LE OLIMPIADI DI MONACO VISTE DAL DI DENTRO

È un libro autobiografico, narrato in terza persona, di un giornalista e scrittore svedese trovatosi ad assistere alle Olimpiadi del ’72, che sto leggendo in questo momento; proprio ieri ho letto il capitolo relativo alla vicenda, e ritengo interessante proporlo.

È come dovrebbe essere, fino alla mattina in cui tutto diventa come non avrebbe mai dovuto essere.
Ricorda il momento preciso.
È mattina presto in sala stampa, l’incomparabile Mark Spitz mostrerà al mondo le sue sette medaglie d’oro, ma è in ritardo e il capo ufficio stampa, Klein, annuncia invece nel suo solito modo estremamente corretto e distinto che quella mattina presto, dieser frühe Morgen, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo; anche se utilizza parole diverse: che un gruppo di terroristi, verosimilmente arabi, si è introdotto negli alloggi israeliani, uccidendo un partecipante e prendendo gli altri in ostaggio. Il gruppo in seguito avrà un nome, Settembre Nero, e pretenderà la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi.
Poi, dopo una mezz’ora di attesa, viene fatto entrare Mark Spitz, pallido come un morto e con lo sguardo assente. Gli fanno domande a cui risponde a malapena. Poi iniziano le trenta ore di caccia.
Ha sempre sognato di trovarsi al centro quando la storia cambia direzione. Ma al centro, se per caso ci si ritrova davvero, è difficile vedere. In ogni caso vedere nel futuro: che le Olimpiadi di Monaco avrebbero segnato l’inizio di una nuova forma di guerra, basata non su eserciti che si affrontano in campo aperto per annientarsi a vicenda, ma sulla lotta tra eserciti invincibili ma impotenti e terroristi nei loro covi inaccessibili. Questo nessuno era in grado di vederlo.
Ma è quello che è successo. Il centro è un punto sopravvalutato.
Diciassette anni dopo si troverà a Praga nel novembre del 1989, nella notte in cui cade il muro e centinaia di migliaia di persone affollano piazza Venceslao, ma non capisce niente, si trova così vicino al centro che la folla oscura la storia, e vorrebbe più che altro dormire. Anche adesso non capisce niente, può solo provare dolore. Era tutto così divertente. Scriveva così bene. Si muoveva così facilmente, senza la minima stanchezza; aveva sognato di assistere a quei giochi sportivi per tutta la vita, di guardare e scrivere. Adesso solo dolore.
Si rende conto che quello che era il tema principale de Il secondo, il ruolo della politica nello sport, sarà spietatamente confermato.

Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto saperlo, era lui.
A Monaco si costruisce un palcoscenico fantastico. Il mondo intero ammira quello spettacolo, sono tutti lì. La scena è illuminata, le telecamere puntate, la stampa mondiale si dispone sugli spalti. Si annunciano dei giochi che parleranno solo di sport. Per due settimane la realtà se ne starà fuori.
Ci si sbagliava. Quel teatro e quel palcoscenico sono troppo ben illuminati, quell’attenzione troppo intensa e allettante. Dato che tutto il mondo guarda quel palcoscenico, sono in molti a volerci salire, attori freddi come il ghiaccio con scopi ben diversi dallo sport. E infatti arrivano. Saltano sul palco e mettono in scena un gioco che parla del mondo fuori. Uomini mascherati di nero saltano su, inscenano un dramma chiamato il Conflitto palestinese.
A posteriori, era così facile da capire. La politica avrebbe fatto un solo boccone di quello spettacolo sportivo, e il gioco sarebbe finito. Cosa aveva detto la signora Meckel? Non aveva forse pregato il Salvatore Gesù Cristo di risparmiarlo dal veleno della politica?
Si domanda cosa starà pensando adesso.

