a chiara ferragni. Desidero precisare preliminarmente – per non rischiare che qualcuno si addentri nella lettura senza sapere che cosa vi troverà e si ritrovi poi in preda a crampi allo stomaco – che questo essere che ho grosse difficoltà a definire umano e una pressoché totale impossibilità a qualificare come donna, questo essere che pubblica i selfie con le mutande trasparenti fino a un millimetro dal clitoride,

con le tette al vento

o con roba come questa

(e una ha commentato: “e la fessa dove la metto?”), questo essere che prostituisce i figli fin da prima che nascano sfruttando ogni attimo della loro vita per i propri sordidi interessi, questo essere la cui faccia ha un’espressività in confronto alla quale la maschera di Anonymous batte in volata Sarah Bernhardt, Eleonora Duse e Paola Borboni messe insieme,


(si vede la spontaneità e la sincerità del sorriso, vero?)

(qui non c’è il filtro, e la pelle da ottantenne non lascia scampo)
questo essere i cui contenuti se li metti in un ditale resta ancora spazio da infilarci dentro un baule e un paio di valigie e forse anche un frigorifero, questo essere, dicevo, mi fa schifo. Schifo nel senso più letterale del termine, schifo come mi fa schifo il vomito, schifo come mi fa schifo la merda di diarrea che puzza di marcio, schifo come mi fa schifo mordere una mela e trovarmi il verme in bocca.
Ho provato ad ascoltare il “monologo”, giusto per farmi un’idea, o meglio, per vedere se confermava il nulla che è o se per una volta nella vita riusciva a tirare fuori qualcosa non dico di interessante, non dico di intelligente, non dico di un qualche valore, ma almeno di umano. Non ci è riuscita, o meglio non è neppure nelle sue possibilità provarci, perché di ciò che va al di là di “io io io io io” ignora l’esistenza. Io comunque ho resistito un paio di minuti, di più proprio non era possibile. Sono invece riuscita a leggere interamente, nonostante la lunghezza – d’altra parte le cose da dire erano effettivamente molte – due pezzi che lo meritavano. Il primo è d Selvaggia Lucarelli, non di rado stronza anche lei la sua buona dose, e anche lei con la faccia un bel po’ rifatta, ma a differenza dell’altra un cervello ce l’ha ed è in grado di esprimersi in un italiano decente. Anzi, possiamo anche limitarci a dire “capace di esprimersi”. Ecco il pezzo.
Quando mi hanno detto -molto prima che lo dichiarasse- che il monologo Chiara Ferragni se lo sarebbe scritta da sola (cioè col suo manager, che poi è la stessa cosa), ho avuto la conferma di quello che ho sempre pensato di lei: ha un orizzonte emotivo, professionale e culturale che non va oltre le sue ciabatte Gucci. Non conoscendo nulla del mondo, non avendo interessi o curiosità che non siano se stessa e l’immagine di se stessa che arriva agli altri, non è abbastanza modesta e consapevole da comprendere i suoi limiti e i margini di miglioramento. Ferragni pensa di non aver bisogno di nessuno se non del suo cerchio magico, abitudine tipica di chiunque miri a conservare il suo status circondandosi di adulatori e parenti, e tenendo lontano chiunque provi a dire “forse su questo puoi lavorare”. Il monologo gliel’ha scritto un uomo-manager-stylist- ghostwriter e ormai qualunque cosa, le amiche più fidate sono le sorelle e la madre, il suo scudo mediatico è la stampa amica e ormai uno stuolo di influencer al suo servizio in cambio di elemosina.
