LA LEGGENDA DELL’ISOLA FELICE PER GLI EBREI

Le leggende sono belle. Le leggende piacciono. Le leggende hanno successo. Perché? Perché sono più rassicuranti, o più gratificanti della realtà. Non è più piacevole pensare di poter guarire con una semplice imposizione delle mani invece di dover affrontare dolorosi interventi chirurgici e poi pesantissime terapie e poi magari ancora interventi? Non è più simpatica l’idea degli italiani brava gente della realtà che li vede direttamente responsabili della metà dei rastrellamenti e degli arresti che hanno portato i nostri ebrei nelle camere a gas? È per questo che le leggende nascono e fioriscono e prosperano resistendo, non di rado, anche alle documentate smentite che la Storia sbatte loro in faccia. Una di queste è quella relativa a tempi o luoghi in cui si sarebbe manifestato un islam meravigliosamente tollerante che avrebbe consentito una pacifica e armoniosa convivenza con cristiani ed ebrei, come in Spagna, per esempio. Quella che è invece salita in questi giorni all’onore delle cronache è la leggenda del Marocco, presentato praticamente come un nido d’amore per gli ebrei. Ma sarà davvero così che stanno le cose? Cominciamo col dare un’occhiata al passato:

–      700- intere comunità ebraiche vengono massacrate dal re Idris I del Marocco.

–      1033- Fez, Marocco: proclamata la caccia all’ebreo. 6000 ebrei massacrati.

–      1400- Pogrom in Marocco in seguito al quale si contano a Fez solo undici ebrei sopravvissuti.

–      1428- vengono creati i ghetti (mellah) in Marocco.

–      1790-92- distruzione delle comunità ebraiche in Marocco.

–      1912- pogrom a Fez.

Per i tempi più recenti, vediamo questo puntuale confronto fra leggenda e realtà:

Circa 400 anni fa, la comunità ebraica marocchina aveva stretto un forte legame e un’alleanza con la dinastia regnante del paese, gli Alauiti.
È una grossolana semplificazione. Il XIX secolo vide una grande ondata di emigrazione ebraica. I fattori di spinta includono la precarietà e degrado dello status di ‘dhimmi’ e la pressione per la conversione forzata all’Islam.

Nel XX secolo, le persecuzioni in Europa portarono in Marocco nuove ondate di immigrati ebrei che cercavano un rifugio sicuro. La loro speranza non fu stata vana — nel 1940, quando il governo francese in Marocco controllato dai nazisti emanò decreti antisemiti, il sultano alauita Mohammed V rifiutò le leggi razziste. In una storia spesso ripetuta, rifiutò di chiedere ai suoi sudditi ebrei di indossare le stelle gialle. “Non ci sono ebrei in Marocco,” avrebbe detto. “Ci sono solo sudditi.”
‘Ondate’ è un’esagerazione. E che dire dell’esistenza di campi di lavoro sul suolo marocchino in cui prigionieri ebrei venivano torturati a morte? La storia della ‘stella gialla’ è pura leggenda. È semplicemente falso che Mohammed V rifiutò le leggi razziali: egli ha firmato ogni decreto di Vichy.

Oggi in Marocco gli ebrei godono di pari diritti e privilegi. Uno dei consulenti anziani del re Mohammed VI, André Azoulay, è ebreo. Il Marocco ha anche scuole ebraiche finanziate dallo stato e corti religiose ebraiche.
André Azoulay è il capo consigliere PR del re ed è responsabile della creazione di articoli come questo.

Presso i tribunali ebraici, chiamati Bet Din, le cause civili sono sentite e giudicate dai rabbini. Il Bet Din del Marocco è l’unico Tribunale ebraico di questo genere fuori di Israele, ufficialmente riconosciuto come un corpo giuridico alternativo e ospitato all’interno del complesso stesso delle corti islamiche.
Falso: ‘Batei Din’ esistono ovunque ci sia una comunità ebraica.

