1939, PICCOLO PROMEMORIA STORICO

Stalin non aveva tardato a cogliere, anche se non pubblicamente conclamati, gli intendimenti delle potenze occidentali manifestati con la resa di Monaco a Hitler: spingere cioè il dittatore tedesco a realizzare i propri sogni espansionistici verso Oriente, in chiave antisovietica. Il momento di scelte decisive si stava rapidamente avvicinando. Egli decise pertanto di convocare per il marzo del 1939 il congresso del partito, che non si riuniva più dal gennaio del 1934. Tutti i suoi oppositori, veri o presunti, erano stati nel frattempo fisicamente soppressi a ogni livello. Il paese ancora una volta dopo le sanguinose purghe si trovava in uno stato di profonda debilitazione, con le nuove leve dirigenziali fedeli allo stalinismo ma impari ai compiti cui erano chiamate, in particolare tra le forze armate, i cui vertici erano stati letteralmente massacrati.
Era tempo di porre fine alla carneficina. Come suo costume, Stalin parlando ai congressisti, scaricò le proprie responsabilità sugli apparati: «Non si può dire che le epurazioni siano state condotte senza gravi errori. Purtroppo sono stati commessi più errori di quanto si potesse prevedere». E dalla tribuna vennero elencati in gran copia episodi di palesi ingiustizie e illegalità. Il messaggio che il dittatore intendeva inviare era chiaro: l’epoca del terrore di massa doveva considerarsi conclusa. Lo richiedeva in particolare la preoccupante situazione internazionale, per far fronte alla quale era necessario riportare un minimo di tranquillità e di ordine negli sconquassati apparati del potere sovietico. Fu difatti alla politica estera che Stalin dedicò la parte preponderante del suo intervento. Un evidente messaggio rivolto a tutti gli interlocutori. Germania, Italia e Giappone vennero da lui definiti «paesi aggressori» contro i quali però le potenze occidentali non sapevano che indietreggiare «facendo una concessione dopo l’altra». La condanna dello spirito di Monaco non poteva essere più esplicita anche perché ne veniva svelato il disegno recondito: quello di portare allo scontro Germania e Unione Sovietica di modo che «si indeboliscano e si logorino reciprocamente, e poi, quando saranno ufficialmente spossate, farsi avanti con forze fresche… e dettare ai belligeranti indeboliti le proprie condizioni. Con eleganza e a buon mercato». Fin dal marzo del 1939, dunque, Stalin metteva in guardia l’Occidente democratico: l’Urss non si sarebbe prestata a togliere le castagne dal fuoco per conto terzi, e ad assistere impotente alla propria distruzione. La fulminea occupazione di Praga da parte delle truppe tedesche, proprio in quei giorni, denotava del resto l’assoluta libertà d’azione del nazismo, che non esitava a farsi beffe degli stessi pur vantaggiosi accordi di Monaco.
Il definitivo scacco costrinse finalmente i governi di Parigi e di Londra a prendere atto del fallimento della politica di «appeasement» verso Hitler. Si apri un periodo confuso nel quale le democrazie occidentali attivarono canali diplomatici con Mosca ma senza un disegno organico. Si chiese a Stalin se fosse disposto a garantire le frontiere di Polonia e Romania, presumibili nuovi obiettivi del Führer, ma quando egli rispose, il 17 aprile 1939, proponendo un patto a tre, Urss, Francia e Inghilterra, che garantisse l’intangibilità di tutti i paesi che dal Baltico al Mar Nero si interponevano tra Germania e Russia, non ricevette alcuna risposta. La pregiudiziale anticomunista continuava a fare velo, del resto identica a quella di Polonia, degli Stati baltici e della Romania, anch’essi convinti che il pericolo principale risiedesse nel bolscevismo.
Il messaggio che Stalin aveva inviato alla tribuna del congresso del suo partito non veniva dunque recepito. Non ci si rendeva conto che senza precise garanzie di alleanza e di reciprocità, l`Urss non poteva impegnarsi da sola contro la sempre più possente e temibile forza militare tedesca. È bene tener presente questo inoppugnabile dato di fatto per comprendere gli avvenimenti successivi, tanto più oggi quando uno sconsiderato revisionismo tende ad addossare a Stalin la responsabilità primaria nello scoppio della seconda guerra mondiale.
Il 28 aprile 1939, Hitler, in uno dei suoi consueti sfoghi oratori, lanciava al mondo una nuova sfida rivendicando pretese territoriali nei confronti della Polonia. Il discorso produsse ulteriore e profonda preoccupazione al Cremlino: l’apertura della vertenza polacca preludeva a un confronto che avrebbe avuto come posta in palio un paese confinante con l’Unione Sovietica. Se si fosse risolto come già accaduto in Cecoslovacchia, il risultato sarebbe stato quello di vedere le armate naziste proiettate verso Leningrado, Mosca e Kiev. Stalin ritenne giunto il momento di avere le «mani libere»: insistere con gli occidentali per un’alleanza che continuava a non tradursi in realtà lo esponeva a un grave pericolo, quello di uno scontro diretto con Hitler, senza poter fruire di alcun appoggio internazionale. Il 3 maggio il Cremlino lanciava un segnale inequivocabile: il ministro degli Esteri Litvinov, fautore da anni di un’intesa, purtroppo mai realizzata, con le democrazie occidentali, veniva sostituito da Molotov, uno dei fedelissimi del dittatore, a riprova che le redini della politica estera erano tornate nelle mani di Stalin. La cecità di Londra e di Parigi permaneva intatta: quei governi si affannavano difatti a concedere patti di mutuo appoggio a singoli Stati, come Polonia e Romania, senza comprendere che in mancanza del sostegno militare sovietico sarebbero rimasti pezzi di carta, data la lontananza dall’apparato bellico di Francia e Inghilterra.
Nel mese di luglio mentre Hitler accentuava la pressione su Varsavia per ottenere il corridoio di Danzica, così da consentirgli la contiguità territoriale con la Prussia orientale, e i rumori di guerra si facevano sempre più concreti, Stalin, ancora esitante sulla linea da scegliere, avviò contemporanei contatti con la Germania e con le potenze occidentali. Con la prima accettando di intavolare trattative commerciali «senza condizioni «politiche» – e con le altre dichiarandosi disposto ad accogliere a Mosca una missione militare per un serio negoziato. Giorni febbrili in cui si giocavano i destini del mondo. Il Führer si era spinto troppo avanti nella questione polacca, indietro non poteva più tornare. Pur di vincere era disposto a tutto. L’11 agosto a un gruppo di collaboratori illustrerà senza infingimenti e con lucido cinismo le proprie intenzioni: «Tutti i miei sforzi sono diretti contro la Russia: se l’Occidente è tanto stupido e cieco da non capirlo, sarò costretto a mettermi d’accordo con i russi, colpire l’Occidente e poi, dopo la sua sconfitta, rivolgermi con tutte le mie forze contro l’Unione Sovietica. lo ho bisogno dell’Ucraina, così che non ci si potrà affamare nuovamente come durante l’ultima guerra».
A vincere le ultime esitazioni del Cremlino concorsero due fatti: l’aperto rifiuto opposto da numerosi e influenti circoli occidentali di «morire per Danzica», che confermava la pochissima voglia di battersi in difesa della Polonia, e l’irridente comportamento dei governi di Londra e Parigi a proposito della loro missione militare in procinto di partire per Mosca. Composta da personalità pressoché sconosciute e prive di qualsiasi vincolante mandato negoziale, essa decise di avviarsi servendosi di una nave, un viaggio che sarebbe durato ben 11 giorni col risultato di giungere nella capitale sovietica il 12 agosto, a giochi ormai quasi fatti. Hitler – secondo il suo nuovo progetto – premeva sui vertici del Cremlino affinché accettassero la proposta di un’alleanza che tenesse conto degli interessi sovietici nel caso di un’invasione tedesca della Polonia.
La guerra voluta dai nazisti bussava alle porte: non era più il tempo delle sofisticate manovre diplomatiche. Di fronte a un nuovo perentorio invito del Führer, quasi un ultimatum Stalin accondiscendeva a ricevere a Mosca il ministro degli Esteri nazista, Ribbentrop, latore di un piano segreto che prevedeva la spartizione della Polonia: due terzi alla Germania, un terzo all’Unione Sovietica. Il dittatore georgiano lo accettò, convinto di avere dalla sua quattro buone ragioni: 1°) un accordo con Hitler avrebbe impedito uno scontro diretto con la Germania, impossibile da sostenere a causa dell’impreparazione militare dell’Armata rossa; 2°) l’annessione della Polonia orientale consentiva di tenere l’esercito tedesco a distanza di sicurezza dai centri nevralgici del paese; 3°) il disegno delle potenze occidentali di servirsi di Hitler in chiave antibolscevica veniva temporaneamente stroncato; 4°) Se la guerra fosse scoppiata tra Germania e anglo-francesi, l’Unione Sovietica ne sarebbe rimasta fuori, in posizione d’attesa e pronta a sfruttarne le potenzialità «rivoluzionarie».

Gianni Rocca, Caro revisionista ti scrivo, Editori Riuniti (1998), pagg. 76-79

In una fonte che al momento non trovo ho letto di un’ammissione di Churchill di avere ricevuto da Stalin diverse “oneste proposte” e di averle regolarmente respinte. A questo punto, per salvare l’Unione Sovietica, non era rimasta altra carta da giocare che l’osceno patto col diavolo e lo smembramento della Polonia.

Morale della favola: se metti la Russia con le spalle al muro, poi sono cazzi acidi. E te li devi digerire tu.

83 anni più tardi… Lo leggerete domani.

(Nel frattempo aggiungo una piccola nota a margine: i veri profughi di guerra, come sempre, passano la frontiera e lì si fermano in attesa di poter rientrare il più presto possibile, non appena le acque si saranno calmate. Chi si sposta di 3000 chilometri tutto potrà essere, ma profugo di guerra proprio no)

Sempre nel frattempo, visto che il post è relativamente corto, facciamo anche un salto a casa nostra.

Giorgio Bianchi

Come è accaduto con Trieste al tempo della pandemia, è dal mondo del lavoro, quello vero, che arrivano sempre le risposte più incisive e concrete.
Massimo sostegno ai lavoratori di Pisa, veri costruttori di pace.
Non si spengono gli incendi con la benzina.
Dall’aeroporto di Pisa armi all’Ucraina mascherate da “aiuti umanitari”: i lavoratori rifiutano di caricare gli aerei. Sabato 19 manifestazione USB al Galilei
Alcuni lavoratori dell’aeroporto civile Galileo Galilei di Pisa ci hanno informato di un fatto gravissimo: dal Cargo Village sito presso l’Aeroporto civile partono voli “umanitari”, che dovrebbero essere riempiti di vettovaglie, viveri, medicinali e quant’altro utile per le popolazioni ucraine tormentate da settimane da bombardamenti e combattimenti. Ma non è così!
Quando si sono presentati sotto l’aereo, i lavoratori addetti al carico si sono trovati di fronte casse piene di armi di vario tipo, munizioni ed esplosivi.
Una amara e terribile sorpresa, che conferma il clima di guerra nel quale ci sta trascinando il governo Draghi.
Di fronte a questo fatto gravissimo, i lavoratori si sono rifiutati di caricare il cargo: questi aerei atterrano prima nelle basi USA/NATO in Polonia, poi i carichi sono inviati in Ucraina, dove infine sono bombardati dall’esercito russo, determinando la morte di altri lavoratori, impiegati nelle basi interessate agli attacchi.
Denunciamo con forza questa vera e propria falsificazione, che usa cinicamente la copertura “umanitaria” per continuare ad alimentare la guerra in Ucraina
Chiediamo:
1) alle strutture di controllo del traffico aereo dell’aeroporto civile di bloccare immediatamente questi voli di morte mascherati da aiuti “umanitari”;
2) ai lavoratori di continuare a rifiutarsi di caricare armi ed esplosivi che vanno ad alimentare una spirale di guerra, che potremo fermare solo con un immediato cessate il fuoco e il rilancio di dialoghi di pace;
3) alla cittadinanza di partecipare alla manifestazione di sabato 19 marzo di fronte all’aeroporto Galilei (ore 15) sulla parola d’ordine “Dalla Toscana ponti di pace, non voli di guerra!”.
Unione Sindacale di Base – Federazione di Pisa.

E come se non bastasse

E quando ci ritroveremo sopra la testa i caccia russi a bombardare – legittimamente – le nostre città, sappiamo ESATTAMENTE chi dovremo ringraziare.

