QUISQUILIE SFUSE

Sono viva e durante il viaggio non sono caduta neanche una volta (segnatelo sul calendario). In compenso sono arrivata due volte sull’orlo del collasso, ma poi non ci sono arrivata. Quindi sono intera. Beh, quasi, perché tirando giù dal treno il trolley, due ore fa, l’asta di metallo del coso per tirarlo mi ha battuto sul polso e me lo ha squarciato: venti centimetri quadri di ematoma e un pezzo squarciato in carne viva. I successivi quindici centimetri invece sono stati solo sfiorati e lì ho solo una serie di leggeri ematomi – sono una bimba delicata, non ci si può fare niente.

L’albergo a Milano. Arrivando di sera devo dormire a Milano perché non ho treni per rientrare. Una volta andavo al Sempione, vicinissimo alla stazione, ma una volta ho trovato che non avevano stanze, così ho cercato altri alberghi in zona: pochissimi avevano disponibilità, e in quei pochi in cui c’era, i prezzi andavano da 600 a 1300 euro. Allora ho riflettuto che arrivando a mezzanotte e ripartendo la mattina, quando ho un letto e un bagno non ho bisogno di altro, sicché ho cercato fra i due stelle e ho trovato quello che mi andava bene. Quella volta poi non ci sono andata perché è stata quella in cui alla fine del viaggio mi sono fratturata una vertebra e quindi dall’aeroporto sono rientrata direttamente a casa in taxi. Vabbè, arrivo, l’ascensore naturalmente non c’è, e quindi chiedo al tizio se mi può portare su la valigia. “No”. Sono vecchia, e si vede, e la valigia è grande. “È pesante”, dico. “Eh, è pesante per lei ed è pesante per me”. Troppo stanca per fargli presente che io sono quella che paga e lui è quello che viene pagato, ho preso la valigia e me la sono portata su, gradino per gradino, un gradino io  e un gradino la valigia, lasciandola ricadere pesantemente – e rumorosamente – ad ogni gradino. Probabilmente gli altri ospiti non avranno granché gradito, ma non avevo altri modi.

L’intercity nasce a Bologna e quindi era già lì e ci sono salita con molto anticipo. A pochissimi minuti dalla partenza entra nella carrozza con una certa irruenza un ragazzo, alto, bellissimo. Una ragazza appena lo vede si alza e gli corre incontro. Lui la abbraccia strettissima. “Ho visto partire il treno di fianco e ho pensato che fosse quello” dice. “Credevo di averlo perso. Credevo di averti persa”. La voce gli trema e la stringe ancora più forte.

E ora, visto che myollnir l’ha evocata, e visto che aspettavo un’occasione buona per metterla, ecco a voi

barbara

CHE SE NO POI IL TRENO SI OFFENDE

Siamo in arrivo a X con un ritardo di 50 minuti, causa problemi al materiale rotante.

Giusto. Che dire “treno” è come dire negro, frocio, zingaro, storpio, quelle robe che facebook ti banna all’istante e le persone per bene ti guardano disgustate. Anche il “treno”, dopotutto, ha una sua sensibilità che ha il diritto di essere rispettata e trattata con un’adeguata dose di political correctness. Anche perché se il treno si offende, sono cazzi acidi.
treno offeso
barbara

