ERANO RAGAZZI IN BARCA

La barca è quella del canottaggio; i ragazzi sono quelli che, sfida vinta dopo sfida vinta, finiscono per approdare a Berlino, nel ’36. Che cos’è che fa di questo libro un libro eccezionale? Pagine come questa, per esempio

Il canottaggio agonistico è un’impresa di straordinaria bellezza preceduta da un crudele castigo. A differenza di molti sport che si concentrano su specifici gruppi muscolari, il canottaggio fa un uso massiccio e reiterato praticamente di ogni muscolo del corpo, anche se un rematore, per dirla con Al Ulbrickson, «si dimena sulla sua appendice posteriore». E il canottaggio impone questi sforzi muscolari non a intervalli saltuari ma in rapida sequenza, per un periodo di tempo prolungato, ripetutamente e senza tregua. Una volta, dopo aver guardato allenarsi le matricole della Washington, Royal Brougham del «Seattle Post-lntelligencer» si meravigliò di quanto fosse implacabile questo sport: «Nessuno chiede mai il time out in una gara di canottaggio» osservò. «Non c’è un posto dove fermarsi per bere un’appagante sorsata d’acqua o prendere una boccata d’aria fresca e corroborante. Devi tenere sempre gli occhi fissi sul collo rosso e sudato del compagno davanti a te e vogare finché ti dicono che è finita.  Ragazzi, non è uno sport per rammolliti.»
Durante la voga, i principali muscoli di braccia, gambe e schiena – in particolare quadricipiti, tricipiti, bicipiti, deltoidi, grandi dorsali, addominali, ischiocrurali e glutei – svolgono gran parte del lavoro più duro, spingendo in avanti la barca contro la resistenza implacabile di acqua e vento. Al tempo stesso, svariati muscoli più piccoli del collo, dei polsi, delle mani e perfino dei piedi sincronizzano in continuazione gli sforzi del corpo, garantendogli un bilanciamento costante per assicurare il delicato equilibrio necessario a mantenere stabile un’imbarcazione larga 60 centimetri, pressappoco quanto il girovita di un uomo. Il risultato di tutto questo sforzo muscolare, in grande e in piccolo, è che il corpo brucia calorie e consuma ossigeno a un ritmo che non ha eguali quasi in nessun’altra attività umana. Per l’esattezza, i fisiologi hanno calcolato che una gara di canottaggio di 2000 metri – lo standard olimpico – richiede lo stesso costo fisiologico di giocare due partite di basket consecutive. E lo richiede in circa sei minuti.
Un vogatore o una vogatrice in buone condizioni che gareggia ai massimi livelli deve essere in grado di incamerare e consumare fino a 8 litri di ossigeno al minuto; un uomo medio è in grado di incamerarne dai 4 ai 5 litri al massimo. In proporzione, i vogatori olimpici possono incamerare e processare tanto ossigeno quanto un purosangue da corsa. Va precisato che questo straordinario apporto di ossigeno è utile fino a un certo punto. Mentre il 75-80 percento dell’energia prodotta da un vogatore in una gara sui 2000 metri è energia aerobica alimentata dall’ossigeno, tutte le gare cominciano, e di solito terminano, con sprint durissimi. Questi scatti rendono necessaria una produzione di energia che eccede di gran lunga la capacità del corpo di generare energia aerobica, a prescindere dall’apporto di ossigeno. Pertanto, il corpo deve immediatamente produrre energia anaerobica. Questa, a sua volta, genera grandi quantitativi di acido lattico, che si accumula rapidamente nel tessuto muscolare. La conseguenza è che spesso i muscoli cominciano a fare un male terribile all’inizio di una gara e continuano fino alla fine. (pp.49-50)