E per concludere, il russo stavolta ve lo metto anche in divisa

barbara

QUEI COMUNISTI IN ITALIA

che non erano mai stati al governo ma hanno sempre comandato tutto lo stesso (qualche commento mio in corsivo, qua e là).
Così l’Italia censurò il dissenso anticomunista

30 anni fa cadde l’Unione Sovietica. Fra diktat, silenzi e stroncature codarde, il mondo della cultura per anni impedì che al pubblico arrivassero le voci dei grandi testimoni

Il 25 dicembre 1991 cadde l’Unione Sovietica. Trent’anni che meriterebbero una ricostruzione speciale su come in Italia si fece terra bruciata attorno al dissenso antisovietico [diciamo pure che la sinistra è allergica al dissenso tout court]. Il clima era tale che Italo Calvino definiva George Orwell “libellista di second’ordine” e portatore di “uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo” [la mia prof di italiano e latino al liceo considerava Italo Calvino uno scrittore di second’ordine (“Ha fatto un unico libro valido: Il sentiero dei nidi di ragno”): vuoi vedere che aveva ragione?]
In Italia il grande drammaturgo Eugène Ionesco¹ fu a lungo interdetto. La Stampa del 6 febbraio 1975 si espresse chiaramente: “Ionesco vede nero; soltanto nero anche come colore politico: è diventato un reazionario. Il che sarebbe affar suo (si cade in braccio alle destre che si meritano) se anche la sua arte non si fosse fatta reazionaria”. Per veder tradotto in italiano il saggio del 1961 di Martin Esslin “Il teatro dell’assurdo” si è dovuto aspettare vent’anni. Un testo critico che era considerato non solo nel mondo anglosassone “un classico della saggistica contemporanea”, dice Giovanni Antonucci nell’introduzione alla terza edizione del libro uscita nel 1990, ma guardato con sospetto dall’editoria italiana: “La motivazione era esclusivamente ideologica: era un libro reazionario perché si occupava di autori reazionari”. Quando Ionesco nel 1973 accettò un invito del Cidas (Centro italiano documentazione e studi) intitolato “Intellettuali per la libertà”, su L’Avanti! uscì un articolo titolato “Stavolta Ionesco è da dimenticare”. Sulle colonne del Corriere della Sera Luigi Malerba deprecava “la traduzione italiana di un romanzo ‘reazionario’ di Ionesco edito da Rusconi”. Gabriella Bosco nel libro “Ionesco metafisico” spiega che “Einaudi lo traduceva come autore di teatro, ma manteneva il silenzio quanto a interpretazioni o giudizi di valore, prendendo implicitamente le distanze”. Bosco ricorda che “Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, ostracizzò Ionesco perché a suo parere era un autore reazionario”. Sarà un altro drammaturgo, Fernando Arrabal, a dire: “Personaggi come Giorgio Strehler hanno impedito per anni la messa in scena di grandi opere come quelle di Ionesco”. Un altro articolo su L’Avanti! lo accuserà di “passare dal precedente cinismo reazionario al fascismo dichiarato”. Su L’Espresso, Corrado Augias irriderà Ionesco anche fisicamente: “Viso gualcito, occhi vacui virati in giallo da un permanente sospetto di itterizia, manine tozze dalle dita corte, spatolate, pancino bombato, piedini divergenti. I cinquantanove anni di Ionesco tendono decisamente alla caricatura. C’è chi assicura che l’unico vero teatro ioneschiano ancora esistente è quello cui la famiglia Ionesco al completo dà vita in salotto o attorno al tavolo da pranzo” [Quindi non è rincoglionito perché è vecchio: è proprio coglione di suo]. Augias è sempre rimasto lo stesso.
Ci fu il caso di Nicola Chiaromonte, esule antifascista in Spagna per partecipare alla guerra civile con la squadriglia aerea di André Malraux, in Italia isolato e inviso per essere un rappresentante dell’anticomunismo di matrice liberal-democratica. Quando nel 1968 chiuse la sua rivista, Tempo Presente, Chiaromonte chiese a molti editori di aiutarlo a continuare la rivista, ma ebbe sempre risposte negative. Gli ultimi anni di vita di questo straordinario intellettuale anticonformista amico di Ignazio Silone trascorsero nell’umiliante sequenza di richieste di aiuto agli editori italiani: richieste che rimasero sempre inascoltate. La moglie Miriam dirà: “Gli fecero il vuoto intorno”.
Ci fu il caso della mancata pubblicazione da parte di Einaudi di una prefazione del grande scrittore polacco Gustaw Herling (due anni nei Gulag) ai Racconti della Kolyma di Varlam Shalamov (uscirà presso la piccola casa editrice L’Ancora). L’accostamento del Gulag e del Lager nazista come “gemelli”² suonò all’Einaudi come motivo sufficiente per rimandare la prefazione a Herling. “Laterza era comunista, come comunista era Einaudi, il quale pubblicava anche autori non comunisti, ma che voleva stampare quel bandito di Zdanov”³, dirà Herling senza mezzi termini. “La dittatura culturale, dittatura tout-court, c’è stata in Polonia”⁴ racconterà Herling. “Qui, come dire, ha prevalso piuttosto una tranquillizzante abitudine alla reticenza. Tempo Presente poteva uscire senza che nessuna censura poliziesca glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai”. Herling ricordava che poco dopo il suo arrivo in Italia, nel 1956, un amico gli propose di scrivere un articolo sulla rivolta di Poznan per L’Espresso diretto da Arrigo Benedetti. “Non conoscevo ancora bene la lingua italiana ma accettai di buon grado e con l’aiuto di mia moglie spedii l’articolo il più presto possibile. Dopo qualche giorno ricevo un biglietto di Benedetti più o meno di questo tenore: ‘Posso comprendere i suoi sentimenti di esule ma le cose che lei scrive non sono obiettive e appaiono per di più scarsamente documentate’. Mi trovavo con Nicola Chiaromonte al bar Rosati. A un certo punto entra Carlo Levi, amico di Chiaromonte sin dall’esilio, e si mette a sproloquiare sulla rivoluzione ungherese. Per un po’ Chiaromonte rimane in silenzio, ma quando Levi chiede ad alta voce: ‘Chissà quanto avranno speso gli americani per organizzare la rivolta di Budapest’, d’improvviso vedo Nicola avventarsi su Levi e cacciarlo dal tavolo davvero in malo modo”.
Questa era l’Italia.
Ci fu la casa editrice Garzanti, che acquisì i diritti di Raccolto di dolore di Robert Conquest, il libro che rivelò al mondo il genocidio ucraino per fame, lo fece tradurre ma non lo pubblicò mai (il saggio-verità sul genocidio ucraino uscirà grazie alla piccola Liberal Edizioni). 
Ci fu il caso di Alexander Solzenitsyn. Vittorio Foa, il leader dell’azionismo, confesserà: “Quando uscì la traduzione del libro di Solzenitsyn lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano”⁵ [Una vigliaccheria riconosciuta come tale, dopotutto, è già un pochino perdonabile: diciamo il famoso orbo in un mondo di ciechi]. In un articolo su La Stampa del 1990⁶, Enzo Bettiza, uno dei pochi che subito si misero a difesa dello scrittore, spiegò: “Ero stato nel 1962 il primo traduttore in assoluto dal russo di ‘Una giornata di Ivan Denisovic’. Ricordo il fatto perché storicamente e filologicamente comincia da lì, da quella mia traduzione, la sequela dei falsi equivoci, delle perfidie sottili, dei malintesi interessati che hanno da sempre intossicato e reso pessimo il rapporto tra il grande deicida e la cultura più teologizzante d’occidente, quella italiana”. Bettiza si mise a tradurlo per L’Espresso, quando ricevette una telefonata del direttore, Arrigo Benedetti: “Ma che robaccia è mai questo Solzenitsyn? Mi sembra un Pavese russo, un decadente che fa il rustico! Questo gergo artefatto, questo stile falsamente gretto, tutta questa letteraria saggezza e mestizia contadine!”. Dieci anni dopo i medesimi pregiudizi si faranno meno innocenti, si tingeranno di malizia ideologica e raggiungeranno secondo Bettiza “il livello di una censura canagliesca nei confronti dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa che aveva osato proclamare che il comunismo è soltanto delitto e menzogna”. Bettiza parlò di una “vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana contro Solzenitsyn” e che “negli anni in cui il compromesso storico avanzava e le Brigate rosse uccidevano nel nome del comunismo” si articolerà su tre piani: estetico, ideologico-politico, editoriale.
“Sul piano estetico ricordo una violenta polemica, in difesa anche artistica dell’opera sul Gulag, che mi oppose sulle pagine dei giornali a Carlo Cassola il quale, con maggiore pretenziosità politica di Benedetti aveva sostenuto su per giù le sue stesse banalità: il fenomeno Solzenitsyn era secondo lui nullo sul piano dell’arte, un pasticcio senza capo né coda fra storiografia dubbia e cattiva letteratura. Solgenitsin non era uno scrittore, non era neanche un vero storico, era soltanto il precario cronista di una sua disgraziata disavventura personale nei Lager staliniani che gli aveva dato alla testa”. Insomma: un povero matto. In una intervista al Mondo del 1974 Cassola aveva detto che Solzenitsyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. Con Solzenitsyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio”.
“In molte recensioni italiane si videro diverse firme illustri impacchettarlo e stroncarlo come anticomunista viscerale e come capofila di un potenziale neofascismo russo. Un famoso letterato arrivò addirittura a esclamare in pubblico: ‘Bisognerebbe fucilarlo!’”. Ricordava Franco Fortini: “Ricordo l’ostilità di cui era circondato, qui in Italia. Penso all’area operaista, a intellettuali come Asor Rosa [quello che ce l’ha a morte con la razza ebraica, vedi qui e l’ultima parte qui (ma se avete qualche minuto leggetelo tutto) e che un noto saltimbanco ebreo rinnegato venduto alla causa del terrorismo palestinese ha difeso all’epoca a spada tratta], Tronti, Negri, Cacciari [quello che oggi si mette in cattedra a dare lezioni di etica all’Italia intera], tutta gente che rideva a crepapelle sui libri di Solzenitsyn”. 
Sul piano editoriale non ci si poteva aspettare altro che la conseguenza commerciale e pubblicitaria della quarantena: “I suoi libri, dopo che erano stati dileggiati esteticamente e confutati ideologicamente, vennero sistematicamente boicottati editorialmente. Nello stesso periodo in cui Feltrinelli offriva a modico prezzo ai terroristi in erba manuali per la confezione di granate casalinghe, altri grandi editori rifiutavano la pubblicazione dell’opera solgenitsiana o, se ne pubblicavano uno spezzone, lo facevano quasi vergognandosene”. Zero pubblicità e quasi una vergogna a esporlo nelle librerie. “Nessuno vuole recensire ‘Arcipelago’, nessuno si vuole occupare di Solzenitsyn”, si lamentava Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori.
Così Arcipelago Gulag finisce per languire in scaffali secondari. Durissimo il giudizio di Vittorio Strada, grande esperto di cultura russa, poi responsabile dell’Istituto di cultura italiana a Mosca: “Solzenitsyn da noi è stato prima svuotato e poi censurato. La sua verità era scomoda per tutti: per i comunisti che lo consideravano un nemico, per i non comunisti laici e cattolici – che non sapevano dove collocarlo”. Non da meno Lucio Colletti: “Da noi le anime belle dell’intelligencija hanno campato attaccate alla giacca del potere, ruminando nelle greppie di quelle maleodoranti associazioni che sono le burocrazie di partito. Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i libri di Solgenitsin, ecco l’infamia”. Giancarlo Vigorelli, per dieci anni segretario generale del Comitato degli scrittori europei, dirà che “in Italia quasi nessuna voce si è levata in suo favore. Lui scriveva che il comunismo è un delitto contro la coscienza, da noi i letterati – per esempio quelli legati a una casa editrice come Einaudi – lo liquidavano dicendo che era uno scrittore mediocre”. Irina Alberti: “Non solo fu frainteso, diffamato, ridicolizzato, vilipeso, ma fu ignorato”.
Alberto Moravia [uomo dall’aspetto così come dalla prosa di rara bruttezza] lo definisce su  L’Espresso “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”, mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera: “Potrà conservare la proprietà, o l’uso, di due appartamenti, potrà scrivere quello che gli pare e permettere che a sua insaputa (!) altri suoi libri si stampino all’estero; e potrà – suppongo – incassare il premio Nobel che nel frattempo gli è stato conferito, ma in nessun modo potrà fregiarsi del titolo di scrittore sovietico con le carte in regola”. Paese Sera: “Ancora prima dell’analisi storica, è la stessa ricostruzione dei fatti che è carente o addirittura assente del tutto. Come si può pretendere, a questo punto, che trovino spazio e uditorio, nel vuoto lasciato dalla storiografia, le documentazioni e le interpretazioni di parte fornite da Solzenitsyn”. Una delle poche recensioni positive fu quella sul Corriere della Sera di Pietro Citati, mentre Umberto Eco lo definì “Dostoevskij da strapazzo”. [ognuno misura gli altri sulla base del proprio metro, si sa]
Provate a cercare in italiano i libri di Vladimir Bukovskij, lo scrittore che i sovietici rinchiusero per dieci anni nei manicomi. Se sarete fortunati, troverete qualche rimanenza delle edizioni Spirali, inesistente casa editrice milanese. Nell’ottobre del 1990 Bukovskij venne a Roma, ospitato dai gruppi parlamentari, mentre in Europa (e in Italia) la sinistra si beava delle “riforme” di Michail Gorbaciov. Bukovskij disse: “Non credo alla riformabilità del socialismo in Urss. L’Occidente si illude. E fa come l’uomo di quella storiella che voleva volare e si buttò dal ventesimo piano di un grattacielo. Per qualche secondo conobbe la felicità perché stava volando. Peccato che subito dopo si sfracellò al suolo”⁷.
A questi giganti del dissenso e ai testimoni dell’orrore, i custodi dell’utopia non perdonarono mai di non aver voluto volare insieme a loro. Gustaw Herling ricordava sempre un aneddoto: “Alberto Moravia a Francoforte, anno 1960, lui presidente di turno del Pen Club, doveva aprire la riunione con un ordine del giorno preciso: sospendere la sezione di Budapest per protestare contro l’incarcerazione degli scrittori ungheresi. Lo incontro la sera prima e mi dice: ‘è capitata una cosa, l’altro giorno a Roma l’ambasciata sovietica mi ha comunicato che presto i miei romanzi potranno uscire in Urss. E poi a casa mi hanno mandato una grande scatola di caviale’. Il giorno dopo Moravia pronunciò un discorso molto diplomatico, molto cinico. Disse: ‘nessuna ingerenza sulle questioni interne ungheresi’”⁸. [Si chiama prostituzione. È un mestiere molto antico, e se ciò che viene venduto è un po’ di sesso è un mestiere onesto. Altrimenti no]
Questa era la “cultura italiana”. E non è cambiata. Conformista. Codarda. Censoria.
Giulio Meotti