Nonostante l’atmosfera tollerante, la popolazione ebraica del Marocco è in costante diminuzione. Sebbene gli ebrei marocchini siano in gran parte esenti dalla persecuzione e l’animosità che possono affrontare in altre nazioni musulmane, ci fu una serie di attentati suicidi il 16 maggio 2003 a Casablanca che presero di mira siti della vita ebraica e uccisero tre ebrei.
La diminuzione è non stata costante, ma piuttosto drammatica e ha preceduto gli attentati di Casablanca del 2003 di circa 50 anni.

Ebrei marocchini hanno continuato a fluire in Israele, Europa e nelle Americhe per motivi religiosi, paura di persecuzioni e per migliorare la loro situazione economica. Al suo apice nel 1940, la popolazione ebraica del Marocco superava le 250.000 presenze; oggi ne rimangono solo circa 4.000. La comunità ebraica ha per lo più abbandonato la sua un tempo vibrante esistenza in città marocchine come Tangeri, Fez, Salé e Tetouan. Solo la città di Casablanca mantiene una significativa popolazione ed è ora il centro della vita ebraica marocchina. Casablanca vanta 17 sinagoghe attive, tre scuole ebraiche, un vasto museo ebraico e un centro di comunità che si occupa dei malati e degli anziani. Ma le mellah (quartieri ebraici) di altre città marocchine sono rimaste vuote o destinate ad altri usi.
Una parvenza di verità, finalmente. (qui, traduzione mia)

A questa puntuale confutazione della leggenda del Marocco-isola felice, si può aggiungere un prezioso video di quasi un’ora e tre quarti in cui Georges Bensoussan, ebreo di origine marocchina, provvede non solo a confutare tale leggenda, ma anche a spiegarne le origini e la persistenza: una ragione è il fatto che i “testimoni” sono per lo più appartenenti alle classi superiori, che descrivono il PROPRIO mondo convinti che quello sia IL mondo; inoltre è facile che da vecchi si tenda a idealizzare i tempi della propria giovinezza, smussando, quando non addirittura reinventando, i propri ricordi. Ma la realtà – come raccontato a Bensoussan da Joseph Halevi – è che l’esperienza delle classi non privilegiate negli anni Quaranta era quella di un’ininterrotta sottomissione, di una ininterrotta violenza, di un ininterrotto arbitrio. Del resto analizzando il linguaggio politico arabo si trova che esso è tutto incentrato sul concetto di “diverso”, ossia chi non è musulmano, che deve essere schiacciato. Informa che i cinque Paesi in cui la vita degli ebrei era più drammatica erano la Romania, la Russia, la Persia, lo Yemen e il Marocco. Il motivo del silenzio dell’Occidente che si rifiuta di prendere atto che il mondo musulmano è razzista, antisemita, intollerante, oppressore, colonizzatore, brutale, violento è il senso di colpa derivante dal fatto che il mondo arabo è stato colonizzato, oppresso, e questo lo rende vittima in eterno. La conferenza si conclude con il racconto di un episodio: un uomo fa vedere al padre ottantenne di origine marocchina un film in cui numerosi ebrei marocchini raccontano della meravigliosa vita che si conduceva, tutta amore e armonia, una vera e propria età dell’oro. Fin dalla prima scena del film il padre ammutolisce, e il figlio pensa che sia per la commozione. Poi il film finisce e il figlio chiede: “Allora, papà?” E il padre grida: “Falso! Tutto falso!” A chi ha tempo e capisce il francese, suggerisco di vedere il video.