Perché forse negli ultimi tempi i più ingenui si sono bevuti la manfrina furba sulle sue paure e sulle fragilità tatuate sulla pelle, ma non è vero che Chiara Ferragni è insicura. Non ha paura di non essere abbastanza, ha paura di fallire, che è un’altra cosa. Il suo non è un problema con se stessa- lei si piace moltissimo- è un problema con l’eventuale dissenso del pubblico. Come tutti i narcisisti patologici ha un’enorme paura di essere smascherata. Da qui il suo terrore, di sempre, delle interviste, perché lei- maniaca del controllo- è l’unica narratrice di se stessa, e assistendo ieri alla conferenza stampa che l’ha costretta per una volta a rispondere con parole anziché con i selfie, viene anche facile capire il perché. Tra “Un uomo non deve farci sentire da meno”, la mancata comprensione di semplici domande e una povertà lessicale che nemmeno il concorrente tipo di Temptation Island, la sensazione era quella di vedere il re, anzi, la regina nuda per la prima volta. Tant’è che le sue nudità sul palco non hanno impressionato nessuno. La Chiara senza vestiti era quella che rispondeva ai giornalisti, non quella in un insolitamente brutto abito Dior.
E veniamo alla serata di ieri.
Con quel monologo cringe che creava un imbarazzo nell’ascolto simile a quello di quando sentiamo i genitori che si accoppiano nella loro camera da letto, non parlava alla sua bambina interiore (magari) ma all’adulta fighissima che pensa di essere. Mentre scomodava tutti i problemi del mondo per posizionarsi come ragazza impegnata- mica solo moda e frivolezze- e snocciolava sessismo, hating, maternità, normalizzazione di non so che, bodyshaming, il problema delle falde acquifere tra le fondamenta, la dermatite squamosa e insomma, mancava solo la fame nel mondo ma solo perché madre e sorelle si stavano scofanando di hamburger per adv, alla fine ti chiedevi: vabbè ma quindi che ha detto?
In effetti nulla. Non c’era un vero focus, perché il focus era dire fintamente a se stessa -bambina quanto è figa, ricca, con una bella famiglia, sexy, brava madre e dirlo in realtà al pubblico, auto-assolvendosi da qualunque possibile colpa, limite, lacuna, dando l’idea di aver superato ostacoli e combattuto contro mostri e nemici.
In realtà, si tratta di una ragazza di Cremona nata bella [vabbè, questione di opinioni:

giusto per capirci], da famiglia agiata in una ricca cittadina di provincia del nord Italia, ma Chiara Ferragni è un’idrovora 2.0 e i posizionamenti li vuole tutti.
Ha arraffato quello delle mamme 2.0 che postano 24 ore su 24 la vita dei figli, quello delle influencer audaci e mezze nude alla Ratajkowski, quello (ormai antico) della influencer di moda, quello della brava ragazza sempre con mamma e sorelle, quello delle milionarie annoiate che esibiscono case e automobili, quello di chi sbatte in faccia il privilegio 24 ore su 24. Quando ha capito, da un paio di anni a questa parte, che iniziavano a farsi strada influencer di peso con altri posizionamenti lontanissimi da lei, influencer che parlavano di femminismo, violenza sulle donne e malattie, ha deciso che oltre ad esser la massima rappresentante del privilegio, doveva essere anche quella della sfiga, della bontà, della fragilità, della solidarietà femminile, della cultura del femminismo.
Del resto, l’ha detto molto chiaramente: fino a due anni fa lei che di anni ne ha 35 mica 18, non aveva mai sentito parlare di violenza psicologica, poi un giorno ne ha letto in qualche slide su Instagram. Cioè, non ha mai letto non dico un libro sul tema, ma un articolo di giornale, non ha mai visto mezza puntata di Amore criminale, non ha mai frequentato nessuno che gliene parlasse. Una roba spaventosa [se è per quello non ha neanche mai sentito nominare l’Olocausto, se dopo avere incontrato la Segre ha potuto dire che “la sua storia mi ha molto colpita”: essendo, la storia della Segre, identica a quella di milioni di persone, a molti milioni delle quali è andata molto peggio, evidentemente non aveva mai sentito parlare della questione]. E quindi improvvisamente inizia a “parlare” un po’ a caso di donne, violenza, fragilità, hater, aborto con la profondità, appunto, di una slide su Instagram, senza mai andare oltre le due righe d’ordinanza della serie viva le donne viva il femminismo, il cachet in beneficenza e tanti cari saluti, ora sono pure attivista 2.0, femminista digitale, Carlotte Vagnoli scanzatevi.
