DI TERREMOTI E DI ALTRE STORIE

Le “altre storie” – storie anche nel senso di favole – sono quelle della Terra che soffre, che piange, che protesta, che si arrabbia, che si vendica, che si ribella alle malegrazie che le fa l’uomo col suo cieco egoismo. Inizio con una riflessione di

Giovanni Bernardini

TRE METRI

La terra si è spostata di tre metri. Un niente, visto che la circonferenza del nostro piccolo pianeta è di circa 40.000 chilometri [dato che amo i numeri, ho fatto il calcolo: è lo 0,0000075%].
Eppure quel niente ha avuto una potenza di circa 20.000 bombe H, ha provocato mostruose devastazioni e migliaia, probabilmente decine di migliaia, di vittime innocenti.
C’è davvero chi crede che il pianeta sia una casa accogliente che il buon Dio ci ha affidato perché la tenessimo bene?
O che l’uomo può “distruggere il pianeta”?
I terremoti sono uno schiaffo ai malati di ideologia.
I disastri naturali esistono. Invece di cianciare sulla “fine del mondo” o sulla “armoniosa convivenza fra uomo e natura” sarebbe bene usare le nostre conoscenze e risorse tecnologiche per cercare di ridurre al minimo danni e vittime.
Invece mi tocca leggere in rete le idiote farneticazioni di chi sostiene che i terremoti sono un “monito” che “madre natura” ci manda…
Quanti sono i cretini in circolazione?

E qualcuno ha lasciato un commento altrettanto interessante:

Sono gli stessi che non credono a Dio ma credono che la terra abbia facoltà intellettive…

D’altra parte molto spesso quelli che non credono in Dio credono alle medicine alternative, all’astrologia, alla pranoterapia, ai poteri dei cristalli, alla telepatia, alla magia, alla chiromanzia e chi più ne ha più ne metta. E ovviamente credono alla possibilità di determinare il clima ma chissà come mai non si mettono in moto con la stessa determinazione per controllare i terremoti.

Una cosa che più di una volta mi è capitato di sentir dire è che “la Terra è stata programmata per nutrire tre miliardi di persone”. Ora, le possibilità sono due: o Dio esiste, o Dio non esiste. Se esiste e ha creato la Terra e tutto l’universo, e la Terra è stata programmata per sostentare tre miliardi di persone, mi pare ovvio che a programmarla in questo modo sia stato Lui, e allora non capisco come mai, dopo avere detto “prolificate e moltiplicatevi” non abbia aggiunto “ma solo fino a tre miliardi”, oppure, se lo aveva detto, vedendo che noi poi ce lo siamo dimenticato, non abbia provveduto a bloccare la crescita d’autorità. E se invece non esiste, chi diavolo è che avrebbe programmato la Terra per nutrire un numero stabilito di persone? Senza contare che ne sta nutrendo bene ben più di quella cifra, il che rende evidente, se già non lo fosse, che questa è l’ennesima balla inventata e propagata a scopo terroristico.

Un’altra cosa, sempre in relazione alle malegrazie che facciamo a questo povero pianeta, che mi capita ogni tanto di sentire è che “l’uomo è un errore biologico”. Ecco, ora vi faccio una domanda: voi quante anomalie cromosomiche conoscete? Sicuramente tutti o quasi risponderete la sindrome di Down e poi vi fermate. Io ne conosco qualcuna in più:  sindrome di Turner, di Williams, di Klinefelter, poi mi fermo anch’io. Probabilmente gli addetti ai lavori ne conosceranno un altro paio, e poi si fermano anche loro. Ma le anomalie cromosomiche in realtà sono molte. E perché non le conosciamo? Per un motivo molto semplice: perché le persone che ne sono affette non arrivano a nascere. Perché queste sindromi non sono compatibili con la sopravvivenza. Quelle che conosciamo sono, molto semplicemente, le uniche compatibili con la vita: gli errori, la natura, li elimina senza pietà, e dunque “essere” e “errore biologico” sono due concetti che non si possono trovare nella stessa frase, non sono compatibili: se l’uomo fosse un errore biologico, noi, molto semplicemente, non esisteremmo non saremmo mai esistiti.