O questa

La soffitta era luminosa e ariosa, con la luce del mattino che si diffondeva da una schiera di ampie finestre sulla parete in fondo. L’aria era densa della fragranza dolce e pungente di vernice marina. Sul pavimento c’erano cumuli di segatura e trucioli di legno. Una lunga trave a doppia T percorreva la stanza quasi in tutta la sua lunghezza, e sopra era appoggiata l’intelaiatura di un otto in costruzione.
Pocock si mise a spiegargli i vari attrezzi che usava. Gli mostrò le pialle, con i manici di legno usurati dai decenni di utilizzo e le lame talmente affilate e precise da affettare trucioli di legno sottili e trasparenti come carta velina. Gli porse una sfilza di vecchi raschietti, verrine, scalpelli, lime e mazzole che aveva portato con sé dall’Inghilterra. Alcuni, disse, avevano almeno un secolo. Spiegò che ogni tipo di strumento aveva molte varianti, che ogni lima, per esempio, era leggermente diversa dall’altra, che ciascuno aveva una funzione diversa ma erano tutti indispensabili per realizzare una barca di prima qualità. Condusse Joe a uno scaffale di legname e tirò fuori campioni dei diversi tipi di legno che usava: il Pinus lambertiana, morbido e malleabile; il duro peccio rosso; il cedro fragrante; il candido frassino bianco. Li tenne sollevati a uno a uno e li esaminò, rigirandoli tra le mani e parlando delle proprietà peculiari di ciascuno e di come servissero tutte le loro qualità individuali per costruire una barca da competizione capace di prendere vita in acqua. Afferrò una lunga asse di cedro da uno scaffale e fece notare gli anelli di accrescimento annuali. Joe aveva imparato parecchio sulle qualità del cedro e sugli anelli nel periodo passato a tagliare scandole con Charlie McDonald, ma era completamente assorbito mentre Pocock spiegava quel che significavano per lui.
Joe si accovacciò accanto al costruttore e lo ascolto con attenzione, studiando il legno. Pocock disse che gli anelli svelavano più della semplice età di un albero; ne raccontavano l’intera storia, che talvolta tornava indietro di duemila anni. La successione di anelli spessi e sottili rimandava ad anni difficili di dura lotta alternati ad anni prosperi di crescita improvvisa. I colori diversi rimandavano ai vari tipi di terreno e di minerali incontrati dalle radici: alcuni secchi, che ne avevano arrestato lo sviluppo, altri ricchi e nutritivi. I difetti e le irregolarità erano segno che gli alberi avevano sopportato incendi, fulmini, tempeste di vento e infestazioni, eppure avevano continuato a crescere.
Mentre Pocock parlava, Joe era incantato. Ad attrarlo non erano soltanto le parole dell’inglese o la sua cadenza schietta e soave, ma anche la pacata riverenza con cui parlava del legno, come se avesse qualcosa di sacro e inviolabile. Il legno, mormorò Pocock, ci insegna a sopravvivere, a superare le difficoltà, a vincere le avversità, ma ci insegna anche qualcosa sul motivo implicito della stessa sopravvivenza. Qualcosa sulla bellezza infinita, sulla grazia eterna, su cose più grandi e importanti di noi. Sui motivi per cui ci troviamo tutti qui.
«lo posso creare una barca, certo» disse. Poi aggiunse, citando il poeta ]oyce Kilmer: «”Ma solo Dio può creare un albero”». A quel punto tirò fuori una sottile lamina di cedro dello spessore di appena 9 millimetri e mezzo, di quelle che rivestivano le barche. Fletté il legno e disse a Joe di fare altrettanto. Parlò della bombatura e della vitalità che il legno impartiva a una barca quando era in tensione. Parlò della forza innata delle singole fibre di cedro che, abbinata alla loro resilienza, conferiva al legno la capacità di scattare e recuperare la forma, intero e intatto, o di come le fibre, esposte al vapore e alla pressione, potessero assumere una nuova conformazione e mantenerla per sempre. La capacità di cedere, di piegarsi, di mollare, di adattarsi, disse, talvolta era una fonte di forza anche per gli uomini oltre che per il legno, a patto che fosse governata da una fermezza interiore e da saldi principi.
Portò Joe a un’estremità della lunga trave a doppia T sulla quale stava costruendo l’intelaiatura per una nuova barca da competizione. Pocock scrutò la chiglia di legno per il lungo e invitò Joe a fare lo stesso. Doveva essere perfettamente rettilinea, spiegò, per tutti i suoi 18 e più metri, non un centimetro di differenza da un capo all’altro, altrimenti la barca non sarebbe mai andata dritta, una volta in acqua. E quella precisione poteva derivare soltanto dal suo costruttore, dalla cura con cui esercitava la sua arte, da quanto cuore vi metteva.
Pocock si interruppe, indietreggiò dall’intelaiatura e mise le mani sui fianchi, osservando con attenzione il lavoro compiuto sino ad allora. Disse che per lui l’arte di costruire una barca era come una religione. Non era sufficiente padroneggiarne i dettagli tecnici. Bisognava dedicarvisi spiritualmente, abbandonarvisi totalmente. Quando il lavoro era finito e ci si allontanava dalla barca, bisognava avere la sensazione di averle lasciato una parte di sé per sempre, un pezzetto del proprio cuore. Si rivolse a Joe. «Per il canottaggio» disse «vale lo stesso. E anche per molte cose della vita, perlomeno i momenti che contano davvero. Capisci cosa intendo, Joe?» Joe annuì con esitazione, un po’ nervoso e non del tutto convinto, poi tornò di sotto e riprese a fare gli addominali, sforzandosi di capirci qualcosa. (pp.259-261)