Questo ha profondamente destabilizzato quel mondo che da una parte è ben consapevole dell’operazione scalcagnata e furba di Piccola Kiara, dall’altra se provi a mettere in dubbio la purezza dell’imprenditrice digitale sei brutta e invidiosa e quindi si arriva allo stallo alla messicana di ieri sera, in cui i “brava” sono stati pochini e soprattutto da uomini tranquillizzati dall’innocuità del monologo. Le attiviste- più o meno tutte- tacciono imbarazzate. Perché Chiara-l’idrovora 2.0 s’è acchiappata pure la loro casella. (ora diranno che non ci sono caselle blabla, sì ci sono)
Ed è stato chiaro quando Amadeus ha chiamato sul palco le rappresentanti di “Dire” presentandole per nome come fossero state sue amiche del liceo e Chiara Ferragni ha taciuto come se sentire delle professioniste chiamate col nome di battesimo fosse normale. Non accorgendosi neppure di quanto fosse stonato quel momento rispetto a quello che lei vorrebbe trasformare in una SUA battaglia.
Tutto questo accadeva mentre afferrava pure il posizionamento tv-delle famiglie, che davvero è l’unico che le mancava e che, ahimè, richiede quel “fattore x” che milioni di follower non possono comprare. No, la tv non è il suo mestiere, non c’è carisma, non c’è manco un accento giusto per sbaglio, non c’è un volto che buca. Ma questo conta poco, forse è vero, su quel palco abbiamo visto anche di peggio.
La cosa seria è che ieri, in quella operazione, non c’era uno straccio di pensiero femminista. Era tutto immensamente egoriferito e pensato principalmente con due scopi: per far parlare (la scritta sullo scialle da far diventare un meme, il vestitino fesso con le scritte degli hater, l’abito con le tette disegnate) e per proteggerla il più possibile dalle critiche (dì che hai paura anzi, fai di più, porta la BAMBINA che eri sul palco e non ti colpiranno).
Ed è così che il suo artefatto manifesto del femminismo si è trasformato nell’operazione più anti-femminista che si potesse partorire.
Quella “nudità” rimetteva il corpo al centro del dibattito e quella fragilità ribadita ogni due secondi con la vocina da bambina lagnosa l’ha messa al centro di una insopportabile nenia paternalistica tra conduttori che continuavano a rassicurarla dicendole “brava”, anche un po’ sorpresi dal fatto che conoscesse i verbi come fosse una bambina scema e “critiche” di giornalisti che “vabbè dai è spigliata”, “pensavo peggio”, “se la cava”. Che voglio dire, devi leggere un cartoncino sul palco a 35 anni, peggio che usare l’intonazione da sciura borghese dei Bagni misteriosi e non azzeccare una vocale aperta e chiusa, cosa doveva fare?
Vomitare?
Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che fragilità non è usare la fragilità per costruire uno scudo per le critiche e fottersi pure- tu, privilegiata- lo spazio della (vera) fragilità altrui, ma di fronte ai Ferragnez sono tutti così genuflessi che è inutile cercare di spiegare qualcosa che sia oltre “si è tagliata i capelli”.
Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che femminismo non è quel ruolo da topolino bagnato che “insegnatemi!”, “ho paura!” accanto ai due uomini che sono papà e maestri. Che femminismo non è quei 7 minuti di parole buttate a caso, vuote, con i post scritti sui vestiti anziché su Instagram.
E taccio sul momento Shakira- perché anche quel posizionamento lì doveva prendersi, quello della donna che lancia la frecciata cattiva all’ex in mondovisione- e “non mi hai creato tu” rivolto al povero Pozzoli che si fa beatamente i fatti suoi. Perché lei è una di noi, non dimenticate anche lei ha l’ex che le ha fatto male (cosa le manca? Forse solo la povertà. Poi?)