E DUNQUE UNA PARTE

Poco dopo le quattro e mezza chiama il taxi, arriva alla stazione e trova che il suo treno ha 55 minuti di ritardo. Che dopo un po’ diventano 60, poi 65 e infine arriva con 70 minuti di ritardo. Alla seconda stazione si ferma e non riparte: ci informano che siamo fermi per un problema tecnico più avanti; veniamo poi a sapere che un autobus si è andato a incastrare in un sottopasso della ferrovia, e prima di farci ripassare i treni bisogna aspettare la perizia tecnica che verifichi che la struttura non sia rimasta danneggiata. Infine si riparte, e con due ore abbondanti di ritardo arriviamo a Bologna. Riparte da Bologna, corre per un po’ e poi si ferma: siamo fermi per problemi alla linea ferroviaria a Modena, ci viene detto. Fermi per venti minuti, poi riparte, corre per un minuto e poi si ferma. Resta fermo venti minuti, corre per un altro minuto e poi si ferma per venti minuti; infine si riparte e si arriva a Modena, e non riparte più. E a questo punto mi prende la paura che il personale di quel treno abbia aderito allo sciopero che inizia alle dieci: se riparte alle sette, non arrivo a Milano prima delle nove e mezza-dieci, un’altra ora abbondante per arrivare a Malpensa, e il volo non lo prendo più. Ma un ferroviere mi rassicura che no, non c’entra lo sciopero, stiamo solo aspettando che si risolva il problema alla linea, e nessuno sa quanto ci vorrà. Alla fine riparte, e arriviamo a Milano con tre ore e mezza di ritardo, all’una e un quarto invece che alle nove e tre quarti. Rassegnata a prendere un taxi, perché a quell’ora gli autobus non ci sono più, arrivo all’uscita: tutte e tre le porte sbarrate e inlucchettate. Torno indietro, vado a un’altra uscita: idem. La terza finalmente la trovo aperta, e da lì devo percorrere metà del quadrilatero della stazione per arrivare a una delle due postazioni di taxi, dove trovo taxi zero e fila in attesa di taxi chilometrica. Sono riuscita ad andare a letto alle tre e mezza, ovviamente non ho dormito ma almeno ho preso il mio aereo e sono arrivata in Israele. Dove durante la notte mi è scoppiata una vena di un occhio, e quella povera pupilla lì a galleggiare smarrita in un mare di rosso, bleaahhh che senso. Poi dopo qualche giorno si è ricominciato a vedere un po’ di bianco e adesso è tornato quasi normale. Poi nei giorni successivi ho avuto un altro problema di salute abbastanza drammatico ma in compenso – tenetevi forte che questa è grandiosa davvero – non sono caduta neanche una volta. E, alla faccia dei vegani che impartiscono lezioni sui modi di nutrirsi scientificamente dimostrati che garantiscono una salute perfetta – e pazienza se sono l’esatto contrario degli altrettanto scientificamente dimostrati metodi precedentemente presentati come garanzia di salute perfetta e forse anche di vita eterna – io non ho avuto neanche mezzo problema intestinale, io.
Vabbè, sono tornata.

barbara

IL RITORNO DELL’HULIGANO

Alle undici sono alla Stazione Nord, al treno di notte per Cluj. Il volo era stato cancellato all’ultimo momento per mancanza di passeggeri e anche per via della Pasqua. Il vagone letto ha solo due passeggeri e due accompagnatori giovani, che hanno l’aspetto di studenti di un college, completamente diversi dal pittoresco cuccettista di un tempo. Negli anni d’università, il treno mi portava, alcune volte all’anno, di notte, in sette ore, da Bucarest a Suceava e mi portava, poi, di frequente, negli anni dell’amore per Giulietta, da Ploiesti a Bucarest. Il treno mi aveva portato a Periprava, il lager di detenuti dove era finito il babbo, e nel viaggio di addio, nel 1986, ai genitori e alla Bucovina. Sono solo nel treno del passato, tra i fantasmi che appaiono, immediatamente, intorno al fantasma che sono stato e che sono diventato. Lo scompartimento è pulito, ma persiste un odore di disinfettante e il lenzuolo ha una macchia sospetta. Il cuscino posto proprio sopra la ruota del vagone non promette l’anestesia della stanchezza che ha continuato a sedimentare durante la settimana bucarestina. Distendo la coperta sul lenzuolo, mi spoglio, sento freddo, mi avvolgo. Tiro le tende. Buio tratteggiato da strisce luminose. Le ruote stridono, cerco di rimanere sordo alla corsa e all’ansito della notte. Il mostro di ferro perfora, con rumori sordi e muggiti, l’oscurità.