O questa

Anche Bobby Moch ebbe un’improvvisa rivelazione. Successe mentre sedeva all’ombra di un albero in un campo a Travers Island e apriva una busta. Conteneva una lettera del padre, quella che Bobby gli aveva chiesto, con gli indirizzi dei parenti che sperava di visitare in Europa. Ma conteneva anche una seconda busta sigillata sulla quale era scritto: «Leggila in privato». Ora, mentre sedeva allarmato sotto l’albero, Moch aprì la seconda busta e ne lesse il contenuto. Quando ebbe finito, aveva il viso rigato di lacrime.
La notizia era abbastanza innocua per gli standard del Ventunesimo secolo, ma considerando le tendenze sociali nell’America degli anni Trenta fu un profondo shock. Quando avesse incontrato i parenti in Europa, spiegò Gaston Moch al figlio, sarebbe venuto a sapere per la prima volta che lui e la sua famiglia erano ebrei.
Bobby rimase seduto a lungo sotto l’albero a meditare, non perché si era improvvisamente scoperto membro di quella che all’epoca era ancora una minoranza molto discriminata, ma perché, assimilando la notizia, aveva compreso per la prima volta l’atroce sofferenza che il padre doveva essersi portato dentro in silenzio per tutti quegli anni. Per decenni il padre si era convinto che per tirare avanti in America fosse necessario nascondere una parte fondamentale della sua identità ad amici, vicini di casa e perfino ai suoi figli. Bobby era stato educato a trattare gli altri sulla base delle loro azioni e del loro carattere, non di stereotipi. Era stato proprio il padre a insegnarglielo. Adesso era devastante scoprire che non si era sentito abbastanza al sicuro da seguire quel semplice suggerimento, che aveva tenuto dolorosamente nascosto il suo retaggio, come un segreto di cui vergognarsi, perfino in America, perfino con l’amato figlio. (pp.352-353)

O questa

Gli sembrò uno dei posti più pacifici che avesse mai visto.
Non poteva conoscere il segreto sanguinoso che si celava dietro Köpenick e le sue placide acque. (p.376)

L’indomani, dopo pranzo, i ragazzi gironzolarono per la città scherzando, curiosando nei negozi, usando le loro nuove macchine fotografiche, comprando qualche souvenir, esplorando angoli di Köpenick che non avevano ancora visto. Come gran parte degli americani a Berlino quell’estate, erano giunti alla conclusione che la nuova Germania fosse un luogo molto gradevole. Era pulita, la gente era fin troppo cordiale, tutto funzionava a dovere e con efficienza, e le ragazze erano carine. Köpenick era piacevolmente pittoresca; Grünau era verde, frondosa e con un fascino rustico. Erano cittadine amene e pacifiche quasi quanto quelle nello Stato di Washington.
Ma c’era una Germania che i ragazzi non potevano vedere, una Germania nascosta ai loro occhi, di proposito o per questioni di tempo. Non si trattava solo dei cartelli rimossi – FÜR JUDEN VERBOTEN, JUDEN SIND HIER UNERWÜNSCHT -, degli zingari radunati e portati via o del violento «Der Stürmer» ritirato dagli scaffali delle tabaccherie di Köpenick. C’erano segreti più grandi, oscuri e pervasivi tutt’intorno a loro. Non sapevano nulla dei rivoli di sangue che avevano macchiato le acque del fiume Spree e del Langer See nel giugno 1933, quando le squadre d’assalto delle SA avevano radunato centinaia di ebrei, socialdemocratici e cattolici di Köpenick, torturandone novantuno fino alla morte: ne avevano pestato qualcuno fino a spaccargli i reni o a squarciargli la pelle, poi avevano versato catrame rovente sulle ferite prima di gettare i corpi mutilati nei tranquilli corsi d’acqua della cittadina. Non potevano vedere il vasto campo di concentramento di Sachsenhausen in costruzione quell’estate a nord di Berlino, dove di lì a poco sarebbero stati rinchiusi oltre duecentomila ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, zingari e infine prigionieri di guerra sovietici, civili polacchi e studenti universitari cechi, e dove decine di migliaia di loro avrebbero trovato la morte. (pp. 404-405)