In effetti, qui ha ragione, nessuno ha creato e crea Chiara Ferragni. Chiara Ferragni- e qui sta il problema- non lascia a nessuno la possibilità di creare nulla che non sia ciò che lei vede di sé e pretende da sé. Partorisce se stessa continuamente, sempre uguale ma con una maschera diversa a seconda dell’algoritmo del momento, figlia del suo ego perennemente gravido. Il tutto scambiando l’egolatria per autodeterminazione. Eppure le basterebbe poco, per essere davvero protagonista di una rivoluzione, era perfino sulla strada giusta. Se solo avesse capito che la moda non è frivolezza e che poteva occuparsene con una profondità maggiore che producendo brutte, costose borsette con occhi stilizzati che finiscono in televendite con bambini adultizzati, forse oggi si troverebbe appagata in quel ruolo da leader.
Se solo nella vita avesse capito che la moda è un mondo pieno di significati e la puoi raccontare anziché fare selfie dalla stanza guardaroba; che essere una donna indipendente, che si è fatta da sé, che diventare imprenditrice digitale di successo è già di per sé un manifesto di emancipazione senza doverlo eroicizzare con sfighe, fragilità e ostacoli, forse ieri ci avrebbe risparmiato quel monologo.
Se solo avesse capito che la sua ambizione, la sua fortuna e pure la sua (non comune) capacità di governarla erano cose preziose da raccontare su quel palco, ieri avremmo visto un’altra Chiara. Quella adulta che parlava a noi, non quella inquietante che parlava all’invisibile gemellina di Shining.
Anzi, dirò di più. Ieri l’avrei preferita senza lezioncine e spiegazioni, con abiti portatori di figaggine e non quella galleria di vestiti scialbi, ornati di inutili, ridondanti messaggi del cazzo.
Ridateci la Chiara privilegiata che ci sbatte in faccia la sua ricchezza e il suo narcisismo sfrontato senza voler sembrare la piccola fiammiferaia.
Quello, a suo modo, era pensarsi libera.
Ora è piena di catene e il bello è che se l’è messe da sola. (Qui)
Io per la verità questa fiducia nelle sue possibilità di essere qualcosa di diverso dall’oca giuliva che è, non ce l’ho, ma qui è questione di punti di vista.
L’altro articolo è quello che segue. La strabocchevole quantità di termini inglesi disturba non poco, come fa notare lui, tuttavia, a differenza di lui, io lo trovo interessante.
Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo
In evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, ha compiuto il gesto estremo ed è salita sul palco di Sanremo: ma non è andata benissimo.
Chiara Ferragni partecipa a Sanremo non all’apice del suo successo. Lo dicono le metriche social, lo dice l’engagement; la sua massa di follower è stabile sui 34,6 milioni tra Instagram e TikTok, ma Khaby Lame ne ha 234,4 milioni, ammassati in meno di due anni. Durante la prima serata di Sanremo, Chiara Ferragni viene citata in 55mila contenuti online, ma Blanco arriva agilmente a 150mila. Tra i top hashtag #chiaraferragni si ferma al decimo posto. Webboh, termometro di cosa interessa alla generazione Z, dedica la prima card del dopo-Sanremo sempre a Blanco. Chiara Ferragni ha fatto di sé stessa un content e in quanto tale vale solo quanto riesce a stare sulla cresta dell’hype. È il motivo per cui alla fine ha accettato di andare a Sanremo; a differenza di quando era ancora solo una fashion blogger, adesso la concorrenza è aumentata esponenzialmente, Instagram sta perdendo la battaglia contro TikTok, e l’algoritmo comunista di TikTok le è meno amico. Rimanere in hype è un lavorio giornaliero: gli influencer ragionano per content, frammentano le loro vite, le spezzettano e le riadattano ai formati, alle challenge, alla musica virale del momento; poi