolamento. Che i blogger vengono incarcerati e lasciati senza cure mediche. Che gli attivisti per i diritti umani vengono frustati e sbattuti in galera. Che i giornalisti scompaiono. Che sotto il moderato Rouhani il numero delle esecuzioni capitali ha raggiunto vertici mai raggiunti nella storia recente dell’Iran. Di tutto ci racconteranno, ma noi non ci lasceremo mica spaventare, vero? No no, oggi è un grande giorno, la luce ha vinto contro le tenebre e noi faremo festa grande, ecco.

E io nel frattempo vorrei tanto sapere che cosa ne è stato di “Lilit”, di cui da anni non sappiamo più niente. Ti prego, Lilit, se sei viva, se sei libera, se hai modo di collegarti a internet, se passi di qui, dacci tue notizie!

barbara

UN VENERDÌ SERA SULLA TERRA

È una bella giornata d’inverno. I saldi sono appena iniziati, l’eccitazione dei parigini conferisce alla città un’atmosfera piena di energia. Approfitto della mia pausa pranzo per fare qualche acquisto e, da André, trovo un paio di stivali per Ilan. Ne avevo visti di più belli nella vetrina di una calzoleria sulla strada per andare al lavoro, ma costavano una fortuna, e io non me lo posso permettere. Spero che gli piaceranno: gli articoli in saldo non si possono cambiare. La commessa mi consiglia di ritornare con mio figlio, ma temo che non ci sia più la sua misura, e quindi li prendo.

Come ogni fine settimana, questo venerdì lascio il mio ufficio di buon’ora, mi fermo al supermercato per comprare un paio di cosette per la sera, poi rientro subito per preparare la cena dello Shabbat. È un rituale cui non rinuncerei per nulla al mondo, perché, da quando i miei figli sono cresciuti, solo questo pasto mi permette di vederli tranquillamente. Ève e Ilan vivono ancora in casa, ma hanno venticinque e ventitré anni, vivono la loro vita. Durante la settimana li incrocio di sfuggita. Quanto a Déborah, che ha ventiquattro anni, non vive più sotto il nostro tetto. Si è sposata due anni fa e mi ha dato un’incantevole nipotina, Noa.
Noi occupiamo da sempre lo stesso appartamento, al secondo piano di un vecchio edificio in un quartiere popolare nella parte est di Parigi. Si tratta di un modesto appartamento di tre stanze, con una sola camera da letto per i miei figli, ma siamo felici. Déborah, Ève e Ilan vi sono cresciuti, apprezzano questo angolo vivo della città e la sua popolazione mista.
Carica di spese, risalgo il viale cercando istintivamente con lo sguardo la finestra del nostro soggiorno, tra i rami spogli dei castagni. Spero di scorgervi Ilan. Quando rientra prima di me mi spia, e poi scende per aiutarmi a portare su le provviste. Suo padre se n’è andato quando aveva due anni, così lui è un po’ l’uomo di casa… Oggi non c’è nessuno sul balcone, e improvvisamente mi ricordo che mio figlio ha appena ripreso, esattamente quindici giorni fa, il suo vecchio lavoro in un negozio di telefoni sul boulevard Magenta. Termina solo alle diciannove, non ho alcuna possibilità di trovarlo a casa a metà pomeriggio. Infatti, l’appartamento è deserto, e approfitto di queste poche ore in cui sono da sola per mettermi immediatamente al lavoro. Il sabato è una festa. È il giorno più bello, quello che gli ebrei accolgono come il fidanzato riceve la sua amata: in gioia e letizia. Pur non essendo una praticante ortodossa, rispetto questo rito. Mi offre l’occasione di apparecchiare una bella tavola, riunire la mia famiglia, e preparare i piatti che mi cucinava una volta mia nonna con amore, piatti col sapore del mio nativo Marocco. La preparazione di questo pasto mi richiede tempo, e sono ancora ai fornelli quando Ève infila la chiave nella serratura.
La mia figlia maggiore e Ilan si assomigliano come due gocce d’acqua, quando erano piccoli li prendevano per gemelli. Hanno entrambi i capelli neri come giaietto, gli occhi scintillanti, un sorriso che riempie la faccia. Ma Ève è molto più piccola di suo fratello! È rientrata presto perché al momento non lavora. È in cerca di lavoro nel settore delle risorse umane e, nonostante i numerosi CV inviati, le risposte tardano a venire. E questo non manca di angustiarla.
– Déborah e David non vengono a cena? Mi chiede vedendo apparecchiato solo per noi tre, nella sala da pranzo.
– No, tua sorella mi ha telefonato cinque minuti fa, Noa è influenzata. Preferisce non farla uscire, andremo a pranzo da loro domani.