La sala stampa dei giochi di Monaco, che veniva chiamata la Fossa, diventa il centro del mondo.
Per chi scriveva, la Fossa era il cuore stesso dei giochi: un’enorme buca imbottita al centro dell’edificio, piena di poltrone in pelle e tavolini bassi, con centinaia di monitor che in ogni istante trasmettevano lo spettacolo molteplice delle varie arene. Ci si poteva nascondere lì dentro, senza mai mettere piede negli stadi, ma quella frühe Morgen all’improvviso la Fossa sembrava logora, quasi sudicia. Normalmente non era popolata solo da quelli che scrivevano, ma anche dalle hostess incredibilmente belle e vestite di azzurro, il cui compito era assistere, guidare, sorridere e rispondere alle domande; si diceva che fossero cinquemila. Aveva notato che all’inizio dei giochi apparivano non solo belle e gentili ma anche quasi asetticamente irraggiungibili, plastificate, quasi divine.
Poi in un certo senso persero la loro freschezza.
Quelle con cui parla il giorno dell’inaugurazione, due settimane dopo non sono più le stesse: hanno qualcosa di rassegnato. Le Campanule, come venivano chiamate, verso la fine sono molto stanche, quasi implorano un po’ di contatto. Non sono più distanti, ma esauste; all’inizio consapevoli della loro incredibile bellezza, a mano a mano che passano i giorni e le settimane sembrano stancarsi dei giochi olimpici e della troppa birra, ne hanno abbastanza della Fossa e dei monitor, ingrassano quasi impercettibilmente, vogliono attaccare discorso su qualunque argomento tranne lo sport, qualsiasi cosa, e alla fine, fumando disperate in cerca di contatto per rompere la noia, non vedono l’ora che i giochi finiscano, per liberarsi dalla prigione dei media e riprendere i loro ruoli naturali in tutta libertà.
Qualunque questi siano. Supplente a Enköping, o regina di Svezia.
C’è qualcosa nell’appassire delle Campanule che lo tormenta in modo confuso. È forse al romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, che pensa, il romanzo sul ritratto che invecchia, mentre il modello umano resta per sempre giovane?
Sta osservando il suo stesso ritratto?
E poi le Olimpiadi di Monaco del 1972 esplodono.

Le settimane prima dell’esplosione sono meravigliose. Scriverà un reportage sulle Olimpiadi, ma si rende conto di avere le sue debolezze.
È un osservatore timido. Alto e silenzioso, passeggia e osserva. È quello il suo metodo.
Un pino ambulante.
Nelle ore successive all’annuncio del rapimento, va a cercare alcuni amici della delegazione svedese al villaggio olimpico. È ancora possibile muoversi quasi liberamente. Per il momento niente sbarramenti attorno al villaggio e agli ostaggi, sempre che si riesca a sbarrare un posto del genere. Il villaggio è un formicaio, con innumerevoli corridoi e passaggi sotterranei, non sorvegliati. Quei giochi dovevano essere caratterizzati dalla gioia, die Heiterkeit, non dalla disciplina tedesca e dai controlli militari. Le Olimpiadi di Monaco avrebbero dovuto lavare via la germanicità dalla storia.
I dodici anni sotto Hitler sarebbero stati cancellati.
Se ne è reso conto e gli ha fatto piacere, fino al momento in cui, come tutti gli altri amanti dell’homo ludens, sarà colpito dalle conseguenze sotto forma di morte violenta. Tutte le regole di sicurezza erano state adattate a quell’ideologia della gioia, era possibile muoversi liberamente, quasi senza ostacoli, cosa di cui si erano accorti anche i terroristi, che perciò erano riusciti a entrare senza difficoltà negli alloggi israeliani.
Era quello dunque il centro della storia?
Gli danno una dritta su come arrivare agli alloggi israeliani, attraverso un corridoio sotterraneo. Scende dunque sottoterra come un Dante accreditato, per raggiungere il seminterrato degli alloggi israeliani, che funge anche da parcheggio per gli atleti canadesi.
Ha in mente di liberarli? No, vuole solo arrivare fino a lì e avere conferma della correttezza del suo metodo di lavoro, l’innocenza osservatrice.