tutto viene portato in dono al dio algoritmo, che decide a chi tocca il jet privato e i viaggi pagati a Dubai, e a chi no. Chiara Ferragni è stata tra i primi in Italia a concepire la vita interamente come content, tra l’altro con grande successo avendo il dono naturale della viralità. Dono che si manifesta curiosamente molto più di frequente nei corpi di giovani fanciulle dall’aspetto virginale, meglio se bionde, con occhi azzurri e fisico longilineo. Chiara Ferragni, devota ancella dell’algoritmo, ha da sempre dato tutto di sé: la sua quotidianità, le sue relazioni, la famiglia, le sorelle, il cane, il matrimonio, i figli. Donando tutto di sé stessa, ha preteso e ricevuto in cambio moltissimo ma non ha mai accettato e neanche capito i commenti non adoranti. L’unico commento possibile è come quello che le lascia la mamma a ogni post: «Bravissima e bellissima, amore mio!». Ultimamente invece, oltre al calo dai dati, ha dovuto vedersela con critiche molto più specifiche e ragionate, queste non cucite sul vestito a differenza di «hai le tette piccole»: la beneficenza performativa, il dibattito sul diritto alla privacy dei bambini usati come leve per l’engagement.
La Ferragni finché ha potuto ha mutato forma come muta forma continuamente il mondo virtuale. Prima erano le giovani Millennial che la seguivano, trovando in lei un modello di ragazza che fugge dalla provincia e finisce a Los Angeles. Il periodo losangelino della Ferragni è quello che preferisce ricordare di meno: diventa più magra, scurisce i capelli, segue i consigli del fidanzato americano, fotografo bello e tenebroso, probabilmente quello che le ha fatto “violenza psicologica”, probabilmente quello che le ha fatto notare che Hollywood non è CityLife e se vuole avere successo lì, il sacrificio richiesto è ancora più alto. A Los Angeles, Chiara soffre di solitudine, non ha vicino quella rete familiare che a Milano la sostiene; i brand che ama continuano a snobbarla, le Chanel dovrà continuare a comprarsele da sola, si imbuca ai party di Louis Vuitton sognando di diventare il volto del brand, cosa che non succederà. Torna in Italia e arriva il raggio di luce alla fine del tunnel: Fedez. Si fondono e diventano entità unica, i Ferragnez, si scambiano gli anelli e uniscono l’engagement, raggiungendo il picco massimo con il matrimonio e poi con la prima gravidanza. Raggiunta la cima, inizia la discesa: la condivisione minuto per minuto della crescita del feto porta tanti follower a smettere di seguire l’influencer. La documentazione sistematica della vita del figlio mette ansia: Leone Lucia Ferragni fa parte di quei bambini online di cui puoi riavvolgere e rivedere in un attimo la sua vita scrollando all’indietro i feed dei genitori. Oggi a seguire la Ferragni sono rimaste ancora alcune ragazze di provincia alla ricerca di visibilità, ma locale più che internazionale. Le borse brandizzate Chiara Ferragni non vanno a ruba a Rodeo Drive ma da Monelli Kids. Il nuovo pubblico della Ferragni sembra fatto soprattutto di audience mature, di nonni lontani fisicamente dai propri nipotini, o desiderosi di nipotini che non avranno, che trovano un palliativo nella relazione parasociale con Leone e Vittoria. I figli diventano il perno centrale del piano editoriale. Gli unici altri momenti in cui i numeri salgono di nuovo è quando posta foto in intimo. Gli influencer ricordano i prescelti aztechi: esseri umani, spesso fanciulle vergini, che per puro caso o per volere degli dèi (a seconda del punto di vista), godono dell’onore di sacrificare la loro vita per il bene collettivo, acclamati e compatiti dal popolo che li guarda rotolare sanguinanti dai gradoni della piramide.