barbara

LIBERTÉ EGALITÉ FRATERNITÉ

Boom di attacchi antisemiti dopo Tolosa. Francia sotto choc

Giulio Meotti

Due giorni fa, vicino alla scuola ebraica Beth Menahem di Villeurbanne, un sobborgo di Lione, tre ebrei con la kippah sono stati aggrediti a sprangate al grido di “sporco ebreo”. I dieci aggressori sono stati poi identificati come maghrebini. Il premier francese, Jean-Marc Ayrault, ha parlato di emergenza antisemita. Nei giorni scorsi un ebreo di Villeurbanne era stato attaccato con proiettili di gomma da un’auto in corsa.
La Francia si risveglia sull’incubo Tolosa, dove lo scorso 19 marzo quattro ebrei (un rabbino e tre bambini) sono stati assassinati da un islamista, Mohammed Merah. Finora non si conosceva l’impatto che l’attentato aveva avuto sul tessuto comunitario francese. Adesso arrivano i dati, in accordo col ministero dell’Interno francese, diffusi dal Service de Protection de la Communauté Juive, l’organismo che gestisce la sicurezza della più grande comunità ebraica d’Europa. Soltanto nei dieci giorni successivi alla strage si sono registrati in Francia 90 attacchi antisemiti.
Nove al giorno. In totale, fra marzo e aprile, 148 attentati, 43 dei quali “gravi”. Oltre agli attacchi a sinagoghe, centri comunitari, cimiteri e scuole ebraiche, ci sono gli affronti che ogni giorno gli ebrei devono subire per strada, o a scuola. Jöel Mergui, presidente del concistoro delle comunità ebraiche, ha detto che “non passa settimana senza che ci siano attacchi antisemiti in Francia”. L’artista Ron Agam ha dato la colpa agli imam: “Le autorità francesi devono fermare il lavaggio del cervello di decine di migliaia di musulmani di Francia. E’ inaccettabile che questa cultura razzista e antisemita sia tollerata da un numero significativo di musulmani”.
Il rabbino capo di Lione, Richard Wertenschlag, dove è avvenuto l’attentato, ha definito la situazione “insostenibile”. Un mese fa, nel presentare il rapporto del Kantor Center for the Study of Contemporary European Jewry all’Università di Tel Aviv, il presidente del Consiglio ebraico europeo Moshe Kantor aveva detto che l’antisemitismo in Europa è una “bomba ad orologeria”, che si tratta di una vera e propria “esplosione” di odio e persecuzione e che “il conflitto mediorientale è stato esportato in Europa”. Il 42 per cento degli attacchi sono individuali, il 20 alle proprietà ebraiche, il 18 alle sinagoghe, il 14 ai cimiteri e l’8 alle scuole ebraiche. Fra le nazioni che spiccano per antisemitismo ci sono Francia e Inghilterra, che assieme al Canada, sono i paesi in cui hanno luogo ben il 63 per cento di tutte le aggressioni antiebraiche nel mondo.
Secondo il ministero per l’Immigrazione israeliano, duemila ebrei francesi ogni anno stanno abbandonando la Francia alla volta dello stato ebraico. Avi Zana, direttore dell’Ami, l’organizzazione che fornisce assistenza a chi lascia la Francia alla volta di Tel Aviv, ha detto che potrebbe innescarsi una “fuga di massa”. Daniel Ben-Simon, parlamentare alla Knesset, ha anche scritto un libro, “French Bite”, per raccontare come gli ebrei francesi non si sentano più al sicuro. Simbolo di questa emigrazione di massa sono le acquisizioni immobiliari compiute in Israele in questi anni dagli ebrei parigini e della Provenza. Schiere di villette e appartamenti vuoti e pronti in caso in Francia la situazione volga al peggio, come a Tolosa. Il maggiore immobiliarista di Tel Aviv, Yitzhak Touitou, allo Spiegel ha rivelato che “un terzo dei miei acquirenti sono francesi”.
Il giornale israeliano Jerusalem Post, citando statistiche governative, parla di un ventisei percento di ebrei francesi pronti a partire per lo stato ebraico, dove già vivono centomila cittadini con passaporto francese. L’ex rappresentante dell’Agenzia ebraica in Francia, Menahem Gourary, parla della partenza probabile di 30- 33.000 ebrei verso Israele. Considerando lo scenario post Tolosa, il numero potrebbe drammaticamente salire.
IL FOGLIO 07/06/2012

La Francia, già, la douce France. La Francia di Dreyfus, la Francia di Vichy, la Francia di Carpentras, la Francia della tecnologia e del materiale nucleare forniti a Saddam Hussein, la Francia in cui una studentessa ebrea viene aggredita dai compagni e condannata a pagare una multa stratosferica per avere denunciato l’aggressione (Ebrea aggredita deve pagare), la Francia di Ilan Halimi, la Francia delle sinagoghe incendiate, devastate, distrutte, degli ebrei aggrediti per strada – ma guai a chiamarlo antisemitismo. La Francia, sì.


barbara

BEATE KLARSFELD

Oggi rubo le parole a Giulio Meotti per rendere omaggio a una grande donna, che ha sempre suscitato la mia più grande ammirazione.