ab ab ab

Ottobre 1941. Il primo viaggio in treno. Carro bestiame, assito umido, freddo, corpi ammucchiati uno addosso all’altro. Fagotti, bisbigli, lamenti, puzza di urina e sudore. Blindato nella paura, rannicchiato, contratto, separato dal corpo della belva collettiva che le sentinelle sono riuscite a stipare nel vagone e che si agita con centinaia di braccia, gambe e bocche isteriche. Solo, sperduto, come se non fossi legato alle mani, alle bocche e alle gambe degli altri. Tutti! Tutti!, così urlavano le sentinelle. «Tutti, tutti» gridavano, levando le baionette lucenti e i fucili lucenti. Non c’era scampo. «Tutti, in colonna, tutti, tutti, salire, tutti.» Spintonati, gli uni addosso agli altri, più stretti, più, più, finché non avevano sigillato il vagone. Maria batteva con i pugni sulla parete di legno della nostra tomba, per esservi ammessa, per partire con noi, le sue grida si erano spente, avevano dato il segnale di partenza. Le ruote ripetevano tutti tutti tutti, il feretro d’acciaio penetrava il ventre della notte. E poi, il secondo viaggio in treno: il miracoloso Ritorno! 1945. Aprile, come adesso. Erano passati secoli, ero vecchio, non immaginavo che sarebbe seguito, dopo altri secoli, un altro ritorno. Ora, vecchio davvero, vecchio. Le ruote ritmano il ritornello notturno, scivolo sulle faglie del buio. D’un tratto, l’incendio. Vagoni in fiamme, il cielo in fiamme. Fuoco e fumo, il ghetto brucia. Un borgo incendiato, pogrom e rogo. Casette e alberi in fiamme, grida. Sul cielo rosso, il gallo sacrificale e l’agnello sacrificale. Il martire legato al rogo, nel centro del borgo. Come una crocifissione, solo che il braccio trasversale della croce mancava, era rimasto un solo palo, eretto sul livello del suolo. Il corpo non è inchiodato, solo le mani sono legate con le sacre cinture della preghiera, i filatteri. I piedi sono legati al palo con una fune, il corpo è avvolto nello scialle di preghiera, bianco, a frange nere. Si vedono i piedi, parte del petto, una spalla, le braccia, la pelle luminescente, gialla, con riflessi violacei. Il volto pallido, molto lungo, la barba giovanile, i cernecchi sottili, rossicci, le palpebre abbassate sugli occhi stanchi, la visiera del berretto verde girata da una parte. Le finestre dell’edificio vicino aperte, si sentono grida. I disperati corrono, frastornati, qua e là, intorno al rogo al centro dell’immagine. La crocifissione era diventata una condanna al rogo. Semplice, maldestra, la tragedia occupava tutto lo schermo: l’uomo in procinto di gettarsi dalla finestra dell’edificio in fiamme, il violinista smarrito nella viuzza tortuosa, tra le case che crollano, incendiate, le une sulle altre, la donna con il bambino in braccio, il devoto con il libro, sorpresi insieme nel giorno maledetto. Al centro, il rogo. Ai piedi del martire, la madre o la moglie o la sorella, avvolta in un lungo velo che la unisce al condannato. Mi avvicinavo, da molto tempo, al giovane martire. Il berretto gli scivola sulla fronte, non fa alcun gesto, il rogo sembra sul punto di prender fuoco, da un momento all’altro. Non sono in grado di avanzare più in fretta, per liberarlo, mi restano solo pochi attimi per trovarmi un nascondiglio. Voglio dirgli che non si tratta di Crocifissione o Resurrezione, solo di un rogo, e basta, trasmettergli almeno queste parole, prima di separarci, ma le fiamme si avvicinano a gran velocità e sento il treno sempre più vicino. Le ruote rombano in modo assordante, il treno fuma, brucia, torcia che penetra veloce e con fragore la nebulosa della notte. Si avvicina, continua ad avvicinarsi, mugghiando, rombando, è sempre più vicino, mi sveglio, spaventato, cerco di liberarmi della coperta torrida. La ruota mi rotola, come un rotolo, i raggi grossi e pesanti sibilano, sibilano. Mi occorre tempo per capire che non mi hanno perforato la carne, che non sono stato risucchiato dai raggi vertiginosi, che mi trovo in un normale scompartimento di un normale treno di notte, in Romania. Rimango per lungo tempo rannicchiato, sudato, con la luce accesa, senza il coraggio di rientrare nel presente. Cerco di ricordare viaggi incantati con la slitta, nella Bucovina incantata, e con la carrozza, in graziose stazioni di villeggiatura bucovine, e col treno, d’autunno, in uno scompartimento vuoto, luminoso, quando la mamma mi aveva svelato il segreto della sua giovinezza ferita. A un certo punto, mi assopisco di nuovo, mi sveglia un pensiero improvviso: Chagall. La cartolina Chagall che avevo guardato spesso, senza capire chi e perche me l’avesse mandata.