1 Arrabal con Vargas Llosa «La sinistra come Franco», La Stampa, 26 agosto 1994
2 Herling Einaudi, La Stampa, 23 maggio 1999
3 La Repubblica, 26 febbraio 1993
4 Herling due volte solo fra i rossi, La Stampa, 24 marzo 1992
5 Foa, confesso che ho taciuto, La Stampa, 2 novembre 2003
6 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990
7 Bukovskij: perché non ho applaudito, La Stampa, 16 ottobre 1990
8 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990

“E non è cambiata”. Già: lo stiamo vedendo.

barbara

4 NOVEMBRE 1956, LA CADUTA DI BUDAPEST

Riprendo dall’amico

Fulvio Del Deo

Nem felejtek, non dimentico.
“Parla Imre Nagy, presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica popolare di Ungheria. Nelle prime ore del mattino, truppe sovietiche hanno attaccato la nostra capitale con la palese intenzione di rovesciare il democratico e legittimo governo ungherese. I nostri soldati stanno combattendo. Il Governo è al suo posto. Informo di questi fatti il nostro popolo e l’opinione pubblica mondiale”.
L’Unità, quotidiano del Pci, definì “teppisti, spregevoli provocatori e fascisti”.
Togliatti: “si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia” e in seguito aveva dato voto favorevole alla condanna a morte di Nagy.
Giorgio Napolitano: “l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo”.

Soprattutto non dimenticare, non dimenticare mai le infinite stragi comuniste, gli infiniti stermini comunisti, la miseria, la desolazione, la fame – fino al cannibalismo – in più di un’occasione deliberatamente provocata, i popoli oppressi, il terrore, il controllo totale, che da sempre caratterizzano tutti i regimi comunisti. Non dimenticare che il nazismo è durato 12 anni, il comunismo, dopo oltre un secolo, è ancora vivo e virulento in varie parti del mondo.

barbara

TRE TESTIMONI

dell’inferno comunista, del pensiero unico obbligato, della guerra alle opinioni e della morte sociale – e a volte non solo quella – per le opinioni “sbagliate”. Fuggiti dall’inferno per ritrovarlo ricostruito nella nuova patria. Nessuno che si metta a fare piazza pulita di tutte queste malefiche erbe infestanti?

Dalla Cina.

Follia politically correct: “La razza bianca? Può infettare”

Il primo summit “in presenza” del presidente Joe Biden con i leader europei si è consumato in Cornovaglia, all’insegna del “pandemicamente corretto”. Provate a scorrere in velocità le immagini degli enfatici saluti col gomito (pratica bandita dall’Oms un anno fa, ma nessuno ne ha preso nota) tra i “potenti” del G7: assisterete a una pantomina da commedia dell’Arte. Un balletto stile comiche di Charlot. Boris Johnson e la moglie si danno di gomito, ripetutamente, col presidente Biden & la first lady Jill. Imitati, con triangolazioni ardite, dagli altri leader e capi di Stato. Troppo impauriti per darsi una stretta di mano, seppur tutti vaccinati e ripresi all’aperto per le foto di rito? Nemmeno per sogno. Solo un copione da seguire a favore delle telecamere. Un rituale grottesco, spazzato via dal gesto informale del presidente Emmanuel Macron. Che con la tipica nonchalance francese, ha rotto l’etichetta e trascinato sottobraccio il presidente americano. Mettendo in burletta, involontariamente, l’intero protocollo sul distanziamento sociale sfoggiato dagli altri.

Avanza il politicamente corretto

Guai a urtare il “politcamente corretto”, ancora più sacro ai tempi del Covid. I gesti, come le parole, hanno un loro peso specifico. E la parola più attuale, nel gergo politico anglosassone, è senza dubbio “wokeness”. In Italia, forse non tutti sanno a cosa questo termine faccia riferimento. Per fortuna, non è ancora entrato a regime nel vocabolario dei nostri governanti. Su Wikipedia, con wokeness si intende la “consapevolezza di temi riguardanti la giustizia sociale e razziale”. Così, la linea di Downing Street è stata prontamente ricalibrata sul messaggio che il vecchio e danaroso Zio Sam, ammantato dei triliardi appena stanziati in patria, gradisce ascoltare. “Joe Biden è il nuovo modello di woke”, lo aveva già elogiato il premier britannico tempo fa. Mentre nel suo discorso di apertura al G7, Jonhson ha fatto un passo ulteriore. Si è voltato verso il presidente Usa, seduto al suo fianco, tanto da sembrare quasi infantile nella sua ricerca di approvazione: “Il mondo post Covid avrà bisogno di essere più equo, più gender neutral e più femminile” ha pomposamente dichiarato, quasi avesse fornito la ricetta per estirpare la fame nel mondo.
Che senso hanno le parole del primo ministro britannico? Cosa significa costruire un mondo post pandemico “gender neutral” e quali saranno i benefici pratici per i cittadini? Johnson non lo ha spiegato. Ma il suo discorso, vuoto e enfatico, è il segno plastico del trionfo, nell’Agenda europea del G7, della “woke-obsession”, esportata oltreoceano con successo dalla Casa Bianca. La stessa ossessione che si è manifestata, di recente, con l’esposizione della bandiera del movimento Black Lives Matter e del vessillo Arcobaleno, in occasione del Pride, fuori dalle ambasciate americane, inclusa quella presso la Santa Sede.

I bianchi sono “parassiti”

La woke culture è ossessionata dal linguaggio. E uno dei termini più stigmatizzati in assoluto è “white”, contro il quale ha eretto una vera crociata. Appena insediato, Biden ha creato una Commissione dedicata all’estremismo dei bianchi, definito “white supremacy”, nell’esercito Usa. La testata Human Events ha scoperto e pubblicato, l’11 giugno, un archivio di tweet scioccanti provenienti da un account gestito, sotto lo pseudonimo “Dru”, dal comandante di un battaglione di fanteria, il capitano Andrew Rhodes. Questi alcuni dei tweet, poi maldestramente rimossi: “Se sei un maschio bianco, sei parte del problema”. Altri messaggi negavano completamente i valori dell’esercito Usa, ritenuti non sufficienti a incrementare “la diversità”.
Secondo lo psicanalista Donaldo Moss, docente al New York Psychoanalytic Institute, sarebbe invece evidente l’equivalenza tra i maschi bianchi e i parassiti. La razza bianca (“whitness”), a cui lui stesso appartiene, sarebbe una “condizione contagiosa”. Come il Covid, la “bianchezza” si può trasmettere ad altre persone e infettarle. E provoca nei suoi esponenti “desiderio di potere senza limiti”, “forza senza contenimento” e “violenza senza pietà” rivolti contro tutte le persone non bianche. “Whitness has no cure”, è una delle sue frasi pubblicate un mese fa sul prestigioso Journal of the American Psychoanalytic Association, come ha riportato il New York Post.

Il nuovo dizionario antirazzista

Dal gergo quotidiano rischiano di venire espulse anche parole innocenti come “apple pie” (torta di mele), “manmade” (manufatto), “manpower” (manodopera), e persino “mum”. Quest’ultimo termine è stato rimpiazzato dalla locuzione gender neutral “birthing people”. Una sostituzione giustificata con questa motivazione, da una consulente al Bilancio di Biden: “Ci sono persone che non vogliono riconoscersi in maschio/femmina. Così il nostro linguaggio sarà più inclusivo”. Documenti interni alla Federal Reserve hanno svelato l’esistenza di un manuale, diffuso tra i dipendenti, che vieta l’uso di altri termini ritenuti offensivi. Nell’elenco figurano “fouding fathers” (ridotto a “founders”, fondatori, eliminando il termine “padri”) e i pronomi maschili e femminili. Il tentativo, neanche velato, è di estirpare ogni riferimento collegato alla fertilità e alla riproduzione biologica. Una vera psicosi, portata alle conseguenze più radicali dalla deputata di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez, che ha dichiarato di non volere figli a causa del cambiamento climatico.
Se il conservatore Johnson, per mero calcolo politico, si è inginocchiato davanti all’altare della filosofia “woke”, a strappare il velo sull’ipocrisia del nuovo mantra progressista è stata proprio una sconosciuta mamma cinese. Che ha rivolto un discorso toccante davanti al consiglio d’istituto della scuola di suo figlio, in Virginia. Nelle aule americane, dalle classi materne fino al college, hanno preso piede controversi programmi di indottrinamento (critical race theory). Accusati di creare divisioni tra gli alunni e un disagio crescente nelle famiglie. “Quello che sta accadendo nelle scuole americane è una replica della Rivoluzione culturale cinese”, ha spiegato Xi-Van Fleet, che aveva 6 anni quando la rivoluzione maoista scoppiò in Cina. Per vent’anni ha vissuto sotto la cappa di uno dei regimi più oppressivi: “Il partito comunista usava le stesse tecniche della “cancel culture”. Tutta la civiltà cinese precomunista è stata azzerata: abbiamo cambiato i nomi delle persone, delle strade, delle scuole e persino i nomi propri delle persone. Io stessa sono stata ribattezzata Xi-Van, perché Xi significa “west”, occidente, e poteva sembrare un richiamo all’imperialismo”.
Le somiglianze citate dalla combattiva Xi, scappata dalla provincia del Sichuan negli Stati Uniti, sono terrificanti: “Wokeness, in Cina, è declinato in “class wokeness”. È il tuo livello di aderenza a questa ideologia che determina la tua aspettativa di carriera e di ottenere benefici. A scuola e in società noi venivamo divisi in due gruppi: oppressi e oppressori. In America usano la razza, in Cina la classe sociale. Qui chi ha vedute diverse è etichettato come razzista, in Cina chi dissentiva era definito controrivoluzionario”.
Il suo appello, rivolto a genitori, allievi e insegnanti, ha fatto il giro del web: “Voglio solo dire agli americani che la libertà è fragile e che si può perdere in ogni momento se non siamo pronti a difenderla. Vorrei dire al popolo americano che chi spinge per la predicazione di teorie razziste ha un unico obiettivo: far rinascere il razzismo. Il razzismo è usato dai governi per dividere, è distruttivo e pericoloso”. Parole da leader, in un Occidente in cui i leader hanno ormai smarrito il senso stesso delle parole.
Beatrice Nencha, 14 giugno 2021, qui.

Dall’Unione Sovietica.