E infine ci sono quelli che “gli animali sono migliori di noi”. Ebbene, il giorno in cui uno scimpanzé scriverà non dico la Divina Commedia ma almeno I miei primi quarant’anni di Marina Ripa di Meana ex Lante della Rovere nata Punturieri; il giorno in cui uno scoiattolo comporrà non dico La Traviata ma almeno Fin che la barca va; in giorno in cui un coccodrillo dipingerà non dico la Cappella Sistina ma almeno un omino stilizzato; il giorno in cui un puma riuscirà a costruire non dico un transatlantico ma almeno una casetta di Lego; il giorno in cui una giraffa riuscirà a inventare non dico la peridurale che permette di partorire pienamente coscienti e senza il minimo dolore, ma almeno una banale aspirina; il giorno in cui un cane riuscirà non dico a vincere a Master Chef ma almeno a cucinarmi due uova al tegamino quando sono malata; il giorno in cui un gatto escogiterà non dico un sistema per produrre energia senza inquinare, ma anche un qualsiasi sistema per produrre energia, quel giorno ne riparleremo. Nel frattempo tutti gli appartenenti alle sunnominate categorie sono caldamente invitati ad andare a depositare il prodotto della propria digestione.

barbara

COME CANCELLARE L’ESSERE UMANO IN NOME DEL PROGRESSO

Due pezzi, uno più agghiacciante dell’altro. Sono tutte cose più o meno note, solo che ad ogni intervento dei buoni di professione si aggiunge una nuova spinta verso il baratro che ci sta ormai ingoiando.
I commenti in corsivo in parentesi quadra sono naturalmente miei, come sempre.

La identity politics è negazione dell’individuo, della sua libertà e del suo valore