O questa cronaca mozzafiato

Le barche si stavano avvicinando al segnale dei 500 metri, il primo quarto di gara, con Svizzera, Gran Bretagna e Germania in lotta serrata per la prima posizione, seguite a distanza da Stati Uniti e Italia. L’Ungheria era ultima. Eccetto i britannici, il gruppo di testa si stava avvicinando alla zona riparata a ridosso della sponda meridionale, dove l’acqua era quasi piatta. La barca americana aveva solo una lunghezza di ritardo ma era ancora nel punto più ampio del lago, in lotta contro il vento implacabile e massacrante, con l’acqua che schizzava dai remi a ogni rilascio. Un dolore lento e bruciante cominciò a pulsare nelle braccia e nelle gambe dei ragazzi, irradiandosi lungo la schiena. Molto lentamente iniziarono a perdere terreno. Ai 600 metri avevano una lunghezza e mezzo di ritardo. Agli 800 erano di nuovo ultimi. Le loro pulsazioni si alzarono a 160 o 170 battiti al minuto.
Nelle acque protette della seconda corsia, d’un tratto l’Italia rimontò e conquistò un leggero vantaggio sulla Germania. Mentre la prua della barca italiana superava il segnale dei 1000 metri a metà del tracciato, una campana informo gli spettatori al traguardo che i concorrenti si stavano avvicinando. Settantacinquemila persone si alzarono in piedi, e per la prima volta intravidero le barche che avanzavano verso di loro lungo la grigia distesa del Langer See come tanti ragni lunghi e sottili. Sulla balconata della Haus West, Hitler, Goebbels e Göring si premettero il binocolo contro gli occhi. Sulla balconata della rimessa lì accanto, Al Ulbrickson vide la Husky Clipper avanzare nella corsia più esterna accanto alla barca britannica. Alberi e edifici gli impedivano di vedere le corsie e le barche più vicine. Per un momento, dal punto in cui si trovava, sembrava che i suoi ragazzi e i britannici fossero soli al comando, in fuga. Poi sentì l’addetto stampa annunciare i parziali sui 1000 metri. La folla esplose. L’Italia era al comando, ma aveva un solo secondo di vantaggio sulla Germania, al secondo posto. La Svizzera era in terza posizione, a un secondo dalla Germania. L’Ungheria era quarta. La Gran Bretagna era finita in coda al gruppo, contendendosi sostanzialmente l’ultimo posto con gli Stati Uniti. I ragazzi di Ulbrickson avevano quasi cinque secondi di ritardo dal gruppo di testa.
[…]
Al segnale dei 1500 metri, la Germania riconquistò il primo posto superando l’Italia. Un altro enorme ruggito si levò dalla folla ormai vicina. Poi le grida si tramutarono in un coro – «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» – sincronizzato con il ritmo della barca tedesca. In balconata, Hitler guardava da sotto la visiera del cappello e si dondolava avanti e indietro a tempo con la cantilena. Finalmente, Al Ulbrickson riuscì a vedere la squadra tedesca e quella italiana, che sfrecciavano a ridosso della sponda, chiaramente in testa, ma le ignorò e puntò gli occhi grigi sulla barca americana, all’estremità opposta del lago, cercando di leggere nella mente di Bobby Moch. Quella gara cominciava a somigliare a Poughkeepsie. Ulbrickson non sapeva se fosse un buon segno o un brutto segno.
[…]
Moch tornò a urlare: «Dobbiamo recuperare ancora una lunghezza, seicento metri!». I ragazzi si piegarono sui remi. La frequenza salì a trentasei, poi a trentasette. Quando il gruppo superò il segnale dei 1500 metri, la Husky Clipper era passata dal quinto al terzo posto. A riva, sulla balconata della rimessa, le speranze di Al Ulbrickson si riaccesero in silenzio vedendo la barca rimontare, ma la rimonta sembrò esaurirsi quando i ragazzi erano ancora lontani dalla testa della gara.
A 500 metri dal traguardo avevano ancora quasi una lunghezza piena di ritardo su Germania e Italia. Svizzeri e ungheresi avevano completamente mollato. l britannici stavano tornando all’attacco, ma anche questa volta Ran Laurie, con il suo remo a pala stretta, non aveva abbastanza presa sull’acqua per aiutare i compagni a contrastare il vento e le onde. Moch ordinò a Hume di aumentare appena la frequenza. Dalla parte opposta del campo, Wilhelm Mahlow, il timoniere della Germania, diede l’identico comando a Gerd Völs, il capovoga. Il trentenne Cesare Milani, sulla barca italiana, gridò la stessa direttiva al suo capovoga, Enrico Garzelli. L’Italia guadagnò qualche altro centimetro.
Mentre il Langer See si restringeva verso la dirittura d’arrivo, la Husky Clipper entrò in un punto più riparato dal vento, protetto sui due lati da alti alberi e edifici. La partita era aperta. Bobby Moch rimise il timone parallelo allo scafo, e finalmente la Clipper non ebbe più freni. Ora che il tracciato era lo stesso per tutti e Don Hume era di nuovo in vita, i ragazzi tornarono alla carica a 350 metri dal traguardo, recuperando il gruppo di testa un carrello dopo l’altro. A 300 metri, la prua della barca americana era quasi alla pari con quella tedesca e quella italiana. In prossimità degli ultimi 200 metri, i ragazzi passarono in testa di un terzo di lunghezza. Un fremito di apprensione scosse la folla.