“Il paese dove sono nata non esiste più, ma la sua ideologia rivive in Occidente”

Straordinario saggio di una famosa scienziata americana. “In Unione Sovietica leggere Orwell e Solzhenitsyn era pericoloso e si cancellavano parole, statue e libri, come nel politicamente corretto”

“Sono cresciuta in una città che nella sua breve storia (poco più di 150 anni) ha cambiato nome tre volte. Fondata nel 1869 intorno alle miniere di carbone costruite dall’industriale gallese John Hughes, l’insediamento era chiamato Yuzovka. Quando i bolscevichi salirono al potere nella rivoluzione del 1917, il nuovo governo della classe operaia, i soviet, si mise a epurare il paese dalle influenze ideologicamente impure in nome del proletariato e della lotta mondiale delle masse soppresse. Città e punti di riferimento geografici furono rinominati, statue furono abbattute, libri furono bruciati e molti milioni di persone furono imprigionate e assassinate. A tempo debito, i commissari arrivarono a Yuzovka e la città fu privata del nome del suo fondatore, un rappresentante degli oppressori e un occidentale. In termini moderni, Hughes fu cancellato. Per alcuni mesi, la città fu chiamata Trotsk (da Leon Trotsky), finché Trotsky perse nella lotta per il potere e fu lui stesso cancellato. La città fu rinominata Stalino”.
Inizia così uno straordinario saggio di Anna Krylov sul Journal of Physical Chemistry Letters, scienziata nata in Unione Sovietica e che oggi insegna all’Università della California (è una delle principali ricercatrici di quantistica molecolare). E’ il testo più intellettualmente onesto e audace che abbia letto da parte di chi ha vissuto sotto il comunismo e vede gli stessi meccanismi ideologici oggi all’opera in Occidente.
“Dopo la morte di Stalin nel 1953, Stalino divenne Donetsk, dal fiume Severskii Donets” continua la professoressa Krylov. “La storia sovietica fu costantemente rivista per stare al passo con la linea del partito. I libri di testo riscritti per cancellare le cancellazioni. Sono diventata maggiorenne durante un periodo relativamente mite del governo sovietico, dopo Stalin. Eppure, l’ideologia permeava tutti gli aspetti della vita e la sopravvivenza richiedeva una stretta aderenza alla linea del partito ed entusiastiche dimostrazioni di comportamento ideologicamente corretto. Non aderire a una organizzazione comunista (Komsomol) sarebbe stato un suicidio di carriera. Praticare apertamente la religione poteva portare a conseguenze più gravi, fino al carcere. Così come leggere il libro sbagliato (Orwell, Solzhenitsyn, ecc.). Anche un libro di poesia che non era nella lista approvata dallo stato poteva metterti nei guai”.
Krylov stabilisce così un paragone fra la cappa ideologica che ha vissuto in Unione Sovietica e l’attuale politicizzazione della vita scientifica e culturale in Occidente.  
“Il semplice conformismo non era sufficiente: i comitati ideologici erano costantemente alla ricerca di individui il cui sostegno al regime non era sufficientemente entusiasta. Non era raro essere puniti per essere stati troppo silenziosi durante le assemblee politiche (politinformation o komsomolskoe sobranie) o per essersi presentati in ritardo alle celebrazioni di massa (come le manifestazioni di maggio o novembre). Una volta ho ricevuto un avviso per aver promosso un’agenda imperialista presentandomi in jeans a un evento scolastico. La scienza non fu risparmiata da questo rigido controllo ideologico. Le influenze occidentali erano considerate pericolose. I libri di testo e i documenti scientifici sottolineavano instancabilmente la priorità della scienza russa e sovietica. Intere discipline furono dichiarate ideologicamente impure, reazionarie e ostili alla causa del dominio della classe operaia e della rivoluzione mondiale. Notevoli esempi di ‘pseudoscienza borghese’ includevano la genetica e la cibernetica. Anche la meccanica quantistica e la relatività generale furono criticate per l’insufficiente allineamento al materialismo dialettico”. 
Avanti veloce fino al 2021, un altro secolo. “La Guerra fredda è un ricordo lontano e il paese indicato sul mio certificato di nascita e sui miei diplomi scolastici e universitari, l’URSS, non è più sulla mappa. Ma mi ritrovo a vivere la sua eredità a migliaia di chilometri a Occidente, come se vivessi in una zona d’ombra orwelliana. Sono testimone di tentativi sempre maggiori di sottoporre la scienza e l’educazione al controllo ideologico e alla censura. Proprio come ai tempi dell’Unione Sovietica, la censura è giustificata dal bene superiore. Mentre nel 1950, il bene superiore era la Rivoluzione Mondiale, nel 2021 il bene superiore è la ‘Giustizia Sociale’. Come in URSS, la censura è imposta con entusiasmo anche dal basso, dai membri della comunità scientifica, le cui motivazioni variano dall’idealismo ingenuo alla cinica presa di potere. Oggi ci viene detto che il razzismo, il patriarcato, la misoginia e altre idee riprovevoli sono codificate in termini scientifici, nei nomi delle equazioni e nelle semplici parole. Ci viene detto che per costruire un mondo migliore e per affrontare le disuguaglianze sociali, abbiamo bisogno di epurare la nostra letteratura dai nomi delle persone il cui curriculum non è all’altezza degli alti standard degli autoproclamati portatori della nuova verità, gli ‘Eletti’. Ci viene detto che dobbiamo riscrivere i nostri programmi e cambiare il modo in cui insegniamo e parliamo”. 
Krylov vede all’opera una “caccia ai fantasmi in stile sovietico” e che riguadagna terreno. “Nuove parole vengono cancellate ogni giorno e ho appena saputo che la parola ‘normale’ non sarà più usata sulle confezioni di sapone Dove perché ‘fa sentire la maggior parte delle persone esclusa’. E’ in gioco il nostro futuro. Come comunità, siamo di fronte a una scelta importante. Possiamo soccombere all’ideologia dell’estrema sinistra e passare il resto delle nostre vite a caccia di fantasmi e streghe, riscrivendo la storia, politicizzando la scienza, ridefinendo il linguaggio e trasformando l’istruzione in una farsa. Oppure possiamo sostenere un principio chiave della società democratica – il libero e incensurato scambio delle idee – e continuare la nostra missione principale, la ricerca della verità, concentrando l’attenzione sulla risoluzione di problemi reali e importanti dell’umanità”. 
Giulio Meotti

Dalla Corea del Nord.

“In America sono più matti che in Corea del Nord”

La disertrice del “paradiso” di Kim Jong-un: “Il politicamente corretto li ha così indottrinati che pensano di vivere in una dittatura. Insegnano a odiare l’Occidente come a noi bambini nordcoreani”

“Ti stanno costringendo a pensare nel modo in cui vogliono che tu pensi. Ho capito, wow, questo è folle. Pensavo che l’America fosse diversa, ma ho visto così tante somiglianze con quello che ho visto in Corea del Nord che ho iniziato a preoccuparmi”. La più famosa disertrice nordcoreana ha affermato di aver sempre visto gli Stati Uniti come un paese di libertà di pensiero e di parola, finché non è andata al college. Yeonmi Park ha frequentato la Columbia University ed è stata immediatamente scioccata da ciò che ha visto in classe, il sentimento anti-occidentale e il politicamente corretto, che le ha fatto pensare “che neanche la Corea del Nord è così matta”. Non poteva credere che le sarebbe stato chiesto di “censurarmi così tanto” in un’università negli Stati Uniti. “Ho letteralmente attraversato il deserto del Gobi per essere libera e ho capito che non sono libera, l’America non è libera”. 
Yeonmi Park è nata a Hyesan, in Corea del Nord. Quando era una bambina, il padre fu mandato in un campo di lavoro per aver venduto beni al mercato nero, zucchero e riso, e sfamare la famiglia. “Il regime non lo ha solo torturato, ma ha ucciso la sua anima”, ha raccontato Park alla giornalista Bari Weiss. A nove anni, Yeonmi fu portata ad assistere a una esecuzione di massa allo stadio. “Li hanno messi in fila e li hanno fucilati. Mi ricordo benissimo i loro cervelli fuoriuscire dalla testa”. Nel 2007, Yeonmi è fuggita dalla Corea del Nord con la madre. Prima in Cina, dove è stata venduta a un uomo per 260 dollari. “Quando ho lasciato la Corea del Nord, non conoscevo nemmeno parole come ‘libertà’“. Poi in Corea del Sud, “dove per me la libertà erano i film e i jeans. In Corea del Nord puoi essere giustiziato per aver visto il film sbagliato. Se indossi jeans puoi essere mandato in prigione. Quindi questo è quello che pensavo fosse la libertà. Ero disposta a rischiare la mia vita per i jeans e i film”. E’ fuggita di nuovo attraverso il deserto del Gobi, aiutata da una bussola che le era stata data dai missionari cristiani. 
“In Corea del Nord non puoi dire ‘io’. Puoi solo dire ‘noi’. Adoriamo il colore rosso. Conosci ogni risposta. In Corea del Nord, tutto è determinato per te prima della tua nascita, in base alla posizione della tua famiglia nel partito. Non pensi: cosa studierò? Dove vivrò? Chi sposerò? Loro decidono”. Per Yeonmi, adattarsi alla libertà è stato un processo molto graduale. La fattoria degli animali e 1984 di George Orwell l’hanno aiutata a capire. In Italia di Yeonmi è stato pubblicato il libro La mia lotta per la libertà. “Il comunismo ti cambia internamente in modi che non posso descrivere. La Corea del Nord è una dittatura fisica, ma è anche una dittatura delle emozioni, da cui è molto più difficile sfuggire”. 
E’ fonte di profonda tristezza per lei vedere l’indottrinamento in America. “Andando alla Columbia, la prima cosa che ho imparato è stata ‘spazio sicuro’. Ogni problema, ci hanno spiegato, è a causa degli uomini bianchi”. Discussioni che le hanno ricordato il sistema delle caste in Corea del Nord, dove le persone sono classificate in base ai propri antenati.
“Poiché ho visto l’oppressione, so che aspetto ha”, ha detto Yeonmi, che all’età di 13 anni aveva visto persone morire di fame proprio davanti ai suoi occhi. “Questi ragazzi continuano a dire quanto sono oppressi, quanta ingiustizia hanno vissuto. Non sanno quanto sia difficile essere liberi. In Corea del Nord credevo letteralmente che il mio caro leader (Kim Jong-un) stesse morendo di fame. E poi qualcuno mi ha mostrato una foto e ha detto ‘Guardalo, è il ragazzo più grasso. Gli altri sono tutti magri.’ E io ero tipo, ‘Oh mio Dio, perché non ho notato che era grasso?’ Perché non ho mai imparato a pensare in modo critico. Questo è ciò che sta accadendo in America. Le persone vedono ma hanno completamente perso la capacità di pensare in modo critico”.
Alla Columbia è stata persino rimproverata per aver detto che le piacevano gli scritti di Jane Austen. “Ho detto ‘amo quei libri’. Ho pensato che fosse una buona cosa”. Studenti e professori le hanno risposto: “Sapevi che quegli scrittori avevano una mentalità coloniale? Erano razzisti e bigotti”. Anche in Inghilterra la figura di Jane Austen sarà sottoposta a un “esame storico” per i suoi legami con la schiavitù, ha detto il museo dedicato alla grande scrittrice.
“Pensavo che i nordcoreani fossero le uniche persone che odiavano gli americani, ma ci sono molte persone che odiano questo paese in questo paese, si censurano a vicenda, si zittiscono a vicenda” ha detto Yeonmi. Anche nel “paradiso socialista” gli studenti erano abituati a tacere. “Mia madre mi aveva insegnato a non sussurrare neanche, gli uccelli e i topi potevano sentirmi. Mi disse che la cosa più pericolosa che avevo era la lingua. Quindi sapevo quanto fosse pericoloso dire cose sbagliate”. Incredibile che oggi un numero sempre più grande di americani si stia autocensurando per paura di dire o pensare la cosa sbagliata. “Questo è completamente folle, è incredibile” ha concluso Yeonmi. “Non so perché le persone stiano impazzendo collettivamente”. 
Come ha appena spiegato il classicista Victor Davis Hanson, l’America sta sprofondando nelle sabbie mobili che hanno sempre distrutto le civiltà.

E questa volontà di annientamento e auto annientamento, lasciatemelo dire, fa veramente paura.

barbara

SCAMBIO DI BATTUTE

Lui: Giornale comunista! Vuole il giornale comunista?
Io: Due miliardi di schiavi e cento milioni di morti: ancora non vi bastano? Quanto altro sangue vi serve ancora per essere soddisfatti?
Lui: Parliamone.

Ho proseguito per la mia strada, perché se avessi aperto la bocca ancora una volta gli avrei sputato addosso, e non volevo sporcare la mia saliva. Per dare un piccolo esempio del mondo che i nostri progressisti sognano, riprendo questo post di Giovanni Ciri di due anni fa.