Ilan arriva un attimo dopo, verso le sette e un quarto, sette e mezzo… non so se sia perché è l’unico uomo della casa, ma quando entra lui, si direbbe che la vita riprenda veramente. L’appartamento torna a risuonare di suoni familiari e della sua voce più forte della nostra. Come tutti i giovani, mio figlio semina le sue cose dappertutto, il suo cellulare, le sue chiavi, le parole dell’ultimo successo che canticchia allegramente.
– Dov’è Noa? si preoccupa a sua volta, notando che la nipotina non c’è.
– Non fare quella faccia, la vedrai domani! gli risponde Ève.
Ilan abbozza una piccola smorfia delusa che non manca di farci sorridere, si toglie il giubbotto di pelle, poi ci raggiunge in sala da pranzo. Meccanicamente gli chiedo com’è andata la giornata. Non ha l’aria preoccupata, ma ho il sospetto che non sia entusiasta di essere tornato a questo posto di commesso. Vi si è deciso solo perché ha un urgente bisogno di guadagnarsi decentemente da vivere. L’agenzia immobiliare in cui lavorava prima non gli garantiva un salario sufficiente, ne aveva abbastanza di non potersi permettere niente.
– Allora, com’è andata la giornata?
Ilan alza le spalle, come a dire: niente di speciale. Non parla della sostituzione che ha assicurato nell’altro negozio che il suo padrone ha sul boulevard Voltaire. E non evoca neppure la bella brunetta che è entrata appositamente nel suo negozio per chiedere il suo numero di telefono. E perché dovrebbe parlarmene? Probabilmente non è la prima volta che si lascia sedurre, e poi ha una fidanzata… Da più di un anno Ilan esce con Mony, una bella ragazza asiatica che vive a due passi da noi. L’ho incontrata solo due o tre volte, ma penso che mio figlio le sia attaccato. In ogni caso, dorme più spesso da lei che da noi.
– Non capisco perché hai ripreso questo lavoro. L’anno scorso dicevi che la telefonia non era un lavoro per te, hai dato le dimissioni per lanciarti nel settore immobiliare, e adesso ci ritorni?
– Non ho scelta, mi risponde Ilan, infastidito da questa conversazione. Dovrei tacere, lasciargli fare la sua esperienza, ma sono sicura che sta perdendo tempo e insisto:
– Perché non chiami tuo padre? Potrebbe prestarti un po’ di soldi per mettere in piedi la tua impresa.
Mio figlio non vuole chiedere niente a nessuno, nemmeno a suo padre. Vuole cavarsela da solo, vuole che siamo fieri di lui, e spazza via i miei suggerimenti con una battuta. Ci mettiamo a tavola.

Ilan mette la sua kippà. La porta solo il venerdì sera per recitare la preghiera di Shabbat, e in occasione delle grandi feste. Non è religioso, ma è stato allevato nella tradizione: conosce i testi. Lo ascoltiamo cantare il Kiddush, poi, dopo di lui, bagniamo le nostre labbra nel calice di vino. Ilan ci lascia per andarsi a lavare le mani, come vuole il rituale e, al ritorno, intona la preghiera sul pane. Ne taglia dei piccoli pezzi che intinge nel sale, ne mangia uno e ci dà gli altri. Ci auguriamo «Shabbat Shalom». Uno shabbat di pace.

La cena si svolge piacevolmente, ma ho l’impressione che non durerà a lungo. Forse perché siamo stati solo noi tre, senza Déborah, suo marito David e la loro piccola Noa? È stato un venerdì come un lunedì, un pasto ordinario, che non aveva il profumo di una festa… Alle nove avevamo già lasciato la tavola. Ilan ha consultato le sue email e fatto qualche telefonata. Più tardi dirò che sembrava nervoso, preoccupato, cercherò fra i miei ricordi i piccoli dettagli che avrebbero potuto impensierirmi, ma, in realtà, nulla, quella sera, permetteva di presagire ciò che lo aspettava. Se Ilan è un po’ seccato, è semplicemente perché i suoi piani per la serata stanno per andare a monte. Mony, che aveva in mente di incontrare, non è ancora uscita dal lavoro. Quanto a Karim e Jérémie, i suoi due migliori amici, non vogliono saperne di uscire. Con orecchio distratto sento Ilan che tenta di convincerli al telefono, dai, solo un giretto, siete diventati vecchi o cosa? Non faremo tardi…