Perché tornare significa anche far tornare le memorie – e rivivere la deportazione ad ogni viaggio in treno è esperienza comune a molti deportati.

Lungo era stato il tempo per decidersi a lasciare la Romania e intraprendere la via dell’esilio, e lungo è anche il tempo per decidersi ad abbandonare per un momento l’esilio e rientrare in Romania, dove affrontare visi e luoghi e discorsi e memorie e rimorsi per le promesse non mantenute e dolori antichi e dolori nuovi.

“Il ritorno dell’huligano” è uno di quei libri, un po’ come quest’altro, che provvedono personalmente (sì lo so, non venitemi a spiegare che il libro non è una persona, ma non posso dire che provvede libralmente) a dettarti l’agenda: acquistato una buona dozzina d’anni fa, adesso mi si è imposto alla lettura. Che non è una di quelle letture che procedono a rotta di collo, perché anche il ritmo di lettura te lo detta lui, e ben presto ti rendi conto che lentezza non è sinonimo di noia. Non in questo caso almeno. E ti rendi conto anche che “lui” ti si è imposto in questo momento perché “sapeva” che è esattamente di quel ritmo che il tuo corpo e la tua mente avevano bisogno in questo momento. E un libro così è chiaro che è straordinariamente intelligente, e davvero non puoi fare a meno di leggerlo.

Norman Manea, Il ritorno dell’huligano, il Saggiatore
huligano
barbara

 

QUANDO È TROPPO È TROPPO

Sto percorrendo il marciapiede per arrivare a una carrozza di seconda, dato che quella che ho davanti arrivando dal sottopassaggio è una prima, quando mi si affianca “lui”, che allunga la mano verso la maniglia del trolley. Dico bruscamente “no”, e proseguo, senza accorgermi che, mezzo passo dietro di me, continua a seguirmi. Appena mi fermo davanti alla porta, mi strappa il trolley di mano e lo carica sul treno, e mi chiede dove lo deve portare. Da nessuna parte, rispondo, e mi riapproprio della mia valigia. A questo punto, visto che il suo servizio è finito, allunga la mano e mi chiede soldi. Naturalmente non gli do un accidente e lui insiste. Al che io, a voce ben alta, dico: “Amico, te l’avevo detto che me la portavo da me. Adesso fila!” Se n’è andato imprecando a bassa voce, probabilmente mandandomi ogni sorta di maledizioni – ma tanto con noi vecchie streghe le maledizioni tornano indietro. Eccheccazzo, mi strappi le mie cose di mano e poi pretendi anche che ti paghi?! Ma vaffanculo, va’.