I PASSERI DI MAO

Nel Maggio del 1958 Mao Tze Tung lancia il “gran balzo in avanti”. La Cina deve diventare in tempi brevissimi una grande potenza industriale e, soprattutto, militare. Nel giro di pochi anni paesi come la Gran Bretagna e gli USA devono essere “superati”. E’ un programma molto ambizioso, come raggiungere simili risultati? La risposta di Mao è di disarmante semplicità: i cinesi devono lavorare, lavorare ed ancora lavorare. Ma non basta: occorre importare dai paesi “fratelli”, URSS in primis, impianti industriali e tecnologia, soprattutto militare. E per pagare queste importazioni la Cina ha un solo mezzo: esportare derrate alimentari, prodotti agricoli.
I contadini devono quindi essere privati della quasi totalità raccolto. Mao non prevede nessun investimento per incrementare la produttività agricola: si limita a costringere i contadini a lavorare come muli e a privarli di tutto ciò che producono. Il suo è sostanzialmente un gigantesco programma di lavoro forzato o semplicemente schiavistico. Stalin lo aveva già fatto, Mao lo rifà su scala ancora più ampia. E mostruosa.
Non è il caso di esporre qui le vicende terrificanti di quella esperienza. Rimando chi fosse interessato al libro: “Mao la storia sconosciuta” (Longanesi) della scrittrice cinese Jung Chang (autrice del bellissimo romanzo “i cigni selvatici”) e del marito di lei Jon Halliday. Un ottimo libro, una eccezione importante nel desolante panorama editoriale dell’occidente politicamente corretto.
Vorrei invece concentrare l’attenzione su un singolo, piccolo episodio. Un episodio secondario in fondo, che ha avuto conseguenze enormemente meno tragiche di tanti altri, ma nel suo piccolo molto, molto significativo.
“Per salvaguardare i cereali” scrive la Chang “a Mao venne l’idea di sbarazzarsi dei passeri, divoratori dei chicchi. Li indicò come uno dei quattro flagelli da eliminare insieme con topi, zanzare e mosche e mobilitò l’intera popolazione perché agitasse bastoni e scope e facesse un gran baccano per spaventarli ed impedir loro di posarsi sulle culture, dopodiché, caduti a terra per la stanchezza, sarebbero stati catturati ed uccisi” (1).
Non sono affetto da misticismo ecologico ed animalista e so che, a differenza di quanto pensano i mistici, l’agricoltura sopprime un numero consistente di animali: qualcuno preferisce ignorarlo ma le diete vegetariane e vegane si basano sulla soppressione di animali almeno quanto quelle onnivore. Questo premesso, non si può non restare colpiti dall’incredibile disprezzo per la natura di una simile direttiva: in tutta la storia a nessuno, credo, è mai venuto in mente di distruggere una intera specie di uccelli per salvaguardare i raccolti.
Ma è sugli esseri umani, non sui passeri, che intendo concentrare l’attenzione. Proviamo a pensarci: per giorni e giorni centinaia di milioni di cinesi fecero, tutti, la stessa cosa: un gran baccano per impedire ai passeri di posarsi al suolo. Nessuno di noi, credo, conosce due sole persone che facciano per un giorno intero la stessa cosa. La vita quotidiana di ogni persona è diversa da quella di qualsiasi altra. Anche i soldati in una caserma o i detenuti in una prigione non fanno tutti le stesse cose per tutto il giorno. Anche in stati decisamente autoritari la vita degli esseri umani è in qualche modo personalizzata. Nella Cina di Mao no. Centinaia di milioni di cinesi, tutti insieme, per giorni e giorni fecero tutti un gran baccano per far morire di stanchezza i passeri: il più numeroso popolo del mondo si era trasformato in una immensa squadra di esagitati intenti a fare un chiasso d’inferno. Difficile, penso, immaginare qualcosa di più mostruoso.
Ma questa mostruosità ebbe almeno risultati positivi? Fu davvero utile all’agricoltura? NO, ovviamente.
Una cosa è impedire con vari mezzi ai passeri di posarsi sui raccolti, determinandone in questo modo indirettamente la morte di un certo numero, cosa del tutto diversa la distruzione della specie dei passeri, e con questa di una quantità enorme di altri uccelli. Gli uccelli non si cibano solo di chicchi di cereali ma anche di parassiti, insetti e piccoli animali dannosi alle culture. L’eliminazione dei passeri, e non solo, portò alla moltiplicazione esponenziale di insetti ed animali dannosi, con esiti catastrofici per l’agricoltura.
Ricordano la Chang ed Halliday: “All’ambasciata sovietica di Pechino arrivò una richiesta da parte del governo cinese (…). In nome dell’internazionalismo socialista, si leggeva: per favore, inviateci appena possibile 200.000 passeri dall’estremo oriente russo” (2)
Centinaia di milioni di cinesi erano stati mobilitati per far gran baccano, una quantità enorme di passeri ed altri uccelli era stata distrutta, poi, in gran segreto, i passeri vennero reintrodotti in Cina in nome dell’internazionalismo proletario e della fraterna amicizia fra Cina e URSS, amicizia che, sia detto per inciso, era destinata a durare ancora per poco.
Quello dei passeri è solo un episodio, un piccolo ma emblematico episodio. Dimostra molto semplicemente che sotto Mao i cinesi erano degli schiavi di fatto. E nient’altro.
Schiavi spesso destinati a morte certa.
Il gran balzo in avanti distrusse praticamente l’agricoltura cinese e non dotò affatto la Cina di una struttura industriale neppure lontanamente paragonabile a quella dei paesi capitalisti che Mao intendeva “superare”. Solo nel dopo Mao, grazie alla apertura, non certo priva di ombre, alla economia di mercato la Cina è diventata davvero una grande potenza industriale.
In compenso la politica delle requisizioni selvagge causò quella che può essere definita la più grande carestia di ogni tempo.
“La carestia a livello nazionale iniziò nel 1958 e terminò nel 1961, raggiungendo l’apice nel 1960. (…). Durante la carestia alcuni furono costretti al cannibalismo. Uno studio condotto dopo la morte di Mao (e subito soppresso) sulla contea di Fengyang, nella provincia di Ahnui, registrò sessantatre casi di cannibalismo soltanto nella primavera del 1960, compreso quello di una coppia che strangolò e mangiò il proprio figlioletto di otto anni. (…). Nei quattro anni del gran balzo in avanti e della carestia morirono di fame e di lavoro circa 38 milioni di persone”. (3)
38 MILIONI. E non si tratta di una cifra tarocca, quelle le diffondeva il regime di Mao. E’ ricavata dalle statistiche relative al numero dei decessi negli anni del gran balzo in avanti paragonati a quelli degli anni immediatamente precedenti e successivi. In quei maledetti quattro anni il numero delle morti crebbe paurosamente, secondo le statistiche ufficiali. Ed il gran balzo è solo un episodio di quella grande, immane follia sanguinaria che è stata il comunismo maoista.
Ma agli occidentali progressisti il maoismo piaceva, ad alcuni piace ancora.
Ricordo che, tanti anni fa, ero ancora un ragazzo, mi capitò di vedere un documentario sulla Cina. Mi pare fosse di Sergio Zavoli, ma posso sbagliare. Si parlava fra le altre cose dello sterminio dei passeri. Con voce dolce il giornalista raccontava delle centinaia di milioni di cinesi che, tutti insieme, fecero per giorni un gran chiasso ed uccisero passeri ed altri uccelli in quantità industriale. “Certo”, diceva più o meno il giornalista, “a noi una cosa simile appare lesiva della libertà personale, però… alla fine i passeri furono distrutti”. Dimenticava di aggiungere: “con gran danno per l’agricoltura”.
A NOI lo spettacolo di centinaia di milioni di esseri umani trasformati in cagnolini addestrati che obbediscono tutti insieme ad ogni ordine del capo appare leggermente mostruoso, ma una cosa simile va benissimo per i cinesi. Il fine giustifica i mezzi perbacco, specie se i mezzi riguardano esseri umani giallastri e con gli occhi a mandorla. Come al solito, gratta un po’ il democratico progressista, dolce e relativista, e vien fuori il razzista.
Ed oggi gli stessi che ieri esaltavano Mao sono esaltati dai media come i campioni di una Italia e di un occidente aperto, democratico. La signora Luciana Castellina, ex dirigente del gruppo del “Manifesto”, grande ammiratrice di Mao e della rivoluzione culturale, tuona in TV contro chi difende la legittima difesa. E in occasione della sua recente scomparsa, Dario Fo, a suo tempo entusiasta ammiratore di Mao Tze Tung e di Giuseppe Stalin, è stato presentato come un campione della libertà e della democrazia.
Dei contadini cinesi costretti al cannibalismo, e dei passeri, non parla nessuno.
E poi ci chiediamo perché l’occidente è in crisi.

NOTE

1) Jung Chang Jon Halliday: Mao la storia sconosciuta. Longanesi 2006 pag 506.
2) Ibidem pag. 507.
3) Ididem pag. 515 (qui)

Del paradiso comunista si è già parlato in questo blog qui, qui e qui.