Vedendo mio figlio rimettersi il giubbotto, non posso fare a meno di ricordargli che è venerdì sera. Ho un bel ripetermi che non è più un bambino e che è libero di vivere la sua vita come gli pare, non mi piace che esca di Shabbat. Ilan lo sa, ma è giovane, ha un appuntamento, e non sa che farsene dei divieti religiosi che gli ricorda sua madre sulla soglia… Non volermene, mamma, mi dice con il suo piccolo sorriso colpevole.
Lo vedo girare i tacchi, e per trattenerlo ancora qualche secondo, come se presentissi che quell’istante sarà l’ultimo, gli chiedo di provare le scarpe che gli ho comprato. Là, ora, subito? Domani, mi promette Ilan, e la porta si chiude sul bacio che mi manda. Da lontano.
24 giorni La verità sulla morte di Ilan Halimi, pp. 25-28
Ruth Halimi
Non lo avrebbe rivisto mai più: poche ore più tardi sarebbe iniziato lo straziante, disumano calvario che lo avrebbe portato a morire, dopo 24 giorni di inaudite sofferenze, presso un binario della ferrovia. Fanno dieci anni oggi dal giorno in cui veniva portato a termine uno dei più efferati atti di antisemitismo del dopoguerra – almeno fra quelli perpetrati fuori di Israele. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo: né Ilan, né i suoi carnefici.

(Il martirio di Ilan Halimi è stato ricordato in questo blog uno, due, tre, quattro)

barbara

E A PROPOSITO DEL POST PRECEDENTE

ho scoperto adesso che ricorre in questi giorni il tredicesimo anniversario della morte del generale Massu; ritengo che valga la pena, nel bene e nel male, di ricordare questo personaggio, e lo faccio con questo articolo di “Repubblica”.

Muore Massu, il generale della battaglia d’Algeri

PARIGI – «Sono un soldato e obbedisco», amava ripetere il generale Jacques Massu, scomparso sabato sera a 94 anni. Ma a volte il protagonista della battaglia d’Algeri non riusciva a tener la lingua a posto. Avrebbe potuto essere un eccellente uomo politico, di quelli che «fanno titolo», ma dopo essere andato in pensione rifiutò più volte un seggio di deputato: «L’ambiente politico non conviene al mio genere di bellezza». Non stimava gli uomini politici, tranne uno, ovviamente un militare: il generale de Gaulle. Massu fu uno dei primi a rispondere all’appello del 18 giugno 1940, quello con cui da Radio Londra de Gaulle chiamava la Francia a rifiutare l’armistizio e l’avvento del regime pétainista. Figlio e nipote di militari, sconosciuto capitano di stanza nel nord del Ciad, Massu divenne così l’uomo di fiducia del maresciallo Leclerc, luogotenente di de Gaulle. È l’inizio di una lunga epopea: nel marzo ’41, Leclerc e Massu strappano agli italiani l’oasi libica di Cufra e pronunciano il loro giuramento: «Deporremo le armi solo quando i nostri bei colori sventoleranno sulla cattedrale di Strasburgo». Promessa tenuta: la divisione Leclerc libera Parigi il 25 agosto 1944 e tre mesi dopo conquista il capoluogo alsaziano. Finito il conflitto mondiale, Massu viene spedito in Indocina, poi passa in Nordafrica, dove prende il comando dei paracadutisti. Di nuovo in Francia nei primi anni ’50, Massu diventa generale e nel 1957 il governo del socialista Guy Mollet lo manda ad Algeri. È il secondo, grande capitolo della sua vita militare, la tragica battaglia d’Algeri. Dotato di poteri di polizia, con oltre seimila uomini a disposizione, Massu deve mettere fine agli attentati e annientare l’organizzazione politica del Fronte di liberazione nazionale. In nove mesi, utilizzando tutti i mezzi, compresa la tortura, Massu ristabilisce l’ordine. Ma in quelle tragiche settimane scrive anche una delle pagine più nere della storia francese. Ha obbedito, certo, ma lui stesso nel 2000 si rammarica «di essere stato costretto a condurre quest’azione di polizia». Cattolico praticante, invita la Francia a pentirsi. A differenza di altri generali in pensione, che giustificano l’uso della tortura in Algeria, Massu la condanna: «La tortura non è indispensabile in tempo di guerra. Si potrebbe benissimo farne a meno. Quando ripenso all’Algeria, tutto questo mi affligge, perché faceva parte di una certa atmosfera». Un atteggiamento che dimostra la contraddittorietà dell’uomo Massu: «Era un personaggio complesso – ha commentato ieri Gillo Pontecorvo, l’autore de “La battaglia d’ Algeri”. Aveva dati positivi, ma rappresentava anche un pesante elemento regressivo e reazionario». Difensore dell’«Algérie francaise», richiamato a Parigi per aver criticato de Gaulle, Massu sarà rapidamente “riabilitato” e finirà la sua carriera come capo delle forze francesi di stanza in Germania. E lì sarà protagonista di un altro fatto storico: il 29 maggio 1968, mentre la Francia è in preda alla rivolta, de Gaulle scompare. Parte in elicottero e va a Baden Baden, per parlare con Massu. Un episodio mai veramente chiarito. L’indomani, de Gaulle rientra, tiene alla radio un discorso inflessibile e poco dopo un milione di persone sfilano sugli Champs-Elysées per sostenerlo: il Maggio finisce con il trionfo del generale. Cosa si dissero i due uomini? Massu ha detto un giorno che forse lo avrebbe rivelato ai suoi figli, perché lo rendessero pubblico dopo la sua morte. Se non lo ha fatto, avrà portato con sé nella tomba un misterioso tassello della storia francese recente.