Poi comunque ho avuto una botta di culo perché mi ero dimenticata di timbrare il biglietto (mi sa che sto cominciando a dimenticare un po’ troppe cose, ultimamente: cinque minuti prima ero andata in bagno; mentre mi sto lavando le mani arriva una signora che fa per entrare a sua volta nella toilette, si gira e dice: “È vostra quella borsa?” L’avevo lasciata appesa al gancio; c’erano dentro passaporto patente carta d’identità carta di credito bancomat mio e quello di mia madre un po’ di gioielli medicine macchina fotografica kindle soldi – parecchi – e varie altre cose). Arriva il controllore, prende i biglietti di quelli dei primi sedili. Chiede se sono italiani, quelli dicono di no, e lui dice: “Ah, ecco. In Italia bisogna timbrarli, c’è un macchinetta e si devono infilare nella fessura. Stavolta ci scrivo io data e ora, ma la prossima volta ricordatevi, se no sono 75 euro di multa”. Un controllore che lavora con la testa, evidentemente, perché io di quelle famose cose che voi umani eccetera eccetera ne ho viste a carrettate, in fatto di controllori. Vabbè, arriva a me, io gli do il biglietto e dico che mi sono dimenticata di timbrarlo. Ci pensa su un momento, poi, a quanto pare, gli sembra brutto lasciar correre con gli stranieri e multare gli italiani, anche se la logica in effetti ci sarebbe, così anche a me, anziché darmi la multa, scrive data e ora a penna.

barbara

CHE UNO DICE MA SÌ DAI

Spendo un po’ di più ma almeno viaggio comoda e arrivo presto. E prenota i treni veloci. Poi succede che per una serie di ragioni devo essere accompagnata alla stazione parecchio in anticipo sull’orario del mio treno. Stupidamente non mi passa neanche per la testa di guardare se per caso c’è un treno che parte prima: ho il mio posto prenotato sull’intercity, perché mai dovrei prendere un altro treno? E dunque aspetto il mio intercity. Che arriva in ritardo. Talmente in ritardo che perdo la coincidenza con la Frecciarossa. Mi va ancora bene che di lì a cinque minuti c’è un altro treno, solo che è un regionale veloce, e impiega tre ore invece che un’ora e zero due. Tre ore in un’affollata seconda al posto di un’ora in una comoda e spaziosa prima (c’era una promozione). Durante le quali mi sono anche sorbita una lunga lezione di cucina impartita da una passeggera al telefono che ha fatto sghignazzare sgangheratamente me e tutte le vicine di posto (“no, lo zucchero va messo a metà cottura, se no viene cattivo” “quattro chili, ce ne vogliono quattro chili” “mi raccomando, lo zucchero a metà cottura” “io le mele ce le metto, tre mele su quattro chili cosa vuoi che facciano?” “non dimenticarti che lo zucchero va messo a metà cottura” “una goccia lucida, se non fa la goccia lucida non va bene, vuol dire che hai sbagliato qualcosa” “ricordati che lo zucchero va messo a metà cottura”). E poi il treno ha cominciato a fermarsi in aperta campagna e ad accumulare ritardo, facendomi temere di perdere anche l’altra coincidenza, poi invece ce l’ho fatta, ma in conclusione per meno di quattrocento chilometri sono rimasta in viaggio nove ore e mezza.
Meno male che sono giovane e forte, va’.
E che ho visto una bella botta di amici.


(ach, voi poveri giovani che non avete conosciuto voci come questa!)