barbara

CHI NON SCHIACCIA IL BOTTONE SALVA IL MONDO INTERO

A volte nella storia è più importante quello che è quasi successo che non ciò che è realmente accaduto. E forse ciò che più colpisce di queste incredibili storie di eroi così lontani dallo scintillio sono le sincronicità che li circondano. Voglio raccontare di come trentadue anni fa un uomo di cui la maggior parte del mondo non aveva mai sentito parlare sarebbe diventato il più grande eroe di tutti i tempi, avendo “letteralmente” salvato il mondo dall’apocalisse atomica.
Correva l’anno 1983, in piena guerra fredda, tempi “bollenti” come mai era accaduto dalla crisi dei missili di Cuba. Il 23 marzo, il Presidente Reagan lanciò la sua “Star Wars – Guerra delle galassie”, letteralmente definendo la Russia “L’impero del male”. Contava tra l’altro su un importantissimo alleato altrettanto deciso a porre fine al comunismo, Giovanni Paolo II. I pianeti sembravano allineati per farla finita con l’Unione Sovietica, e i sovietici presero la cosa molto sul serio. USA e NATO progettavano di collocare missili nella Germania dell’Ovest, e intanto organizzavano un’esercitazione militare in Europa. Ma i leader dell’Unione Sovietica erano della generazione della seconda guerra e ricordavano perfettamente come, con il pretesto di una esercitazione, Hitler avesse ingannato Stalin e lanciato l’Operazione Barbarossa.
Permettere una replica era inammissibile.
Ritenendo che l’esercitazione fosse una copertura per una vera invasione, presero una decisione: scaricare tutto il proprio arsenale al primo segno di attacco nucleare.
La tensione era al massimo. Al punto che il primo settembre 1983, un aereo di linea sud coreano penetrò per errore nello spazio aereo sovietico e i russi non esitarono ad abbatterlo senza preavviso, uccidendo 269 persone, tra le quali un senatore e diversi cittadini americani.
Questa storia non sarebbe potuta arrivare in momento peggiore.
Stanislav Petrov (Ucraina, 1939)
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tenente colonnello dell’Armata Rossa durante la Guerra Fredda. Passato alla storia per aver identificato nel 1983 un falso allarme missilistico e, contravvenendo al codice che gli avrebbe ingiunto di informarne i superiori e rispondere al presunto attacco, aver sventato così lo scoppio di un conflitto nucleare che avrebbe probabilmente assunto dimensioni mondiali.
La notte del 25 settembre del 1983, un colonnello di 44 anni della sezione spionaggio militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica giunge al proprio posto di comando al Centro di allerta precoce, all’interno del bunker Serpukhov-15, sul confine occidentale dell’Urss, da dove coordinava la difesa aerospaziale russa. Tuttavia, quella sarebbe dovuta essere la sua notte libera. Era stato richiamato all’ultimo minuto perché il collega che doveva essere in servizio si era ammalato…
Suo compito era analizzare e verificare tutti i dati provenienti da un satellite in vista di un possibile attacco nucleare americano. Per far ciò, aveva a disposizione un protocollo semplice e chiaro. Tanto più chiaro e semplice in quanto redatto da lui stesso. Dopo appropriati controlli, doveva allertare il proprio superiore, che avrebbe immediatamente dato inizio ad un massiccio contrattacco nucleare su Stati Uniti e i suoi alleati.
Poco dopo la mezzanotte, esattamente alle 12.14 del 26 settembre del ’83, scattano tutti i sistemi di allarme; suonano le sirene, e sugli schermi dei computer compare: “attacco di missile nucleare imminente“. Un missile era stato lanciato da una delle basi degli Stati Uniti. L’ufficiale ordina di mantenere la calma, che ognuno faccia il proprio lavoro. Così come lui esegue il proprio. Verifica tutti i dati e richiede conferma dalla veduta aerea, l’unica che il satellite non ha potuto confermare a causa delle condizioni atmosferiche. Nonostante le conferme, conclude che deve essersi verificato un errore. Non era logico che gli USA lanciassero un solo missile se davvero stavano attaccando l’Unione Sovietica.
Così ignora l’avviso, considerandolo un falso allarme.
Poco dopo, però, il sistema mostra un secondo missile. E poi un terzo.
In preda ad una forte scarica di adrenalina, dal secondo piano del bunker può vedere, nella sala operativa, la grande mappa elettronica degli Stati Uniti con la spia lampeggiante indicante la base militare sulla costa est, da cui erano stati lanciati i missili nucleari.
In quel momento, il sistema indica un altro attacco. Un quarto missile nucleare e immediatamente un quinto. In meno di 5 minuti, 5 missili nucleari erano stati lanciati da basi americane contro l’URSS. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale dagli Stati Uniti era di 20 minuti. L’attività è frenetica. Intanto lui analizza i dati…
Dopo aver rilevato l’obiettivo, il sistema di allarme doveva passare attraverso 29 livelli di sicurezza per conferma; comincia ad avere forti dubbi man mano che vengono superati i vari livelli di sicurezza.
Sa che il sistema potrebbe avere qualche malfunzionamento. Ma poteva l’intero sistema essere in errore, 5 volte? O stava affrontando Armageddon?
Il principio di base della strategia della guerra fredda sarebbe stato un massiccio lancio di armi nucleari, una forza travolgente e contemporanea di centinaia di missili, non 5 missili uno a uno. Doveva esserci un errore.
E se invece non fosse così? Se fosse una astuta strategia americana? L’olocausto tanto temuto stava per succedere e lui non faceva niente?
Aveva cinque missili nucleari balistici intercontinentali in viaggio verso l’URSS e solo 10 minuti per prendere la decisione se informare i leader sovietici… Essendo perfettamente consapevole che se segnalava ciò che tutti i sistemi stavano confermando, avrebbe scatenato la terza guerra mondiale.
I 120 tra ufficiali e ingegneri militari, gli occhi fissi su di lui, aspettano la sua decisione.
Mai prima nella storia, né dopo, sarebbe stato il destino del mondo nelle mani di un solo uomo come lo è in quei 10 minuti. Il futuro del mondo dipendeva dalla sua decisione, mentre lottava con sé stesso se premere o meno il “bottone rosso”.
Riflette: gli americani non sono ancora in possesso di un sistema di difesa missilistico e sanno che un attacco nucleare all’URSS equivale all’annientamento immediato del proprio popolo. E benché diffidi di loro, sa che non sono suicidi. Si dice: “Un tale imbecille non è ancora nato nemmeno negli Stati Uniti”.
Sapendo che se si sbagliava, un’esplosione 250 volte maggiore rispetto a quella di Hiroshima si sarebbe scatenata su di loro entro pochi minuti senza che essi potessero far più nulla, riesce a mantenere il sangue freddo, e ad avere il coraggio di ascoltare il proprio istinto e di conformarsi alla conclusione logica suggerita dal buonsenso.
E decide di segnalare un malfunzionamento del sistema.
Paralizzati e sudando a fiumi, i 120 uomini al suo comando contano i minuti che mancano perché i missili raggiungano Mosca.
Quando di colpo, a pochi secondi dalla fine, le sirene smettono di suonare e le spie di allarme si spengono.
Aveva preso la decisione giusta. E salvato il mondo da un cataclisma nucleare. I suoi compagni, madidi di sudore, gli si gettano addosso, abbracciandolo e proclamandolo un eroe. Lui si accascia sulla sua sedia e beve oltre mezzo litro di vodka senza respirare. Alla fine di quella notte, avrebbe dormito 28 ore di fila.
Quando tornò al lavoro, i suoi compagni gli regalarono una TV portatile di fabbricazione russa per ringraziarlo. Erano tutti vivi grazie alla decisione che aveva preso.
Nel venire a sapere ciò che era avvenuto, il suo superiore lo informò che sarebbe stato decorato per avere evitato la catastrofe e che egli avrebbe proposto di creare un giorno in suo onore.
Ma non è andata così.
Oggi il pensionato Petrov vive ritirato e in condizioni molto modeste a Frjazino, nei pressi di Mosca.
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La Russia non poteva permettere che gli Stati Uniti e il popolo russo venissero a conoscenza di quanto era successo.
Così, fu ammonito per non aver essersi conformato al protocollo e trasferito ad una posizione di gerarchia minore. Poco dopo fu mandato in pensionamento anticipato.
Ha vissuto il resto della sua vita in un modestissimo bilocale alla periferia di Mosca, sopravvivendo con una misera pensione di 200 dollari al mese, in assoluta solitudine e anonimato.
Fino a quando, nel 1998, il suo comandante in capo, Yury Votintsev, presente quella sera, ha rivelato l’accaduto, il cosiddetto “incidente dell’equinozio d’autunno” causato da una rarissima congiunzione astronomica, in un libro di memorie che accidentalmente arrivò fino a Douglas Mattern, Presidente dell’organizzazione internazionale per la pace, “Associazione di cittadini del mondo”.
E dopo aver verificato la veridicità di una storia così allucinante, questi è andato di persona in cerca di questo eroe sconosciuto a cui tutti dobbiamo di essere ancora in questo mondo, per consegnargli il “Premio Cittadino del Mondo”. L’unico indizio su dove trovarlo l’aveva avuto da un giornalista russo, che lo aveva avvertito che avrebbe dovuto andare senza un appuntamento perché né il telefono né il campanello funzionavano. Trovarne traccia in una fila enorme di grigi complessi condominiali a 50 chilometri da Mosca non è stato facile.
Uno degli abitanti a cui ha chiesto informazioni ha risposto: “Lei deve essere pazzo. Se esistesse davvero un uomo che ha ignorato un avviso di attacco nucleare degli Stati Uniti, sarebbe stato giustiziato. A quel tempo non esisteva una cosa come un falso allarme in Unione Sovietica. Il sistema non sbagliava mai. Solo il popolo”.
Alla fine, al secondo piano di uno degli edifici, riuscì a rintracciare l’ufficiale, che si affacciò, la barba lunga e trasandato. “Sì, sono io, prego”.
“Ho sentito che ero con Gesù quando ha aperto la porta,” ha detto Douglas Mattern. “Tuttavia, viveva come un barbone. Zoppicando, i piedi gonfi, non potendo più camminare molto ed essendogli doloroso stare in piedi, mi ha detto che usciva solo per le provviste”.
Dopo aver raccontato la storia più o meno come abbiamo appena finito di riferire, quest’uomo vi direbbe: “Non mi considero un eroe; solo un ufficiale che ha compiuto il proprio dovere secondo coscienza in un momento di grande pericolo per l’umanità”. “Ero solo la persona giusta, nel luogo e nel momento giusto”.
“In un mondo pieno di vanitosi che “pretendono” di salvare qualcosa, quando in realtà tutto quello che fanno è portare danno agli altri e al pianeta; in un mondo così pieno di miserie, meschinità, ego, avidità e ambizioni, l’umiltà di quest’uomo e la sua indifferenza per fama e importanza, è estremamente sconvolgente”, commenta Mattern.
Dopo essere venuti a conoscenza di questo evento, esperti di Stati Uniti e Russia hanno calcolato quale sarebbe stata la portata della devastazione in base all’arsenale a loro disposizione al tempo. E sono arrivati ad un’agghiacciante conclusione: dai tre ai quattro miliardi di persone, direttamente e indirettamente, sono stati salvati dalla decisione presa da quest’uomo quella notte.
“La faccia della terra sarebbe stata sfigurata e il mondo che conosciamo, finito”, ha detto uno degli esperti.
Quest’uomo ha ricevuto:

  • Premio Cittadino del mondo il 21 maggio 2004.
  • Il Senato australiano gli ha conferito una onorificenza il 23 giugno 2004.
  • Il 19 gennaio 2006 è stato ricevuto all’ONU. Ha detto che quello è stato il suo “giorno più felice da molti anni”.
  • In Germania, nel 2011, gli è stato conferito il premio dedicato a chi ha apportato significativi contributi alla pace nel mondo, per aver scongiurato una guerra nucleare potenziale.
  • Premiato a Baden Baden il 24 febbraio 2012.
  • Vincitore della Dresda Preis nel 2013.
  • E Kevin Costner ha realizzato il documentario “Pulsante rosso” in suo onore.

Oggi continua a vivere nel suo piccolo appartamento alla periferia di Mosca, con la sua piccola pensione di 200 dollari al mese, in relativo anonimato. Ha dato la maggior parte del denaro dei premi alla sua famiglia, tenendone un po’ per comprare l’aspirapolvere che sognava e che si è rivelato difettoso.
Quando ho sentito di questa storia, la prima cosa che ho pensato è stata: quando i suoi vicini o qualcun altro si trova a guardarlo, pensa mai di dover la vita propria e quella dei propri familiari, discendenti e amici a quest’uomo?.
O se quando vede le notizie e tutto ciò che accade nel mondo, si è mai detto che tutto ciò accade grazie alla decisione presa in quei 10 minuti.
Quando guarda il sole sorgere o tramontare pensa mai che così tante altre persone possono farlo grazie a lui?
E mi chiedo quanto Karma può guadagnarsi un’anima umana per aver salvato miliardi di esseri umani, piante e animali; un intero pianeta.
Questo vecchietto che vive in due stanzette alla periferia di Mosca con pochi miseri 200 dollari al mese ha salvato il mondo e nessuno lo sa.
Come è possibile che dopo 32 anni, così poche persone al mondo sappiano di lui?
È inconcepibile e molto ingiusto. Per questo motivo, in questo nuovo anniversario della decisione basata sul buon senso che ha salvato il mondo, vorrei soltanto che tutti conoscano l’uomo che ha preso quella decisione. Il tenente colonnello Stanislav Petrov.
Andrea Riva, Il giornale, 24 ottobre 2015

Ieri Stanislav Petrov, l’eroe più grande che il mondo abbia mai avuto, è morto, all’età di 78 anni, anonimo e povero come era vissuto.

barbara

TUTTO SCORRE…

Una volta raccontarono a Nikolaj Andreevič, in grandissimo segreto, che i medici sarebbero stati giustiziati coram populo, sulla Piazza Rossa, dopodiché il Paese sarebbe stato sicuramente sommerso da un’ondata di pogrom contro gli ebrei, e che quel momento avrebbe coinciso con la loro deportazione nella taigà e nel Karakum, alla costruzione del canale del Turkmenistan. Tale deportazione veniva attuata per difendere gli ebrei dalla giusta ma spietata ira del popolo; essa esprimeva il sempre vivo spirito dell’internazionalismo che, pur comprendendo l’ira popolare, non può tuttavia permettere il ricorso alla giustizia sommaria e alle azioni punitive.
Come tutto ciò che avveniva nel Paese, anche questa indignazione spontanea contro i sanguinosi crimini degli ebrei era stata ideata e pianificata in anticipo.
Allo stesso modo Stalin progettava le elezioni al Soviet Supremo: gli obiettivi venivano scelti in anticipo, si designavano i deputati, dopodiché aveva luogo, secondo il piano, la spontanea designazione dei candidati, la propaganda elettorale a loro favore e, infine si arrivava alle elezioni popolari. Allo stesso modo si indicevano tempestosi comizi di protesta, esplosioni d’ira nel popolo e dimostrazioni di fraterna amicizia; sempre allo stesso modo, varie settimane prima della parata festiva, ne veniva controllata la radiocronaca dalla Piazza Rossa: «Vedo in questo momento sfilare a gran velocità carri armati…». All’identico modo si descriveva in anticipo l’iniziativa personale di Izotov, Stakanov, Dusja Vinogradova, le adesioni in massa ai kolkoz, venivano nominati o rievocati i leggendari eroi della guerra civile, si stabilivano le richieste dei lavoratori di investire il salario in prestiti dello Stato, di lavorare senza giorni di riposo; allo stesso modo si dichiarava l’amore di tutto il popolo per il Capo, in anticipo si indicava quali fossero gli agenti segreti di Paesi stranieri, i sabotatori, le spie; dopodiché, nel corso di complicati interrogatori incrociati si sottoscrivevano protocolli dove ragionieri, ingegneri, giureconsulti – ancor di recente ignari di appartenere alla feccia controrivoluzionaria – confessavano poliedriche attività di spie terroristiche. Allo stesso modo venivano preparate lettere che madri dalla voce priva d’espressione leggevano dinanzi ai microfoni, rivolgendosi ai figli soldati; allo stesso modo veniva pianificato in anticipo l’impeto patriottico di Ferapont Golovatyj; così venivano nominati i partecipanti alle libere discussioni, se per qualche ragione occorrevano delle libere discussioni, si preparavano e accordavano in anticipo i discorsi dei partecipanti.
E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori.
Era morto Stalin! Gli uni furono presi da un sentimento di dolore: in alcune scuole gli insegnanti fecero inginocchiare gli alunni e, postisi loro stessi in ginocchio, spargendo lacrime diedero lettura del comunicato ufficiale sul decesso del Capo. Durante le assemblee funebri, nei ministeri e nelle fabbriche, molti furono presi da attacchi isterici, si udivano pianti convulsi e grida terrificanti di donne, alcune cadevano svenute. Era morto il grande Dio, l’idolo del ventesimo secolo, e le donne singhiozzavano…
Altri vennero presi da un senso di felicità. Le campagne, che soffocavano sotto il peso di piombo del pugno staliniano, tirarono un sospiro di sollievo.
Il giubilo invase milioni e milioni di persone rinchiuse nei lager.
Colonne di detenuti stavano andando al lavoro nel buio profondo. L’abbaiare dei cani poliziotto copriva il ruggito dell’oceano. E all’improvviso, come la luce dell’aurora boreale, cominciò a filtrare tra i ranghi: «È morto Stalin!». Decine di migliaia di persone sotto scorta si passavano l’un l’altro la notizia, sussurrando: «è crepato… è crepato», e quel sussurrare di migliaia e migliaia cominciò a fischiare come un vento. La nera notte regnava sulla terra polare. Ma il ghiaccio sul mare Artico si era rotto, e l’oceano ruggiva.
Non furono pochi, tra i dotti così come tra gli operai, coloro che a quella notizia mescolarono al dolore il desiderio di ballare dalla gioia.
Un turbamento si produsse nell’attimo in cui la radio trasmise il bollettino della salute di Stalin: «respirazione Cheyne-Stokes… urine… polso… pressione sanguigna…». Il capo divinizzato svelava d’un tratto la sua vecchia carne impotente.
Stalin è morto! V’era in quella morte un elemento di libertà repentina, infinitamente estranea alla natura dello Stato staliniano.
Quella repentinità fece tremare lo Stato, come lo aveva fatto tremare l’altra, piombatale addosso il 22 giugno 1941.
Milioni di persone vollero vedere il defunto. Il giorno dei funerali di Stalin non solo Mosca ma anche le province, le regioni, si precipitarono alla Casa dei Sindacati. La fila dei camion provenienti dalla provincia si allungava per molti chilometri. L’ingorgo del traffico raggiunse Serpuchov, dopodiché la paralisi bloccò l’autostrada tra Serpuchov e Tula.
A milioni si recarono a piedi verso il centro di Mosca. Torrenti di persone, quasi neri fiumi scricchiolanti nel disgelo, si urtavano, si schiacciavano sopra le pietre, torcevano, spaccavano le macchine, scardinavano portoni di ferro. Quel giorno morirono a migliaia. Il giorno dell’incoronazione dello zar sulla Chodynka sbiadisce se paragonato al giorno della morte del russo dio terreno: il butterato figlio di un ciabattino della città di Gori.
Sembrava che la gente andasse a morire sotto la spinta di un incantesimo, votata al sacrificio da una mistica cristiana o buddhista. Come se Stalin, il grande pastore, finisse di sterminare le pecorelle – che non gli era riuscito di acciuffare -, postumamente eliminando l’elemento della casualità dal suo minaccioso piano generale.
Radunatisi in seduta, i compagni e collaboratori di Stalin lessero mostruosi comunicati delle milizie moscovite, degli obitori – e si scambiarono occhiate. Il loro smarrimento si fondeva con la sensazione, nuova per loro, di non provare più paura dinanzi all’ira inevitabile del grande Stalin. Il padrone era morto.