Il Superbowl disputatosi recentemente mi ha fatto venire in mente un bellissimo film ambientato nel mondo del football americano: “Il sapore della vittoria – Uniti si vince”. Il protagonista è Herman Boone, interpretato da Denzel Washington, un allenatore afro-americano che deve guadagnarsi il rispetto della sua squadra, composta per la prima volta da bianchi e neri, nell’America degli anni ’60, dove il razzismo sistemico era una cosa vera e non un prodotto della fervida fantasia dei millennials.
Boone ha un allenatore in seconda che è il classico prototipo del liberal che si finge di larghe vedute: bianco, tratta i neri in squadra con compatimento e senso di pietà. La frase rivelatrice è quella che Boone gli rivolge, per contestare il suo vizietto di consolare i giocatori neri (e solo loro) ogni volta che questi ricevono un rimprovero da Boone:
“Io sono cattivo allo stesso modo con tutti i ragazzi della squadra. […]. Lei non gli fa un favore con la sua condiscendenza, ne fa dei menomati”.
C’è da scommettere che tale film non sia stato inserito nella lista di quelli che alcune aziende hanno cominciato a raccomandare ai propri dipendenti.
Ma che c’entra un privato con i gusti cinematografici dei suoi dipendenti?
C’entra eccome, soprattutto se siamo a febbraio, il Black History Month. Nato come serie di eventi per celebrare l’orgoglio di essere afro-americani [vogliamo provare a immaginare che cosa succederebbe se qualcuno proponesse di celebrare l’orgoglio di essere euro-americani bianchi?], l’iniziativa è stata fatta propria da grandi gruppi (Nordstrom ad esempio, specializzato in abbigliamento) fino ad agenzie di marketing, che invitano il personale a guardare film interpretati o diretti da persone di origine africana, ascoltare musica black [soprattutto classica, mi raccomando], leggere libri di neri, ecc. Ci sono persino app per trovare negozi gestiti da neri. [A casa mia una roba di questo genere si chiama purissimo razzismo DOC, garantito al 100%]
La chiamano inclusività, per darsi una patina di buone intenzioni. [E non hanno ancora scoperto che la patina sporca peggio della morchia]
La realtà è ben diversa: il politicamente corretto e la identity politics, partorite nei campus americani, dopo aver infettato i media stanno diventando sempre più invasivi.
Non si capisce infatti il nesso tra il fatto che un negozio sia gestito da una persona appartenente ad una certa etnia e il rapporto qualità-prezzo, la cortesia, la competenza del negoziante, che dovrebbero essere i criteri principali nella scelta fra tanti soggetti tra loro in concorrenza.
Nulla c’entra con il libero mercato. Perché nulla c’entra con l’aggettivo libero. Le quote rosa (o nere, o di qualsiasi altro colore) sono infatti la negazione della libertà.
Alla decisione libera e razionale del consumatore nello scegliere un prodotto o del dirigente nello scegliersi un collaboratore, viene sovrapposto (anzi, quasi imposto) il rispetto di criteri la cui violazione porta ad accuse di sessismo, razzismo, ed altri ismi assortiti.
Ad oggi si tratta solo di iniziative “spontanee” di alcune aziende. Domani però la cosa potrebbe prendere una piega molto pericolosa, nel caso qualche legislatore si sognasse di imporle per legge.
Già adesso, come ricordato da Jordan Peterson, nello Stato di New York all’interno delle aziende si può essere multati se ci si rivolge ad un collega utilizzando un pronome personale che non rispecchi la sua “identità di genere”.
Peterson, celebre psicologo canadese, è non a caso uno studioso dell’autoritarismo, specialmente di quello di sinistra. [quella del sessantottesco “Vietato vietare”]
Una sinistra che alla fine mostra il suo vero volto: il disprezzo per il singolo individuo e il tradimento dell’American Dream, quello dell’uomo libero, pioniere in territorio inesplorato, che riesce a coronare i suoi sogni col duro lavoro e l’impegno che mette in luce i suoi meriti.
Merito e meritocrazia sono infatti parole proibite nella neo-lingua che i sacerdoti del politicamente corretto usano nei loro culti. [Possiamo chiamarli “messe nere”, questi culti che assomigliano sempre più al satanismo col suo corollario di sacrifici umani – non sempre solo simbolici?]
Tutti vengono etichettati, in base al genere, all’orientamento sessuale, all’etnia, come se ciò bastasse a definire un individuo e le sue aspirazioni. Sono queste appartenenze a decretare il rispetto e l’accettazione da parte degli altri, non il valore in sé di quello che si dice o si fa.
Le conseguenze sono alle volte imprevedibili, soprattutto dove le categorie si sovrappongono: spassosissime le liti tra alcune femministe e gruppi transgender.
La sinistra però non sembra dare peso alle contraddizioni che il suo pensiero genera: con la sua (il)logica orwelliana, si può essere ossessionati dal colore della pelle e dall’appartenenza etnica ed al tempo stesso lottare contro un razzismo che si ritiene infiltrato ovunque, anche nei nostri retro-pensieri.
Per quanto mi riguarda, non seguirò alcuna raccomandazione in fatto di film che non possa essere quella di un critico o di chi abbia già visto il film. Non sprecherò nemmeno un minuto del mio tempo a guardare Lupin neri o Achille neri (il blackwashing cinematografico meriterebbe un articolo a parte).
Continuerò invece a guardarmi film con Denzel Washington, non perché nero, ma perché uno degli attori migliori in circolazione (e lo sarebbe anche se fosse trasparente). Perché come Herman Boone, penso che per scoprire i talenti dei neri non servano quote, mesi loro dedicati o il compatimento di qualche liberal da salotto.
Bastano meritocrazia e competizione a renderli persone libere e responsabili, sia che portino la loro squadra alla vittoria o che falliscano nel segnare una meta, anziché dei menomati come vorrebbe la sinistra con le sue pretese di redenzione etnica.
Fabrizio Baldi, 11 Feb 2021, qui.