barbara

MA VOI NON AVRETE MICA PENSATO

che io possa aver fatto un viaggio in cui sia andato tutto liscio, vero? E infatti no, non è andato tutto liscio. Perché dunque io arrivo alla stazione, per una volta con calma e non, come al solito, arrivando mentre stanno annunciando l’arrivo del mio treno, e così con calma scendo, tiro giù le mie cose, chiudo la macchina, mi avvio, metto una mano in tasca e… non ho il cellulare. Dimenticato a casa. Non è una tragedia, comunque, perché di lì a mezz’ora c’è un altro treno. Che arriva proprio a filo con l’eurocity ed è per questo che non lo prendo mai, perché non voglio farmi il viaggio con lo stress se per caso dovesse fare qualche minuto di ritardo, però di fatto arriva sempre puntualissimo, e quindi posso prenderlo sicuramente senza problemi. E dunque torno alla macchina, ricarico le mie cose, vengo a casa, recupero il cellulare, risalgo in macchina vado alla stazione, parcheggio, ritiro giù le mie cose, entro, guardo il tabellone elettronico e… treno soppresso. Il mio, ovviamente. Con tutti i treni a disposizione che ci si potevano anche togliere lo sfizio di fare una soppressione di massa niente, proprio il mio dovevano andare a sopprimere. E così torno ancora una volta alla macchina, ricarico ancora una volta le mie cose e vado a prendere il treno a Bressanone, a una quarantina di chilometri. Cercando poi di ricordarmi come si arriva alla stazione (ci ero andata l’ultima volta esattamente vent’anni fa, che poi avevo ovviamente sbagliato strada e mi ero trovata in un casino da cui non c’era modo di uscire e mi sa che sarei ancora lì se non fosse arrivato provvidenzialmente a salvarmi un napoletano capitato chissà come tra i geli alpini, ma questa è un’altra storia – abbiate pazienza, lo sapete che io di storie ne ho tante). E una volta arrivata alla stazione cercare il parcheggio (arrivando, se non si sa dov’è, non lo si vede, bisogna fare tutto il giro per trovarselo alla fine davanti, e poi cercare un posto da infilare la macchina e poi farmi un mezzo chilometro dal buco finalmente trovato fino alla stazione e insomma vabbè, alla fine sono arrivata. Faccio le mie cose eccetera eccetera, ieri sera vado a letto, alle tre e mezza mi sveglio con uno di quei mal di testa che ti spaccano il cranio in due, stomaco terremotato, budellame in subbuglio, gambe che mi tremano, insomma un macello, e con quel macello poi arrivata mattina alzarmi, fare la valigia e partire, quattro ore di treno, scendo a Bressanone, recupero la macchina, mi faccio tre quarti di viaggio con la pioggia e un quarto con la neve, arrivo a casa e per prima cosa apro un cassetto, infilo una mano e caccio un urlo belluino: una siringa, per pura cattiveria, si era sfilata il cappuccio e si era girata in modo da trovarsi proprio proprio perpendicolare al palmo della mia mano e conficcarci dentro l’ago in profondità. Un’autentica perfidia. Poi non è successo altro, per il momento.
La pizza per Israele comunque è stata un autentico successo, eravamo in trentaquattro, uno più bello dell’altro.

pizza MI 1
pizza MI 2
Foto di Maurizio Turchet

barbara

NON SOLO PECORE AL MACELLO

Anche questa volta ci hanno ingannati!… Di tutti gli ebrei che sono stati trasferiti a Kovno solo pochissimi sono riusciti a salvarsi. Si sono introdotti clandestinamente nel ghetto e hanno raccontato l’orribile verità.
Li hanno trasportati con il treno. Nei vagoni la gente sedeva tranquilla. Parlava solo di come sarebbe stata la vita a Kovno. Quando il futuro è ignoto sembra simile al passato, e il passato, nei ricordi, sembra sempre migliore di com’era in realtà.
All’improvviso il treno ha rallentato la corsa. Un bosco! Soldati! Alcuni si gettano a sfondare le grate delle finestrelle. Altri gridano, battono con i pugni contro le pareti. In certi vagoni gli uomini travolgono i soldati di guardia seduti vicino alle porte e si mettono a saltare giù, a correre: chi verso il bosco, chi lungo i binari del treno, chi per i campi. I soldati aprono il fuoco. Arrivano di corsa anche i boia che aspettavano davanti alle fosse già pronte. Ma la gente salta coraggiosamente dai vagoni e corre. Giovani, vecchi, donne, bambini – nei vagoni non rimane nessuno. I feriti cadono, i sani si gettano addosso ai soldati e strappano loro i fucili dalle mani, li strangolano, ma stramazzano sotto i proiettili. I feriti si torcono dal dolore, gridano, chiedono aiuto. I soldati imprecano, si fasciano l’un l’altro le mani morsicate, inseguono gli infelici, inciampano nei morti e nei feriti, infilzano con le baionette tutti quelli che incontrano. E dai vagoni continua a saltare giù altra gente ancora. Un soldato ordina al macchinista di far ripartire il treno ma la gente salta dai vagoni in movimento. Molti finiscono sotto le ruote, si rompono le gambe, ma la gente continua a saltare … Dopo aver finito tutti i fuggiaschi, i soldati trascinano fuori dai vagoni un pugno di vecchi e donne rincantucciati negli angoli, e li spingono alle fosse. Nel bosco echeggiano di nuovo gli spari. I binari sono coperti di morti. Anche i fossi sono pieni. Perfino lontano lontano, nei campi, fin dove l’occhio può arrivare, giacciono i cadaveri. Un momento fa erano giovani desiderosi di vita, donne graziose, bambini chiacchieroni. I carnefici si aggirano tra i morti, li osservano, a uno danno una pedata, a un altro una spinta con il calcio del fucile, un altro ancora lo rivoltano velocemente per convincersi che sia morto. Se sospettano che qualcuno sia ancora vivo gli cacciano la baionetta nella pancia. Frugano nelle tasche, nei fagotti sparsi attorno. Non appena vedono qualcosa di valore se lo ficcano in tasca. I soldati sono ripartiti. È rimasta solo una guardia a sorvegliare i morti … Notte … La terra respira affannosamente: la opprimono i cadaveri dei santi innocenti. Teneri fili d’erba accarezzano esitanti i volti schiacciati al suolo. Sperano forse con la freschezza primaverile di riportarli alla vita? Purtroppo … (Masha Rolnikaite, Devo raccontare, Adelphi)