Quando scrive di sport, non sa bene qual è il suo ruolo. È quello dell’Investigatore, come quando lavorava ai Legionari, o quello del bambino che al riparo della siepe di rosa canina sentiva i rumori delle partite dei Komet?
Quattordici anni dopo, nel 1986, si troverà in Messico per i Mondiali di calcio; ricopre ancora il ruolo di pino ambulante, molto alto ma silenzioso, a parte il fatto che durante le sue goffe passeggiate vede cose che nessun altro nota.
Ai mondiali del Messico ’86, tutto è accuratamente sorvegliato da migliaia di soldati. Nessuna traccia di Heiterkeit. Ci si aspetta che assista alla partita tra Uruguay e Germania dalla tribuna stampa. Arrivato davanti allo stadio, tra file e file di militari pesantemente armati che devono impedire qualsiasi dimostrazione, vede una troupe televisiva tedesca che, trascinando cavi e telecamere, viene fatta passare tra le truppe in tenuta antisommossa. Un lungo cavo penzola a terra: armato di buona volontà, lo solleva e in quel modo segue la zdf nei meandri della cittadella ben sorvegliata, reggendo passivamente l’estremità di un cavo.
La troupe si piazza dietro una delle porte, a pochi metri dalla linea di fondo. Si siede sull’erba e osserva pensosamente il primo tempo e il lavoro del portiere uruguayano. Una volta dopo l’altra, i bufali tedeschi si lanciano su di lui a folle velocità, facendo rintronare il terreno; dato che ricorda i suoi contributi da portiere nel Bureå if, e la sua codardia quando arrivavano i bufali, prova una profonda empatia. Da quella prospettiva, che non è quella della tribuna alta, la stessa dello spettatore televisivo, la logica del gioco si trasforma. La profondità di visione si riduce, le superfici libere si nascondono e spariscono. Ammira i giocatori che nonostante la prospettiva orizzontale riescono a vedere le superfici, ad agire secondo la prospettiva rialzata della tribuna. Ma lì, da quel punto a poche decine di centimetri dall’erba, ogni idea della “scacchiera del campo” scompare. Proverà poi, per verificare le sue osservazioni, a giocare una partita a scacchi con la scacchiera all’altezza degli occhi: perde rapidamente, e reputa confermate le osservazioni.
Durante l’intervallo si alza con calma e passeggia a bordo campo. È bello potersi sgranchire le gambe. Una volta all’interno di quel muro di Berlino messicano, la sorveglianza è praticamente nulla. A metà della linea laterale, sente un bisognino improvviso e si infila nella discesa da cui sono spariti i giocatori, in cerca di un bagno.
I corridoi sono quasi deserti.
Prosegue verso sinistra per una trentina di metri, niente guardie in giro, c’è una porta aperta, si dirige in quella direzione ed entra. È lo spogliatoio della squadra tedesca, tutti i giocatori sono seduti sulle panche in un silenzio assoluto. Al centro c’è Franz Beckenbauer, l’allenatore, elegante e rilassato; volta la testa verso di lui, non commenta, ma la sua espressione è interrogativa, o forse cortesemente critica nei confronti dell’intruso. Lui dice brevemente, e senza scomporsi, Entschuldigung!, scusate!, poi ripercorre il corridoio deserto e chiede come arrivare alla tribuna stampa, da dove assiste al secondo tempo.
Che conclusioni trae l’Investigatore da tutto ciò? Quasi nessuna, se non la riconquista del ricordo del suo lavoro di portiere, rischioso e poco fruttuoso, nel Bureå if.