Benvenuti al Ministero della Verità

In Inghilterra via “allattamento al seno”, “latte materno” e “madre”. Per essere amici dei trans si dirà “allattamento al torace” [che poi possano allattare solo toraci dotati di ghiandole mammarie e dotti lattiferi (di cui temo che le persone che esibiscono cartelli proclamanti “ci sono ragazze col cazzo. Fatevene una ragione” siano leggermente sprovviste) è un dettaglio talmente trascurabile che possiamo benissimo fare finta che non esista], “latte umano” e “cogenitore”. E’ il buco della memoria di “1984”
Si deve dire “allattamento al torace” anziché “allattamento al seno” e sostituire il termine “madre” e “padre” con “genitore che partorisce” [E come la mettiamo con la discriminazione nei confronti del genitore che non partorisce?]. E’ la politica trans-amichevole del Brighton and Sussex University Hospitals NHS Trust, il primo in Inghilterra ad attuare una ideologia linguistica inclusiva per il suo dipartimento di servizi alla maternità. Il personale è stato istruito a sostituire anche “latte materno” con “latte umano” [che ovviamente potrebbe essere benissimo anche paterno, solo che il soggetto in questione dichiari di sentirsi femmina. No cioè aspetta, come fa a dire di sentirsi femmina se quella parola sta nell’indice delle parole proibite tipo l’indice dei libri proibiti dalla Chiesa in epoche che noi solevamo chiamare e considerare oscurantiste?]

La Gran Bretagna sta prendendo molto sul serio “1984” di George Orwell. Siamo entrati nel territorio del Ministero della Verità. Questa politica linguistica trans dovrebbe allarmare chiunque creda nella ragione e nella libertà. È una follia. E la maggior parte delle persone sa che è una follia. Le persone dovrebbero essere libere di identificarsi con tutto ciò che vogliono. Ma gli altri dovrebbero essere liberi di dire: “Non sei quella cosa che dici di essere. Ma buona fortuna”. Invece oggi dire che ci sono due sessi è diventato equivalente a un crimine linguistico. Queste norme ne sono la dimostrazione. Ne è la dimostrazione il caso J.K. Rowling. Ne è la dimostrazione la cacciata delle femministe critiche del transgender dalle università britanniche. E molti altri esempi.
Come Winston Smith in “1984”, che al Ministero della Verità altera il passato, abbiamo istituzionalizzato la menzogna e questo non è sano per la democrazia [direi che non è sano neanche per l’equilibrio mentale]. Nel romanzo di Orwell il “buco della memoria” è un meccanismo ideato per alterare o far sparire foto, parole e documenti con l’intento di far sì che non siano mai esistiti. Ora scopriamo che esiste davvero.
Giulio Meotti, qui.

E prima o poi scopriremo che esistono davvero anche le sale di tortura, in cui per esempio ti mettono davanti agli occhi una gabbietta con dentro dei topi affamati e inferociti e si accingono a sollevare la barra che la chiude. E a quel punto nessuno sarà più in grado di affermare “Io non ho tradito”.

barbara

MI RICORDO

Mi ricordo un’intervista a Giorgio Perlasca sentita alla radio, tanti anni fa. La giornalista dice:
“So che lei è cattolico: è per questo che ha fatto quello che ha fatto?”
“No!” – un no che risuona secco come una frustata – “L’ho fatto perché sono un uomo”.

Non si potrebbe immaginare una risposta più bella: un UOMO. Ieri se n’è andato un altro UOMO, accomunato a Giorgio Perlasca dall’essere stato un UOMO quando troppo spesso l’umanità dimenticava di essere tale. Riposa in pace, grande Nicholas, e ti accompagni nell’eternità tutto il bene che hai fatto sulla terra.

barbara