Morti sì, ma lottando fino all’ultimo respiro. Morti sì, ma da combattenti. Morti sì, ma infliggendo almeno qualche danno al nemico.
Per non parlare di quella cosa grandiosa che è stata la rivolta del ghetto di Varsavia.

barbara

TRENEIDE, NUOVO EPISODIO

Però del treno vi dico dopo, prima voglio raccontarvi che
Ho scoperto che esistono ancora alberghi che hanno la camera numero 1 e la camera numero 2 e la camera numero 3 e il numero più alto corrisponde esattamente al numero di camere presenti nell’albergo.
Ho scoperto che esistono ancora alberghi in cui si chiama il ragazzo per portare su i bagagli.
Ho scoperto che esistono persone per le quali sono (io) un tale mito che sono perfino disposte a rinunciare a un impegno importantissimo per potermi incontrare.
E sono soddisfazioni, eh! Valeva davvero la pena di mettere un momentino il naso oltre frontiera. Certo che il Corriere della Sera a tre euro…



               


E poi il treno, sì. Stavolta mi si è rotto, e me lo hanno soppresso, come i cavalli quando si rompono le zampe. Così quando è arrivato il treno successivo ci hanno detto di scendere e prendere quello, che ovviamente era già pieno di suo, quindi figurarsi cosa è diventato quando ci siamo aggiunti noi. E la signora davanti a me, una bellissima e vecchissima signora milanese, si gira e dice qua è tutto pieno, e io dico sì, ma adesso sono piene anche tutte le altre carrozze. E poi guardando meglio dico a me pare di vedere sedili liberi, proviamo ad andare avanti, e difatti poco dopo vediamo un sedile con sopra una borsa e delle maglie e lei chiede se è libero e la tizia, visibilmente a malincuore, dice di sì. E la vecchia signora si erge in tutta la sua indignazione e severissima tuona: “E allora cosa ci fa quella roba sopra? La tolga! Non vede quanta gente c’è?” E anche sul sedile di fronte la roba era stata messa solo per comodità, così ci siamo sedute tutte e due. Ovviamente ho perso la coincidenza, però poi a Verona, dove dovevo prendere la seconda coincidenza, mi sono vista pronto per la partenza, con un’ora e cinquanta di ritardo, il treno che avrei dovuto prendere se tutto fosse andato come doveva: era regolarmente partito, aveva corso per due tre minuti e poi si era rotto. Così hanno mandato una motrice ad agganciarlo e trainarlo indietro fino alla stazione, dove non ho capito se lo abbiano rattoppato o sostituito. In conclusione dovevo arrivare a casa alle cinque mezza e sono arrivata alle otto: dieci ore e mezza di viaggio per quattrocento chilometri! Vabbè, adesso per qualche giorno sono di nuovo qui.

barbara