Attraverso innumerevoli telecamere, il mondo guarda col fiato sospeso un balcone del villaggio olimpico da cui di tanto in tanto si affaccia un terrorista mascherato; ma lui percorre i corridoi sotterranei nella direzione che gli è stata suggerita, verso il garage dei canadesi, sotto gli alloggi israeliani.
A un certo punto chiede a un poliziotto Potrebbe indicarmi i bagni degli alloggi canadesi, ma per tutta risposta ottiene solo un perplesso e preoccupato cenno negativo della testa. Che apparentemente si lascia dietro un vago senso di colpa per non aver mostrato la gentilezza e la disponibilità prescritte dal principio di Heiterkeit di quei giochi olimpici.
Si rende conto che le colombe non hanno ancora avuto il tempo di riflettere, anche se i falchi sono già arrivati con possenti colpi d’ala e ora stringono gli ostaggi tra gli artigli.
Il sotterraneo è scarsamente illuminato, il garage semivuoto. Più avanza, più si rende conto che è lì che si sta preparando la liberazione; poliziotti che corrono, ombre indistinte, civili armati, soldati che arrivano di corsa. Dato che tanti poliziotti sono in borghese per non attirare l’attenzione, non attira l’attenzione nemmeno lui.
Alla fine si ritrova nel seminterrato situato esattamente sotto gli alloggi israeliani. Non ha bisogno di chiedere. È lì. Si sta preparando la liberazione. Un gruppo di poliziotti e artificieri indica verso l’alto, parlottando a bassa voce. Al soffitto è fissata una massa simile a stucco metallico, probabilmente esplosivo al plastico, sostenuta da alcuni puntelli. Capisce subito cosa stanno progettando. Hanno intenzione di far saltare il pavimento degli alloggi israeliani.
Stanno discutendo sullo spessore della soletta. Qualcuno ha i progetti dell’edificio.
Si ferma vicino a loro, dopo un attimo chiede se hanno intenzione di coordinare l’esplosione con un attacco dall’esterno. Ritiene che dopo tutto sia una domanda importante. Lo guardano e gli chiedono chi è.
Mostra educatamente il cartellino di accredito che ha nascosto sotto la camicia. Lo buttano immediatamente fuori, con gentilezza.
Che conclusioni ne trae?
Parecchie.
Tra le altre cose, che il bel sogno tedesco dell’Heiterkeit viene annientato. Si era sognato di cancellare in modo aperto e giocoso tredici anni di Storia.
E in effetti la storia cambiò direzione, ma non nel modo sognato.

Dodici ore più tardi era sullo spiazzo davanti agli alloggi israeliani, a faccia in su, come tutti gli altri, a guardare l’elicottero che prendeva il volo.
Era carico di morte, ma non lo sapeva ancora nessuno.
Da quel giorno non può vedere un elicottero di quel tipo senza pensare a Monaco ’72. I terroristi e gli ostaggi, come richiesto, sarebbero stati portati in elicottero fino a un aeroporto, per poi partire in aereo per il Cairo, dove sarebbero proseguite le trattative.
Nel frattempo, lo sanno tutti, non si poteva svolgere nessuna gara.
Una certezza improvvisa: o si liberano subito gli ostaggi, o i giochi di Monaco dovranno essere interrotti.
La logica del gioco pretende una liberazione immediata. A ogni costo.
Quella notte avrebbero scritto. Lången Olsson e Janne Mosander e Stig Bodin e Lennart Ericsson e lui, lavorarono in silenzio, con una strana calma, in modo molto tranquillo ed efficace. Quella notte consegnarono diciassette pagine, e a Stoccolma qualcun altro avrebbe proseguito il lavoro impaginando e formattando. Non aveva mai lavorato in quel modo per il giornale, aveva solo scritto degli articoli per la pagina della cultura.
Avrebbe ricordato quella notte per la calma, e per il piacere di lavorare insieme.
Erano come una squadra. Poteva essere anche così.