Bobby Moch diede un’occhiata all’enorme cartello bianco e nero con la scritta ZIEL al traguardo. Si mise a calcolare quanto avrebbe dovuto chiedere ai ragazzi per essere sicuro di precedere le barche alla sua sinistra. Era tempo di cominciare a mentire.
Moch gridò: «Altri venti colpi!». Si mise a contarli: «Diciannove, diciotto, diciassette, sedici, quindici… Venti, diciannove…». Ogni volta che arrivava a quindici ripartiva da venti. Storditi, convinti di essere ormai giunti al traguardo, i ragazzi misero tutti se stessi in ogni palata, vogando come forsennati, impeccabili e straordinariamente eleganti. I remi si piegavano come archi, le pale entravano e uscivano dall’acqua pulite, lisce, efficienti, lo scafo unto d’olio di balena avanzava silenzioso tra un colpo e l’altro, la prua appuntita di cedro fendeva le acque scure, barca e uomini procedevano uniti, scattando furiosamente in avanti come una creatura vivente.
Poi entrarono in un mondo caotico. Erano in piena volata, vicino ai quaranta colpi al minuto, quando sbatterono contro un muro di suono. D’un tratto si trovarono di fianco alle enormi gradinate di legno sulla sponda nord del tracciato, a non più di tre metri dalle migliaia di spettatori che urlavano all’unisono: «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!». Il boato si rovesciò addosso ai ragazzi, riverberandosi da una sponda all’altra e soffocando del tutto la voce di Bobby Moch. Nemmeno Don Hume, che sedeva ad appena mezzo metro da lui, riusciva a capire cosa stesse sbraitando. Il rumore li assalì, li disorientò. Dall’altra parte del campo, la barca italiana tentò un’altra rimonta. Lo stesso fece quella tedesca, ed entrambe superarono i quaranta colpi al minuto. Guadagnarono faticosamente terreno, portandosi alla pari con gli americani. Bobby Moch li vide e gridò in faccia a Hume: «Accelera! Accelera! Dovete dare tutto quello che avete!». Nessuno riuscì a sentirlo. Stub McMillin non capiva cosa stesse succedendo, ma qualunque cosa fosse non gli piaceva. Lancio un’imprecazione nel vento. Neanche Joe sapeva cosa stesse succedendo, sentiva solo un dolore mai provato prima in barca: lame roventi penetravano nei tendini di braccia e gambe e fendevano la sua larga schiena a ogni colpo; ogni respiro disperato gli bruciava i polmoni. Fisso gli occhi sulla nuca di Hume e si concentrò sulla semplice, crudele necessità di dare un’altra palata.
Sulla balconata della Haus West, Hitler abbassò il binocolo lungo il fianco. […] Sulla balconata accanto, l’impassibile Al Ulbrickson era immobile e inespressivo, con una sigaretta in bocca. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe visto Don Hume crollare sul remo. […]
Moch guardò a sinistra, vide i tedeschi e gli italiani tornare alla carica e capì che in qualche modo i ragazzi avrebbero dovuto aumentare ancora il ritmo e dare ancora più di quanto stavano dando, anche se sapeva che era già il massimo. Lo capiva dai loro volti, dalla smorfia contorta di Joe, dagli occhi sgranati e attoniti di Don Hume, che sembravano guardare oltre, verso un vuoto insondabile. Afferrò gli agugliotti di legno legati ai cavi del timone e cominciò a sbatterli contro le assi di eucalipto fissate ai due lati dello scafo. Anche se i ragazzi non potevano sentirlo, forse avrebbero avvertito le vibrazioni.
Le avvertirono. E ne colsero subito il significato: erano il segnale che avrebbero dovuto fare l’impossibile, aumentando ancora il ritmo. Da qualche parte, nel profondo, ognuno di loro si aggrappò agli ultimi brandelli di energia e volontà che non sapeva neppure di avere. l loro cuori pompavano a quasi 200 battiti al minuto. Erano andati oltre la spossatezza, oltre quello che i loro corpi avrebbero potuto sopportare. Il minimo errore di uno di loro avrebbe portato a prendere un granchio, e sarebbe stata una catastrofe. Nella grigia oscurità sotto le tribune piene di volti urlanti, le loro pale bianche guizzavano dentro e fuori dall’acqua.
Era un testa a testa, adesso. Sulla balconata, Al Ulbrickson spezzò in due la sigaretta con i denti, la sputò, saltò su una sedia e  si mise a gridare a Moch: «Oral Ora! Oral». Da qualche parte una voce strillava isterica da un altoparlante: «ltalien! Deutschland! Italien! Achh… Amerika! Italien!». Le tre barche sfrecciarono verso la linea del traguardo, alternandosi al comando. Moch batté sulle assi di eucalipto più forte e più in fretta che poteva, sparando una raffica di colpi sulla poppa della barca come una mitragliatrice. Hume portò la frequenza sempre più in alto, finché i ragazzi non raggiunsero i quarantaquattro. Non avevano mai vogato così forte, non credevano nemmeno che fosse possibile. Passarono leggermente in vantaggio, ma gli italiani si avvicinarono di nuovo. I tedeschi erano alla pari con loro. «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» rimbombava nelle orecchie dei ragazzi. Bobby Moch si mise a cavalcioni della poppa e si sporse in avanti, battendo il legno e gridando parole che nessuno poteva sentire. I ragazzi diedero un’ultima, potente palata e spinsero la barca oltre la linea. Nell’arco di un unico secondo tedeschi, italiani e americani tagliarono il traguardo.
[…]
Qualcuno sussurrò: «Chi ha vinto?». Roger Morris gracchiò: «Be’… noi… credo». (pp.420-426)