Il cinque aprile Nikolaj Andreevič svegliò la moglie, al mattino, con un grido disperato:
«Maša! I medici non sono colpevoli! Maša, li avevano torturati!».
Lo Stato riconosceva la sua orribile colpa, riconosceva che ai medici detenuti erano stati applicati metodi vietati negli interrogatori.

Unione Sovietica. Centinaia di milioni di persone costrette a vivere, per decenni, nella morsa del terrore. Decine di milioni di morti. Decine di milioni di deportati. Fame. Quella al di là di ogni immaginazione. Quella che acceca e toglie la ragione. Quella che giunge a condurre a uccidere i propri figli e mangiarli. Fame programmata a tavolino allo scopo preciso di uccidere milioni di persone. E milioni di ebrei perseguitati, deportati, assassinati. E il famigerato “complotto dei medici ebrei”…
È un romanzo, questo di Vasilij Grossman, ma vi troviamo dentro la Storia, e chi ha apprezzato il suo bellissimo Vita e destino, apprezzerà sicuramente anche questa sua ultima opera, sorta di testamento spirituale.

Vasilij Grossman, Tutto scorre…, Adelphi
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barbara

I RACCONTI DELLA KOLYMA

Questo invece non è un romanzo: è una raccolta di ricordi personali di chi nell’inferno della Kolyma ci è stato per diciassette anni: lavorare a quaranta, a quarantacinque, a cinquanta gradi sottozero – perché la Kolyma è oltre il circolo polare artico, dove è normale vedere, in pieno luglio, paesaggi così:
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–  vedere i propri compagni morire, uno dopo l’altro, di fame, di freddo, di malattia, o assassinati per capriccio; con due consapevolezze: che il prossimo potresti essere tu, e che la tua condanna, senza formalità e senza spiegazioni, può essere aumentata, raddoppiata, prorogata all’infinito fino alla pura e semplice cancellazione della scadenza – cosa che, senza il provvidenziale aiuto di una persona che aveva un favore da ricambiargli, sarebbe accaduta anche a Šalamov.
Credo che la cosa migliore, per dare un’idea, sia riportare alcuni passi della postfazione.

Varlam Tichonovic Šalamov nacque nel 1907 a Vologda. A Mosca, dal 1924, lavorò per due anni come conciatore; si iscrisse poi alla facoltà di Diritto Sovietico ma continuò a coltivare il suo vivo, precoce interesse per la letteratura. Il 19 febbraio 1929 fu arrestato per aver diffuso la «Lettera al Congresso» di Lenin e condannato a tre anni di reclusione in un campo di concentramento degli Urali Settentrionali. Nel 1932 tornò a Mosca. Sei anni più tardi comparve sulla rivista «Oktjabr’» il suo primo racconto. La notte tra il 1936 e il 1937 fu nuovamente arrestato – «per attività controrivoluzionaria trockista» – e condannato a cinque anni di lavori forzati nelle miniere della Kolyma, la vasta e impervia regione che il fiume omonimo attraversa prima di sfociare nel Mare Siberiano Orientale. Nel 1942 la condanna gli venne prolungata «fino alla fine della guerra»; l’anno seguente, questa volta per aver sostenuto che Bunin era un classico russo, venne condannato ad altri dieci anni nell’«inferno» (così nel racconto «Il treno») della Kolyma. Ma la Kolyma – ha scritto Michail Geller nella prefazione alla prima edizione unitaria e pressoché integrale dei Kolymskie rasskazy apparsa in Occidente (1978, «Overseas Publications Interchange») – «non era un inferno. Era un’industria sovietica, una fabbrica che dava al paese oro, carbone, stagno, uranio, nutrendo la terra di cadaveri. Era una gigantesca impresa schiavista che si distingueva da tutte quelle conosciute della storia per il fatto che la forza-lavoro fornita dagli schiavi era assolutamente gratuita. Un cavallo alla Kolyma costava infinitamente di più di uno schiavo-detenuto. Una vanga costava di più». «L’esperienza di Šalamov nei lager» ha testimoniato Solženicyn «è stata più amara e più lunga della mia, e con rispetto riconosco che proprio a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager». Non a caso, leggendo Una giornata di Ivan Denisovíc’, Šalamov scrisse a Solženicyn: «E come mai lì da voi va in giro un gatto nell’ospedale? Come mai non l’hanno ancora ammazzato e mangiato?». Per un reduce della Kolyma anche un gatto vivo era assurdo, impensabile. E a Pasternak, dopo averlo brevemente messo a parte di alcuni episodi della vita quotidiana alla Kolyma, Šalamov scrisse: «L’essenziale non è qui, ma nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo. La mente sconvolta, già attaccata dalla follia, si aggrappa all’idea di “salvare la vita” grazie al geniale sistema di ricompense e sanzioni che le viene proposto. Questo sistema è stato concepito in modo empirico, giacché è impossibile credere all’esistenza di un genio capace di inventarlo da solo e d’un sol colpo.  Perdonatemi se vi parlo di cose così tristi ma vorrei che aveste un’idea più o meno corretta di questo fenomeno capitale e singolare che ha fatto la gloria di quasi vent’anni di piani quinquennali e dei grandi cantieri che vengono definiti “audaci realizzazioni”. Giacche non v’è una sola costruzione importante che sia stata portata a termine senza detenuti, persone la cui vita non è che un’ininterrotta catena di umiliazioni, la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano…». Fu un medico detenuto, A.M. Pantjuchov, che salvò la vita a Šalamov: nel 1946, rischiando la propria carriera, lo destinò ai corsi di addestramento per infermieri che si tenevano nell’Ospedale centrale, sulla «riva sinistra» del Kolyma. Liberato dal lager nel 1951, lo scrittore poté tornare a Mosca solo nel dicembre 1953 e per due giorni soltanto (come ex detenuto gli era vietato di risiedere nelle città con più di mille abitanti). Nella capitale rivide la moglie e la figlia, da cui era però destinato ad essere diviso per sempre; incontrò Boris Pasternak, con cui era entrato in corrispondenza nel marzo 1952. Stabilitosi nella regione di Kalinin, iniziò a scrivere I racconti della Kolyma. Nel luglio 1956, riabilitato, poté far ritorno nella capitale. Dal 1961 al 1967 videro la luce tre sue raccolte di poesie, ma i racconti sulla Kolyma gli venivano puntualmente restituiti dalle redazioni di riviste e case editrici. Altrettanto dolore provocò in lui il destino dei suoi racconti all’estero, dove per lunghi anni vennero pubblicati in modo sparso e frammentario, secondo approssimativi criteri filologici, come ai tempi del samizdat avveniva di frequente per gli scritti che riuscivano a filtrare dalle ferree maglie della cortina di ferro. L’interesse che l’Occidente manifestò subito per la sconvolgente testimonianza artistica di Šalamov impensierì le autorità sovietiche, che nel 1972 costrinsero lo scrittore in disgrazia a sconfessare i Racconti della Kolyma con un documento in cui tra l’altro affermava che «la loro problematica era stata superata dalla vita», dal XX Congresso del Pcus. Gravemente provato nel fisico dagli anni di lager e nello spirito dagli anni di «libertà», Šalamov non smise di scrivere. […] Nel 1973 terminò il lavoro sulla vasta e agghiacciante epopea della Kolyma, […] I racconti della Kolyma, titolo divenuto canonico per l’intero corpus dei racconti. […] Varlam Šalamov morì il 17 gennaio 1982 nella casa di riposo in cui il Litfond lo aveva fatto ricoverare nel 1979. Nel suo paese una scelta dei Kolymskie rasskazy comparve per la prima volta nel 1988, sulle pagine della rivista «Novyj Mir». Il testo integrale russo ha visto la luce a Mosca nel 1992, per le edizioni Russkaja Kniga, in due volumi. La traduzione italiana si basa su quest’ultima pubblicazione e presenta un’ampia scelta dai quattro «libri» che costituiscono il nucleo fondamentale dei Racconti della Kolyma.

I Racconti della Kolyma sono davvero agghiaccianti: per la durezza delle condizioni di vita, per l’efferatezza dei carnefici, per la disumanizzazione del sistema, e davvero non hanno niente da “invidiare” ai più noti campi di concentramento e di sterminio nazisti. E tuttavia questo libro, giustamente da più d’uno definito capolavoro, è talmente bello che si può e si deve leggere.

Varlam Šalamov, I racconti della Kolyma, Adelphi
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barbara

SIGNORE E SIGNORI, ECCO A VOI IL PARADISO IN TERRA

Ovverosia il Socialismo Reale dell’Unione Sovietica

In Urss si vive così bene

I pochi comunisti italiani ancora vivi nei campi di concentramento dell’estremo Nord non ricevettero mai da parte dei dirigenti del Pci alcuna attenzione, essendo, anzi, del tutto cancellati ed esorcizzati come tabù. Forse, l’unica consolazione per loro fu l’essere almeno scampati alla notizia del premio alle «madri gloriose» e alle «madri eroine» e alla lettura delle domande-risposte di Robotti sulla vita sovietica, che nel 1950 furono raccolte in volume e diffuse tra il popolo comunista.
È il caso di citarne alcuni passaggi per capire sino in fondo i meccanismi del lavaggio del cervello:

Domanda: Perché nell’Unione Sovietica non si sciopera?
Risposta:  perché sul luogo di lavoro esistono le possibilità e i mezzi per dirimere le vertenze che, in generale, in altri paesi, determinano gli scioperi. […] Ogni lavoratore nell’Unione Sovietica comprende che facendo sciopero agirebbe contro i propri interessi. Infatti in numerosi anni di permanenza nelle officine sovietiche  non mi è mai capitato di sentire operai o impiegati proporre  di fare sciopero  Nell’Unione Sovietica, dal 1945 al mese di marzo 1950, il salario dei lavoratori è aumentato di oltre il 48 per cento, non attraverso un aumento delle tariffe orarie, ma attraverso la rivalutazione del rublo e a tre successive riduzioni di tutti i prezzi dei prodotti alimentari e industriali di largo consumo, destinati a tutta la popolazione.  È errato credere che nell’Unione Sovietica non si sciopera per paura: milioni e milioni di lavoratori che hanno valorosamente combattuto in guerra hanno dimostrato che la paura non è un elemento del loro carattere. Non è la paura di scioperare che essi hanno,
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ma la coscienza di essere i responsabili diretti della gestione economica del paese.  Quando le classi lavoratrici cessano di essere sfruttate e diventano classi dominanti, la loro vecchia arma non serve più. Da quel momento essi si pongono come obiettivo l’aumento della produzione. E questo aumento non arricchisce più le società anonime: arricchisce tutta la società. […]
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Domanda: Quali sono attualmente le mansioni di Stalin?
Risposta: Erroneamente molti credono che Stalin sia il capo dello Stato sovietico e che, come tale, abbia poteri dittatoriali. Ma non è affatto così… Il fatto che Stalin goda di una grande autorità, di un vasto prestigio e di una popolarità che certamente, dopo Lenin, non ha mai circondato nessun uomo di Stato o capo religioso nella propria patria e nel mondo intero è dovuto:
a) alla indiscussa fedeltà di Stalin ai principi del socialismo e alla causa dei lavoratori;
b) al coraggio con il quale egli, per lunghi anni, ha affrontato i non comuni sacrifici della dura e aspra vita del militante rivoluzionario; [infatti quando era in Siberia, sotto lo zar, era famoso fra tutti i deportati per il fatto che non si separava mai dalla sua trapunta rosa, ndb]
c) alla tenacia con la quale egli ha seguito, realizzato, perfezionato e sviluppato l’insegnamento di Lenin partecipando alla creazione, alla direzione e al rafforzamento organizzativo, politico e ideologico del Partito comunista (bolscevico); [bolscevico viene da bolscioi, grande, e significa partito di maggioranza. In realtà all’unica elezione vera dell’Unione Sovietica hanno beccato il 25%, perciò è stato deciso che il popolo non era ancora maturo per votare, e infatti di elezioni vere non ce ne sono state mai più. E loro si sono presi lo stesso il nome di maggioranza, ndb]
d) alla grande capacità dimostrata nell’organizzare la lotta armata dei lavoratori russi per la conquista e la difesa del potere socialista durante il periodo rivoluzionario e quello della guerra civile;
e) alle sue geniali capacità di tradurre in pratica e di perfezionare, sviluppandoli, gli insegnamenti di Lenin sulla costruzione del socialismo in un solo paese circondato dal mondo capitalista;
f) alla giusta direzione data al Partito comunista (bolscevico) dell’Urss per la industrializzazione e la collettivizzazione e per l’impostazione e la realizzazione dei piani quinquennali;
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g) alle grandi, impareggiabili capacità politiche e strategico-militari dimostrate durante la guerra conclusasi con la distruzione del nazi-fascismo e la liberazione di decine di milioni di cittadini dell’Europa orientale dal regime capitalista;
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h) all’aver impostato e diretto una giusta politica di ricostruzione post-bellica, politica che ha permesso all’Urss, unico paese in Europa, di raggiungere e sorpassare in soli quattro anni il livello di anteguerra della produzione industriale e agricola …;
i) all’aver dato al mondo intero una concreta dimostrazione della completa emancipazione politica, economica e culturale dei popoli coloniali oppressi;
l) all’aver dato agli uomini della cultura e della scienza – attraverso lo sviluppo e l’arricchimento della teoria e delle leggi del materialismo dialettico e storico – la guida per nuove grandi conquiste che hanno permesso e permettono agli uomini della società socialista di dominare i fenomeni della natura frantumando le leggende dei miracoli e strappando il velo del mistero con la forza creatrice del lavoro, della tecnica e della scienza, diventati garanzia e patrimonio dell’intera società dei produttori.

Domanda: Si può aderire facilmente al Partito comunista bolscevico?
Risposta: L’iscrizione al partito è volontaria. L’accesso all’impiego, alle università, oppure a una carriera, in nessun caso richiede l’appartenenza al Partito comunista. Il membro del Partito comunista bolscevico è come un soldato: va dove il Partito comunista lo manda. Molti ritengono che i posti di direzione nell’Unione Sovietica siano affidati solo ai comunisti. Ciò è errato  Altri pensano che i comunisti nell’Unione Sovietica siano retribuiti meglio che gli altri cittadini. Anche ciò non è vero.

Domanda: Perché vi è un solo partito – il Partito comunista bolscevico – nell’Unione Sovietica?
Risposta: Il perché lo si comprende esaminando prima di tutto la situazione dalla quale scaturì la nuova organizzazione del potere e, secondariamente, la composizione della società sovietica… Oggi la società sovietica è composta non più da classi sociali aventi interessi contrastanti (capitalisti e operai, grandi proprietari di terra e contadini poveri e braccianti), ma da gruppi sociali (operai, contadini kolchoziani e intellettuali lavoratori) aventi interessi comuni. 

Domanda: Come si esercita la libertà di critica nell’Unione Sovietica?
Risposta: La libertà di critica – come altre libertà – non basta concederla o riconoscerla: occorre garantirla fornendo ai cittadini i mezzi e la possibilità perché si possa esercitare, organizzare e sviluppare. Non vi è certamente nessun altro paese nel quale la critica si eserciti in modo così vasto ed efficace come nell’Urss; non vi è nessun altro paese dove la critica giusta abbia rapida corrispondenza nei fatti.
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Domanda: Come avvengono le elezioni nell’Unione Sovietica?
Risposta: Le elezioni avvengono sulla base del voto diretto, uguale e segreto, per tutti i cittadini che hanno compiuto i diciotto anni di età. Nell’Urss non esistono elezioni di secondo grado e non esistono limitazioni di voto sulla base di discriminazioni razziali o del censo  Ogni sezione elettorale è sempre munita di numerose cabine per facilitare la rapidità delle votazioni.

Domanda: Esiste la prostituzione nell’Unione Sovietica?
Risposta: L’Unione Sovietica, sola fra tutti i paesi moderni, già dal 1917 abolì la prostituzione, dando così l’esempio al mondo civile. La «civiltà» americana non è ancora arrivata a tanto.

Domanda: Esiste ancora nell’Unione Sovietica l’infanzia abbandonata?
Risposta: Il fenomeno dell’infanzia abbandonata con tutte le sue conseguenze, è stato un triste retaggio del vecchio regime zarista.
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Domanda: Come nella realtà della vita si esprime l’uguaglianza dei diritti della donna nell’Unione Sovietica?
Risposta:  alla donna sono aperte tutte le vie dell’attività economica, sociale e politica e, secondariamente, nel fatto che alla donna sono riconosciuti gli stessi diritti che hanno gli uomini… In queste condizioni spariscono certe tendenze della donna, tradizionali nei paesi dove essa non ha ancora ottenuto l’emancipazione sociale: dare la caccia al «buon partito», sentirsi inferiore all’uomo in tante attività sociali, considerare il lavoro nella produzione industriale come cosa sgradevole e disdicevole.

Domanda: Come sono assistite la maternità e l’infanzia nell’Unione Sovietica?
Risposta:  Lo Stato sovietico cura l’infanzia e conduce una lotta accanita contro la mortalità infantile. La medaglia d’oro della «Madre eroina» è stata assegnata a 1800 madri che hanno più di dieci figli, e la medaglia d’argento della «Madre gloriosa» è stata assegnata a 1.700.000 madri cha hanno da cinque a dieci figli.

Domanda: In quali condizioni viene a trovarsi nell’Unione Sovietica una donna che lavori e abbia dei bambini?
Risposta: Nell’Unione Sovietica l’allevamento dei bambini è affidato ai genitori i quali, insieme allo Stato, sono responsabili della loro educazione. Un altro aiuto le donne di casa lo hanno attraverso la istituzione dei negozi di generi alimentari presso le officine in modo che, sia andando al lavoro che uscendo, possono ordinare e prendere ciò che loro occorre. Inoltre molte lavoratrici… hanno la possibilità di procurarsi la persona di servizio che accudisce alle faccende domestiche. Ciò è anche più conveniente da un punto di vista sociale generale, perché una operaia qualificata o una donna specializzata possono rendere molto di più alla società con il loro lavoro di quanto potrebbe rendere una persona di servizio. Il lavoro di quest’ultima è però ugualmente utile alla società in quanto concorre al rendimento del lavoro della donna specializzata.

Domanda: Qual è la situazione dei tecnici e degli scienziati nell’Urss?
Risposta: Intellettuali  costituiscono per l’Unione Sovietica un patrimonio per il quale si hanno tutte le cure indispensabili.  «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro.» Quindi non vi è nessun livellamento degli stipendi.

Domanda: Com’è organizzata la pubblica istruzione nell’Unione Sovietica?
Risposta:  il potere sovietico ha dedicato alla pubblica istruzione il massimo interessamento e il massimo sforzo… si abituano gli allievi a lavorare anche a casa.  Prima di lasciare l’Urss – alla fine del dicembre 1946 – trovandomi una sera presso una famiglia russa, fui sorpreso dalla quantità di recipienti vari nei quali germogliavano grano, segale, cipolle e altre colture. Si trattava di esperimenti che faceva una bambina di undici anni la quale mi disse che stava realizzando alcuni insegnamenti di genetica dell’accademico Lysenko.

Domanda: Si possono ascoltare le emittenti straniere?
Risposta:  Se, come molti affermano, non fosse possibile ai cittadini sovietici ascoltare emissioni straniere, come si spiegherebbe il fatto che il governo americano ha stanziato 11.500.000 dollari all’anno per sovvenzionare le trasmissioni in lingua russa della famosa «Voce dell’America»? Come si spiegherebbe che varie volte al giorno la «Voce di Londra» trasmette in lingua russa? Come si spiegherebbe che la Radio vaticana due volte alla settimana compie trasmissioni in lingua russa appositamente destinate all’Unione Sovietica?

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Robotti scrive queste cose, mentre Clementina Perone Parodi, una vittima della famiglia Robotti, è ancora vilipesa, umiliata e torturata nel gulag. E nessuno del Pci, a cominciare da Togliatti, per finire con Giovanni Parodi (il marito diventato numero due della Cgil), muoverà un dito per farla liberare. (Carnefici e vittime, pp.40-43)

Di commenti non credo ne servano, resta solo da aggiungere lo stupore nel constatare che c’è ancora qualcuno che pretende di “rifondare” il comunismo e si dichiara orgogliosamente comunista.

barbara

CARNEFICI E VITTIME

Il 9 febbraio 1938, Goldfarb, giudice istruttore, avendo io rifiutato di scrivere sotto dettatura false deposizioni, contenenti accuse contro una persona a me sconosciuta, mi insultò, bestemmiò, strepitò, e alla fine mi informò che avrebbero arrestato mia moglie col bambino appena nato. Il 27 febbraio 1938, lo stesso giudice istruttore, rifiutandomi ancora di sottoscrivere deposizioni false, dopo avermi gridato parole oscene, mi torturò, fratturandomi le ossa. Quindi, minacciò di farmi fucilare, mentre io ero ridotto quasi allo stato di incoscienza. Lo stesso fece in modo che io potessi sentire le urla e il pianto disperato di mia moglie, arrestata, interrogata, insultata. Mi giunse alle orecchie anche il pianto del mio bambino lattante … Il giudice disse che avrebbe arrestato la mia vecchia madre e mia sorella … L’11 marzo del 1938, il medesimo magistrato  aprì la porta, mostrandomi mia madre di settantatré anni, arrestata, in catene e interrogata con l’accusa di spionaggio… Il 2 aprile 1938, il giudice istruttore fece in modo che io potessi sentire l’interrogatorio di mia sorella Ianina, alla quale veniva minacciato l’arresto della figlia, cioè di mia nipote … Il 3 aprile 1938, il giudice mi minacciò di condurmi subito nel sotterraneo del carcere Butyrskaja, per torturarmi, spezzarmi altre ossa e costringermi, così, a firmare le false deposizioni. Mi disse: tua moglie e il lattante sono agli arresti, e così la tua vecchia madre. Tua sorella e tua nipote ti hanno rinnegato. Obbedisci e firma, se no sarai massacrato di botte e, poi, fucilato. Alla fine ero ridotto in uno stato di abulia e di delirio. (pp. 373-374)

Carnefici e vittime è uno spietato resoconto dell’annientamento del comunismo mondiale nell’Unione Sovietica di Stalin, per mezzo delle famigerate “purghe”: accuse deliranti, processi farsa, “confessioni” di giganteschi complotti, di avere acquistato armi per uccidere Stalin, di avere spiato per conto di potenze straniere… Qui, in particolare, è sotto la lente l’annientamento del comunismo italiano, ossia l’eliminazione fisica di molti dei ferventi comunisti italiani riparati in Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura fascista. Il tutto con l’attiva complicità di Togliatti, Roasio e Robotti. Libro documentatissimo, con riproduzione dei verbali degli interrogatori e testimonianze dirette. Il linguaggio, soprattutto l’aggettivazione, a volte risente un po’ dello spirito “da crociata” che muove l’autore, ma vale davvero la pena di sopportare questo piccolo fastidio per avere un’idea concreta di quale inferno sia stato il paradiso in terra del comunismo reale.

Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi, Carnefici e vittime, Mondadori
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barbara