Così una Chiara Ferragni in evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, compie il gesto estremo e sale sul palco di Sanremo. Sa che può cadere ma un po’ ci spera: fa hype. Prepara però i suoi follower con una sfilza di stories in cui si dice nervosissima, mette le mani avanti e si scusa preventivamente: la ricerca perenne d’approvazione è il suo problema, se lo porta dall’infanzia e non l’ha mai veramente superato. Sale sul palco e sa cosa deve fare: applicare metodicamente la formula dell’indignazione. Un finto dilemma da commentare (le critiche a un corpo bellissimo [corpo bellissimo?

Ma veramente veramente?] e conforme a tutte le regole del mondo dello spettacolo), la buona causa per cui spendersi (contro la violenza sulle donne), il vestito che fa da base per i meme. Provoca in attesa della risposta, e se la risposta è negativa tanto meglio (fa hype). Durante il monologo cerca di piangere ma non le riesce,

a differenza di Meghan Markle al funerale della Regina (una lacrima sola, dall’occhio sinistro). Il monologo, una lettera a sé stessa, è tremendo. Pessimo. «Sembra scritto da ChatGPT», è il commento più gentile che si legge su Twitter. I vestiti, che lei indossa al suo solito modo cioè facendo sembrare fast fashion made in Internet l’haute couture, sono certamente migliori del monologo. Quando compare sul palco con l’outfit, in contemporanea il suo team posta su Instagram le foto e una spiegazione sul perché di quell’outfit. Ad esempio, il vestito con le frasi degli hater ricamate sopra è un invito a «fregarsene delle frasi sessiste». Eppure, leggendo «Photoshop, il culo vero è FLACCIDO» ricamato con «filo nero su un peplo bianco», non ho potuto fare a meno di pensare a Saman Abbas, a cui i parenti hanno spezzato il collo perché voleva sentirsi libera. Leggendo «Perché non ti rifai il seno», non ho potuto fare a meno di pensare a Tiziana Cantone che si è impiccata con una sciarpa intorno al collo, perché non era un’influencer, e non aveva un team social, e nulla poteva salvarla contro il linciaggio online. Hai la possibilità di salire su un palco incredibile e dire cose importanti, e l’unica cosa che fai è una patetica rivalsa contro sconosciuti di Internet che in massa hanno contribuito al tuo successo, di seni piccoli e culi flaccidi, come se fosse quella la violenza reale e non un cruccio da privilegiata. Con tanto di velata minaccia agli hater futuri (vi metterò sulla gogna mentre faccio il fitcheck, i miei devoti vi linceranno), e soprattutto alle donne che non possono odiarsi liberamente come fanno gli uomini tra di loro, ma devono sottostare al ricatto della sorellanza. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, ma qualcuno può manifestarlo più liberamente: tra Bellissima Costituzione e algoritmo, vince l’algoritmo. E un’ancella dell’algoritmo porta a compimento il suo unico dovere: nutrirlo con sé stessa come content, senza altro significato.
Laura Fontana, qui.
D’altra parte da una che sceglie di passare la vita di fianco a un essere come questo,


cosa ti puoi aspettare? E magari sarà anche il caso di ricordare che prima che si rifacesse naso labbra zigomi sopracciglia (e avrei qualche sospetto anche sul mento) era così

E a proposito del recitare un pezzo sul tema della violenza sulle donne, lo fa anche questa tizia qui, che non è un’attrice professionista, ma forse una qualche idea di che cosa sta parlando, lei, ce l’ha:
Poi magari ci sarebbe da parlare anche di quel pezzo di merda a cui l’Italia ha dato soldi, fama e carriera, che da mesi va in giro a piagnucolare che gli italiani sono tutti razzisti e che non metterebbe mai al mondo un figlio in Italia affinché non debba vivere anche lui l’inferno che ha conosciuto lei (una volta le hanno perfino servito il caffè freddo), ma ci sono limiti alla merda che sono in grado di manipolare, e quindi rinuncio e mi fermo qui.
barbara