Che non può non richiamare alla memoria la mitica, indimenticabile telecronaca di Giampiero Galeazzi a Seul, 1988. 

E infine questa nota personale dell’autore

Nell’agosto del 2011 andai a Berlino per vedere il luogo in cui i ragazzi avevano vinto l’oro settantacinque anni prima.
[…]
Mentre ero lì a guardare quei ragazzi, mi resi conto che settantacinque anni prima Hitler, osservando Joe e i compagni rimontare dal fondo del gruppo fino a superare Italia e Germania, aveva intravisto senza riconoscerli i segnali della sua condanna. Non poteva sapere che un giorno centinaia di migliaia di ragazzi come quelli, ragazzi che condividevano la loro stessa indole – onesti e modesti, non privilegiati né favoriti da qualcosa in particolare, semplicemente leali, impegnati e perseveranti -, sarebbero tornati in Germania con uniformi verde oliva per dargli la caccia.
Se ne sono andati quasi tutti, ormai, i tantissimi giovani che hanno salvato il mondo prima che io nascessi. Ma quel pomeriggio, sulla balconata della Haus West, provai un moto di gratitudine per la loro bontà e la loro grazia, per l’umiltà e l’onore, per la loro semplice civiltà e per tutte le cose che ci hanno insegnato prima di solcare le acque della sera e, finalmente, svanire nella notte. (pp.445-446)

È un libro di quelli che lasciano il segno, questo. Di quelli che li chiudi e poi ci mediti sopra. Di quelli che dopo un anno e dopo dieci ricordi perfettamente, e ricordi ogni singolo personaggio, ogni sua caratteristica, ogni suo segreto nascosto.
Ah, stavo quasi per dimenticare: in questo libro bisogna leggere anche i ringraziamenti; non lo faccio mai, ma qui bisogna proprio farlo, e se leggerete il libro e poi i ringraziamenti, capirete perché.

Daniel James Brown, Erano ragazzi in barca, Mondadori
ragazzi in barca
barbara