Quando le chiesero che lavoro faceva, Beate Klarsfeld rispose: “La casalinga”. Disse che si prendeva cura di “tre cani, due gatti, un marito e due figli”. La signora fino a domani, quando la Germania sceglierà il suo nuovo presidente, sarà per tutti “Fräulein Klarsfeld”. La celebre sicaria garantista è stata scelta infatti dal partito della sinistra radicale Die Linke come candidato a presidente della Repubblica federale. La Klarsfeld ha poche chance di vittoria contro l’ex pastore protestante Joachim Gauck, il dissidente della Ddr che può contare sull’appoggio tanto della maggioranza quanto dell’opposizione socialdemocratica e Verde. Franco-tedesca che ha trascorso tutta la vita a cercare di portare in giudizio gli ex criminali di guerra, di recente la Klarsfeld ha ricevuto la Legione d’onore da parte di Nicolas Sarkozy, mentre in Germania una richiesta, su istanza della Linke, del riconoscimento corrispondente, la croce d’onore, le è stata rifiutata senza spiegazioni dal ministero degli Esteri e dall’ufficio del presidente della Repubblica. In Germania la amano o la odiano. Molti le danno della “fanatica” e in Francia il quotidiano Le Monde l’ha appena accusata di essere parte della “estrema sinistra sarkozista”. La sua candidatura ha l’altissimo valore simbolico di un’iniziativa che rende onore a una autentica protagonista del Novecento. E’ l’epopea di una famiglia, Beate e Serge Klarsfeld, giuristi agguerriti, cacciatori di criminali di guerra e custodi ortodossi e oltranzisti della memoria. La storia pubblica di Beate inizia nel 1968, quando da ragazza scrive un pezzo sul giornale francese Combat per denunciare il passato nazista dell’allora cancelliere tedesco della Cdu, Kurt Georg Kiesinger. Per questo articolo Beate viene subito licenziata dall’ufficio franco-tedesco per la gioventù presso cui lavorava. Allora la ragazza, ventinovenne, prese posto sulla tribuna del Bundestag e urlò all’indirizzo di Kiesinger: “Nazista, nazista, nazista, dimettiti!”. Niente. Il 7 novembre del 1968 si reca al congresso della Cdu a Berlino e rifila uno schiaffone al cancelliere. Una fotografia immortala i suoi occhi di brace e lo sgomento di Kiesinger.