Quella notte la Fossa non si svuotò mai.
Verso il mattino – quando normalmente c’erano solo una ventina dei più resistenti e ubriachi, accasciati al bar o addormentati sulle poltrone – l’affollamento non fece che aumentare. L’elicottero era atterrato da qualche parte, non a Riem, forse a Fürstenfeldbruck, sì, era lì, un aeroporto militare. Venivano montate continuamente nuove telecamere, e man mano che passavano le ore invece della solita atmosfera alcolica si percepiva un clima più teso e aggressivo.
Fu annunciata una conferenza stampa per le quattro del mattino, ma lui seppe la verità già mezz’ora prima, da un giornalista israeliano che aveva conosciuto da studente all’università di Gerusalemme. Erano in mezzo alla sala stampa, e il giornalista israeliano gli disse con una calma e una precisione innaturali, Sì, li hanno uccisi tutti, lui chiese senza capire Tutti chi? e la risposta arrivò con la stessa gelida calma glaciale Hanno ucciso tutti gli israeliani, è vero, tutti, e poi lui confuso Chi, chi ha sparato? e la risposta, con un’ironia trattenuta appena percettibile, Tutti gli ostaggi sono morti, hanno sparato a tutti, nessuno sa chi è stato, probabilmente i tedeschi o gli arabi, e poi È vero? e con la stessa voce estremamente controllata Hell yes they are all dead it’s true.
A un’estremità della Fossa si accesero i riflettori. Era il momento di spiegare che il tentativo di liberazione era fallito. Che tutti gli atleti israeliani erano stati uccisi, oltre a cinque arabi e un poliziotto. Che in tutto quindici cadaveri restavano sul terreno dopo il massacro a Fürstenfeldbruck, l’aeroporto che fino a quel momento nessuno aveva mai sentito nominare. Tutti morti. Hell yes they are all dead it’s true. Quella notte cinque tiratori scelti tedeschi mal equipaggiati avevano cercato, al buio e da grande distanza, di abbattere i sequestratori che tenevano in ostaggio gli israeliani, e avevano fallito. Erano esplose delle granate, l’elicottero aveva preso fuoco. Nessuno in seguito sarebbe stato in grado di dire chi aveva ucciso chi.
Ma la caccia era finita.
Fu una notte senza stanchezza, ma dopo la conferenza stampa – Alle sind tot! – era sopravvenuto lo sbandamento. La Fossa non si era svuotata e quelli che erano rimasti si erano messi a bere. Si erano sparpagliati sui divani e sulle sedie e sul pavimento in quella sala gigantesca ormai puzzolente e invasa dal fumo delle sigarette, in quella mattinata grigia e chiara in cui regnava una confusione sorda e un senso di sporcizia indescrivibile. Sembrava quasi che un rigurgito di vino acido, di posacenere rovesciati e di vetri rotti si fosse riversato sulla Fossa, avvolgendo tutto in un’indescrivibile atmosfera di sconfitta e di rovina catastrofica. Molti dormivano sdraiati su tavoli e poltrone, con la bocca spalancata e il colletto sbottonato, con i tesserini di accredito, un tempo preziosi, amati e ben custoditi che gli pendevano dal collo, smaltendo col sonno l’abbattimento e la sbornia.
Si sedette in mezzo a loro.
I testi erano stati consegnati. La notte era finita e comunque fossero andate le cose, anche quei giochi olimpici di Monaco ’72 erano finiti. Poi probabilmente sarebbero iniziate le esequie, le Trauerfeier, che avrebbero scritto la parola fine sulle ventesime Olimpiadi dell’epoca moderna, e lui avrebbe assistito anche a quelle.

Trauerfeier, che strana parola. Festeggiare il lutto.
A cosa aveva assistito? Forse a una svolta della storia, non solo la vittoria del terrorismo sullo spirito ludico come sogno, ma anche un esempio concreto del passaggio della guerra moderna da lotta tra eserciti a terrore contro i civili, dalle analisi del grande stratega militare Clausewitz sull’efficacia dei grandi movimenti di truppe all’intifada, all’undici settembre, all’Iraq e alle perquisizioni delle cucine di periferia per identificare il nemico. Se doveva andare così, e in seguito ne sarebbe stato ancora più convinto, le Trauerfeier erano sicuramente giustificate, per rimarcare che la storia aveva ruotato attorno al suo perno.

Mi sembra che di spunti interessanti ce ne siano diversi; in particolare quello che nessuno, credo, ha mai osato dire ad alta voce e che l’autore apprende dall’amico israeliano: nessuno sa per quale mano siano morti gli ostaggi israeliani.

Per Olov Enquist, Un’altra vita, Iperborea (pp.207-217)

barbara