GIAMPIERO MARTINOTTI 28 ottobre 2002

Massu, in Algeria, ha combattuto contro degli organizzatissimi terroristi. Che combattevano per una causa giusta, ossia la liberazione della propria patria dagli occupanti stranieri (e che nessuno si azzardi a fare immondi quanto insostenibili paragoni), ma lo facevano per mezzo di spietate stragi di civili. E di quanto ha fatto – altrettanto spietatamente – per fermarli, Massu si è pentito, ha giudicato la propria condotta e l’ha condannata. Dalle nostre parti giusto un paio d’anni fa è morto uno che le stragi le ha perpetrate su civili innocenti, e fino al suo ultimo giorno di vita si è dichiarato fiero delle proprie azioni. Checché ne dicano gli animalisti, che mettono sullo stesso piano tutti gli appartenenti al regno animale, la differenza fra uomini e vermi c’è, e si vede. Eccome se si vede.

barbara

VENTIQUATTRO GIORNI DENTRO L’INFERNO

“Dentro di me c’è la morte, notti di incubi, il pensiero di quello che si poteva fare e non è stato fatto. La domanda insolubile: perché proprio a lui? Ma davanti ci sono i bambini degli altri miei figli, loro sono il futuro, e allora in quel futuro ci voglio essere anch’io e sorrido per loro”. In queste parole, raccolte in una recente intervista, tutta la forza interiore di Ruth Halimi, la madre-coraggio di Ilan.
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Una forza interiore che l’ha portata a ripercorrere quelle ore terribili insieme alla giornalista Émile Frèche nel libro testimonianza “24 giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi” che, dopo un grande successo di vendite in Francia, è stato pubblicato in Italia nel 2010 dalla casa editrice Salomone Belforte di Livorno. Ad inquadrare l’opera le riflessioni dell’intellettuale francese Bernard-Henri Levy e dei giornalisti Pierluigi Battista e Giulio Meotti, mentre il lavoro di traduzione è stato svolto da Barbara Mella, Elena Lattes e Marcello Hassan. Dal libro è adesso tratto un film, “24 giorni” (regia di Alexandre Arcady), che sarà presentato al pubblico italiano in occasione dell’evento “Je suis Ilan – I 24 giorni della prigionia di Ilan Halimi” in programma mercoledì 6 maggio alle 19 all’Auditorium della Conciliazione di Roma in collaborazione con la Rai e con l’associazione Progetto Dreyfus (il giorno successivo la pellicola sarà proposta su Raidue). Invitati a partecipare e ad intervenire, oltre al regista del film, i familiari di Ilan, rappresentanti istituzionali, leader religiosi. Una serata – viene spiegato – per riflettere sul tema dell’antisemitismo e del razzismo che ancora oggi costituisce una minaccia per l’Europa. Scrive Meotti nell’introduzione al libro: “La morte di Ilan non ha meritato espressioni indignate da parte dell’opinione pubblica, non ha urtato la sensibilità di chi è sempre pronto a dichiararsi per il dialogo, la tolleranza, la convivenza. L’esecuzione di Ilan è passata nel silenzio, rosa dall’indifferenza, la sua fotografia non ha fatto il giro del mondo, i dettagli della sua morte sono stati criptati come degrado metropolitano. Ma Ilan è stato barbaramente ucciso perché ebreo”.

Per maggiori informazioni sull’evento scrivere a eventi@progettodreyfus.com

Altre cose potete trovarle qui, qui e qui.

barbara