“Fu un gesto simbolico: i figli dei nazisti picchiano i loro padri”, dirà Beate nel 2006 a una radio tedesca. Lo schiaffo le costò un anno di carcere. A ulteriore giustificazione del suo gesto, Beate disse di non poter tollerare che uno dello stesso partito del criminale che aveva deportato il suocero ad Auschwitz fosse diventato cancelliere. Kiesinger alla fine non verrà rieletto e Beate ottenne il plauso di numerose personalità pubbliche. Heinrich Böll, premio Nobel per la Letteratura nel 1972, le spedì un mazzo di rose rosse. “Frau Klarsfeld, avrei voluto parlarle volentieri… quello che sta facendo è meraviglioso”, le lasciò detto sulla segreteria telefonica Marlene Dietrich. Per far adottare dalla Germania una legge più severa con gli ex ufficiali nazisti, Beate si farà persino arrestare dentro al campo di concentramento di Dachau. Rimase in cella tre settimane. Tre anni dopo tentò di rapire a Colonia l’ex capo della Gestapo di Parigi, Kurt Lischka, che lì viveva indisturbato. L’ex gerarca verrà processato per la deportazione di quarantamila ebrei dalla Francia. Beate aveva già trovato una macchina sportiva per portarselo in Francia, ma uno dei compagni, che doveva colpirlo alla testa, non ebbe il coraggio. Un fallimento. Ma tutti conobbero il passato di Lischka. E Beate fu arrestata. Per assicurare alla giustizia il nazista Alois Brunner, Beate è volata fino in Siria. Ma il più stretto collaboratore di Adolf Eichmann, noto anche come “la mano destra del diavolo”, le è sempre sfuggito. E’ accusato dello sterminio di 128.500 ebrei austriaci, greci, francesi e slovacchi. Brunner “l’ingegnere della soluzione finale”, ossessionato dallo sterminio degli ebrei al punto che nel 1985, intervistato dal magazine tedesco Bunte, affermò di “rimpiangere di aver lasciato il lavoro a metà”. La mattina del 5 dicembre 1991, il telefono squilla nella casa di Brunner in via George Haddad a Damasco. I servizi segreti siriani gli annunciano: “La Klarsfeld è arrivata a Damasco”. Brunner balbetta intimorito: “Non mi consegnerete a quella donna?”. Grazie sempre alla nota casalinga, Joseph Schwammberger, ufficiale delle SS responsabile dello sterminio di tremila ebrei polacchi, è finito in tribunale a Stoccarda. Beate Klarsfeld ha spartito con Simon Wiesenthal gli onori della caccia agli ex nazisti. Ma le loro biografie non potrebbero essere più diverse. Due cicatrici appena visibili sui polsi di Wiesenthal ricordavano che tentò il suicidio in uno dei dodici campi di sterminio da cui uscì vivo per miracolo. Lei, Beate, non è passata per l’Olocausto. E’ la figlia di un soldato della Wehrmacht. Non un’ebrea, ma una cristiana protestante. Fu nel 1960, quando venne a vivere in Francia e incontrò Serge, che sentì che la gioventù tedesca doveva assumere la responsabilità morale e storica dei campi di sterminio. Fu il marito, figlio di un deportato di Auschwitz, ad aprirle gli occhi. Si conobbero nella metro di Parigi. Aveva ventun anni. Da allora Beate ha fatto della caccia la ragione della sua vita. Una donna sempre pronta a generare scandalo per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Come quando si recò in piazza San Pietro tra gli ebrei che manifestavano contro la decisione di Giovanni Paolo II di ricevere il presidente austriaco Kurt Waldheim, bandito dagli Stati Uniti per il suo passato nell’esercito nazista. Beate voleva portare numerose bombolette di fumogeni in piazza. Ma causarono un piccolo incendio all’Hotel Columbus in via della Conciliazione, a due passi dal Vaticano. Beate ha pagato un caro prezzo per questa caccia al passato. Una volta le hanno messo una bomba in casa. Un’altra volta hanno fatto saltare la sua automobile. La rete televisiva Abc negli Stati Uniti ha realizzato un film su di lei, interpretato dall’ex “Charlie’s Angel” Farrah Fawcett. Nel 1998 ci fu l’apice delle imprese di Beate e Serge. Non portarono alla sbarra un ex gerarca tedesco come Klaus Barbie, ma un francese, un esponente di quella borghesia di provincia che spedì al massacro migliaia di ebrei e seppe riciclarsi con perfida maestria. E’ il caso Maurice Papon, segretario generale della prefettura della Gironda, fedele a Vichy, di cui anche il presidente Charles de Gaulle nel 1968 disse: “E’ uno serio, una brava persona”. I Klarsfeld riuscirono a trasformare il caso nel processo alla Francia collaborazionista. Papon fu infatti l’unico responsabile del regime di Vichy a essere stato condannato per lo sterminio degli ebrei. Storica la sentenza della Corte di assise di Bordeaux, il 2 aprile 1998: “Complicità in crimini contro l’umanità”. Gli varrà l’etichetta di “boia di Vichy”, perché tra il 1942 e il 1944 Papon mandò a morire oltre 1.500 ebrei, anziani e bambini, prelevati minuziosamente da sanatori, case di riposo, ospedali. Poi i Klarsfeld costruiscono l’accusa contro Paul Touvier, il capo della milizia di Lione. I coniugi passano anni a mettere su una azione legale credibile. E alla fine i capi d’accusa parlano da soli: l’attentato contro la sinagoga di Lione nel 1943; l’assassinio di Victor Basch, il presidente della Lega francese dei diritti dell’uomo, sempre nel 1943; la complicità nell’uccisione di sette ostaggi ebrei a Rillieux, nel 1944.Touvier gode della protezione di monsignor Duquaire, il segretario particolare dell’arcivescovo di Lione. Sarà Georges Pompidou, nel 1971, a firmare la sua grazia in contumacia. Scoppia lo scandalo. La notizia suscita la reazione delle comunità ebraiche. I Klarsfeld lo scovano, nel 1989, a Nizza, in un convento di sacerdoti cattolici integralisti, sotto falso nome: Paul Lacroix. Se Beate è una donna d’azione, il marito Serge è un intellettuale che ha trascorso molti anni a scrivere i sei volumi della storia dei bambini ebrei di Francia uccisi nell’Olocausto. Un libro sconvolgente, che ricostruisce minuziosamente la storia di ognuna delle giovanissime vittime con corredo di fotografia e di dati anagrafici, ma soprattutto è un libro con cui Klarsfeld ha riaperto la polemica con il presidente François Mitterrand a proposito delle responsabilità del regime di Vichy e della figura di René Bousquet, che della polizia di Vichy fu il capo, e con il quale Mitterrand ha intrattenuto per molti anni rapporti di amicizia. “Mai, nella storia di Francia, si erano martirizzati dei bambini per non scontentare i vincitori”. Klarsfeld se la prese con Elie Wiesel a causa di “Mémoire à deux voix”, il libro in cui Mitterrand dialoga con il premio Nobel ex deportato e si sofferma sull’amicizia con Bousquet. “Wiesel si comporta come se il soldato Mitterrand fosse passato dalla prigionia in Germania alla Resistenza”, disse Klarsfeld. “Un Wiesel nei panni del cortigiano. Rimprovera a Mitterrand quell’amicizia con Bousquet ma non gli ricorda: signor Mitterrand, nel 1942 e anche nel 1943, lei era petainista e, in seguito, ha avuto Bousquet come amico”. Contro l’oblio della memoria i Klarsfeld hanno rinvenuto lo schedario di tutti gli ebrei residenti in Francia all’epoca dell’occupazione nazista. Due anni fa arriva un altro successo. Dalla ex stazione dei treni di Bobigny, nella periferia di Parigi, più di 20.000 ebrei furono deportati verso i campi della morte tra il 1943 e il 1944, senza mai fare ritorno. I Klarsfeld hanno costretto i capi della Sncf, la società ferroviaria francese, a riconoscere le loro responsabilità nelle deportazioni naziste. Grazie a loro il mea culpa del presidente della Sncf, Guillaume Pepy, è diventato inevitabile. Un anno fa i Klarsfeld hanno protestato contro la decisione di includere Louis-Ferdinand Céline, l’autore del celebre “Viaggio al termine della notte” ma anche noto per i suoi pamphlet antisemiti, nella raccolta delle Celebrazioni nazionali del 2011 edita dal ministero della Cultura. Klarsfeld ha chiesto “il ritiro immediato di questa raccolta e la soppressione delle pagine dedicate a Céline nella prossima riedizione”. “Il ministro Frédéric Mitterrand deve rinunciare a portare i fiori in memoria di Céline, così come suo zio, l’ex presidente François Mitterrand, fu obbligato a non deporre più corone di fiori sulla tomba di Petain” (il maresciallo capo del regime francese collaborazionista). E ancora: “Il talento di scrittore non deve fare dimenticare l’uomo che lanciava appelli alla morte degli ebrei sotto l’Occupazione. Che la Repubblica lo celebri è indegno. Bisogna attendere secoli, e non solo cinquant’anni, perché si possano commemorare allo stesso tempo le vittime e i loro carnefici”. Alla fine, Klarsfeld ha la meglio e Céline viene cassato dalle celebrazioni, nonostante il presidente Sarkozy avesse detto a favore dello scrittore collaborazionista: “Si può amare Céline senza essere antisemiti, come si può leggere Proust senza essere omosessuali”. Storica è la militanza pro Israele della famiglia. Nel 1967, allo scoppio della guerra dei Sei giorni, Serge parte volontario per Israele, dove serve come corrispondente militare sulle alture del Golan. Nel 1970 Beate vola a Varsavia, per protestare contro il processo intentato agli “ebrei sionisti”. Si incatena a un albero della capitale polacca e distribuisce volantini contro il regime comunista antisemita. Viene arrestata ed espulsa. Un anno dopo parte per Praga, dove è in corso un altro processo a militanti ebrei. Golda Meir, da primo ministro d’Israele, le ha conferito la medaglia della “Donna di valore”. I coniugi Klarsfeld hanno attaccato l’Europa che “fa concessioni al mondo arabo ed è pronta a sacrificare diplomaticamente Israele”. Serge è stato uno dei pochissimi intellettuali pubblici di Francia a sostenere la guerra in Iraq. Nel 1974 Beate fu l’unica occidentale a prendere un aereo per Damasco e protestare contro il trattamento riservato dai siriani ai prigionieri di guerra israeliani. “Non lasciamo che i crimini della Germania di Hitler vengano usati come modello dal mondo arabo”, recitava un appello di Beate pubblicato dai giornali dell’epoca. Nel 1975 vola al Cairo, per denunciare Hans Schirmer, allora a capo del programma euro-arabo ma che prima aveva servito nell’ufficio di propaganda nazista. Tre anni dopo, il primo ministro israeliano Menachem Begin e il ministro degli Esteri Abba Eban la nominano invano per il premio Nobel della Pace. Nel 1979 Beate è a Teheran, per protestare contro l’esecuzione di Habib Elghanian, leader della comunità ebraica iraniana. La troviamo poco dopo a Beirut, dove si offre prigioniera in cambio di cinque ebrei libanesi tenuti in ostaggio dai terroristi sciiti. Nel 1988 Beate venne espulsa dall’Algeria, dove era andata per manifestare contro il vertice arabo. Voleva presentarsi con uno striscione: “Il pieno e completo riconoscimento dello stato di Israele è il primo passo verso la pace”. Nel 2004 Serge generò un altro scandalo in Francia suggerendo agli ebrei di emigrare in Israele. C’era fin troppo antisemitismo a Parigi. Anche il figlio, Arno Klarsfeld, ha speso parte della sua carriera di avvocato alla ricerca dei criminali di guerra. Quasi tutti se lo ricordano puntare il dito come difensore delle parti civili contro Papon. Poi alla soglia dei quarant’anni, Arno Klarsfeld ha indossato la divisa color oliva dell’esercito israeliano. Disse di essersi “sentito aggredito dalla politica estera della Francia, che compra la sua sicurezza a breve termine dalle organizzazioni terroristiche che oggi non hanno alcun interesse a colpire un paese che si oppone a Israele e agli Stati Uniti”. La scintilla scattò a qualche metro dal Mike’s Place di Tel Aviv, dove un kamikaze palestinese si è fatto saltare in aria provocando una strage. Quei corpi carbonizzati, resti umani abbandonati sull’asfalto, gli hanno dato l’ultima spinta verso l’arruolamento: è diventato soldato di Tsahal per combattere le organizzazioni terroristiche che seminano morte in Israele.

A La Paz, in Bolivia, Beate si è incatenata a un albero per protestare contro la mancata estradizione di Klaus Barbie. Nel 1985 la rivista americana Life rivelò il piano dei coniugi Klarsfeld, di fronte alla mancata estradizione, per assassinare il “boia di Lione”. Alla fine riescono a farlo estradare e Barbie viene condannato all’ergastolo per lo sterminio di migliaia di persone nelle camere a gas (come i cinquanta bambini ebrei razziati nella colonia di Izieu). Klarsfeld sa che i criminali di guerra non pagano mai abbastanza. Franz Nowak, responsabile dei treni della morte che trasportarono un milione di ebrei nelle camere a gas, ha scontato sei anni di galera. Tre minuti per ogni vittima. Ma catturarli ne è valsa comunque la pena. A giustificazione del suo lavoro di cacciatrice, Beate ha detto: “Non hanno il diritto di morire in pace nei loro letti”.

Non ho parole da aggiungere a questo splendido ritratto, tranne un immenso GRAZIE a questa grande donna per la sua infaticabile opera, per la sua determinazione, per il suo coraggio.  


barbara