LA VOCE DELL’IRAN

Quest’altra invece è la voce di Biden che raccomanda agli israeliani a non attaccare Haifa.

E se questo tipo di effetti della demenza suscita il riso, altre mosse statunitensi mettono invece a rischio il mondo intero.
Dopo l’attacco israeliano in Iran, appare evidente che i due stati sono strettamente legati nel comune impegno a bloccare ogni possibilità di escalation. La risposta israeliana era, per chiunque conosca mentalità e modus vivendi dei protagonisti, non solo scontata ma anche obbligatoria: il non rispondere sarebbe stato interpretato come segno di debolezza, che, nella cultura arabo-islamica, rappresenta un invito a colpire a fondo (il non colpire in una circostanza di questo tipo sarebbe a sua volta interpretato come debolezza e farebbe perdere la faccia, e perdere la faccia, in quel mondo, è la peggiore sciagura che possa capitare). E dunque Israele ha risposto, e lo ha fatto non solo nel modo più sobrio e moderato, ma anche con il messaggio più esplicito e inequivocabile: ha colpito un obiettivo, uno solo, ha scelto un obiettivo militare, e lo ha scelto ben lontano dagli impianti nucleari. E non ha rivendicato l’attacco. E l’Iran?

«“Non è stato chiarito quale sia il Paese straniero da cui è stato generato l’incidente. Non abbiamo ricevuto alcun attacco esterno e non abbiamo in programma ritorsioni da attuare con urgenza”, ha dichiarato una fonte ufficiale del regime di Teheran alla stampa. Il comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, ha invece definito “assurde” le ricostruzioni che considerano Israele colpevole dell’attacco.»
«La Mehr News, agenzia semi-ufficiale iraniana, ha riferito che la situazione a Esfahan, città vicina agli attacchi, rimane “completamente calma”.»

Tutto bene, dunque? Ahimè no: fonti ufficiali americane hanno fatto arrivare ai giornali l’informazione che l’attacco è stato condotto da Israele, aprendo così la porta alla possibilità un’escalation di rappresaglie e contro rappresaglie.

Questo invece, quello coperto di sangue, è Yarden Bibas, marito di Shira e padre di Ariel e Kfir; quelli intorno che lo stanno massacrando e quello che guida la moto con cui, dopo averlo catturato, lo ha portato a Gaza, sono i famosi civili innocenti palestinesi

Questa è l’evoluzione dei tempi

Questa è l’ennesima smentita della leggenda nera della povera Gaza zona più densamente popolata del mondo

E questo è un bambino palestinese steso, non si capisce bene perché, sopra le macerie (e senza un solo granello di polvere addosso) che stringe al petto il suo gatto. I gatti palestinesi, come tutti certamente saprete, per adeguarsi ai bambini palestinesi che hanno 6 dita,

si sono dotati di 5 zampe.

E questi sono due inni della resistenza ebraica, che curiosamente terminano con le stesse parole: Mir zaynen do, noi siamo qui. Il primo, di cui trovate qui la traduzione in inglese (che non ho controllato) è il canto dei partigiani ebrei di Vilna, Zog nit keynmol, Non dire mai, di Hirsh Glick (1922-1944)

L’altro (qui la traduzione) è di Lejb Rosenthal, anch’egli di Vilna, novembre 1916-gennaio 1945

barbara

LA PERSONA GIUSTA

È quella che si trova nel posto giusto al momento giusto. La persona ancora più giusta è quella che non si trova nel posto giusto al momento giusto, e allora ci va, pur consapevole dei rischi che ciò comporta.

E giusta è anche la persona che dice le cose giuste al momento giusto

Poi ci sono persone orribili, che hanno passato la vita, per ragioni ideologiche, a fare cose orribili, e a farle fare a chi ne aveva il potere, come la deportazione degli ottomila ebrei di Gush Katif, l’abbandono di Gaza in mano ai peggiori terroristi che mai il pianeta abbia conosciuto con le conseguenze di devastazione e morte cui da 18 anni stiamo assistendo. E che tuttavia a ottant’anni suonati, di fronte al massacro peggiore che mai si sia visto riesce a trovare le parole giuste.

Un intervento tanto lucido quanto amaro. Collegato su Zoom dalla sua abitazione di Gerusalemme, il professor Sergio Della Pergola ha portato il suo contributo al Consiglio UCEI in corso a Roma. “Dal 7 ottobre – ha dichiarato l’accademico – sono state fatte cose che nella Shoah non erano state fatte. E con una euforia e una partecipazione popolare che durante il nazismo non si erano mai viste”. Un massacro tragico con conseguenze devastanti: “Siamo tornati indietro di 75 anni con zone abbandonate – e Israele non aveva mai ceduto un centimetro di territorio – e decine di migliaia di sfollati interni.” [Centinaia di migliaia, per la precisione] Da cui la considerazione: “Stiamo combattendo di nuovo la guerra d’indipendenza e il nostro diritto a difenderci non è accettato da tutti. Anzi, oggi probabilmente una risoluzione Onu per dare vita a uno stato ebraico non otterrebbe la maggioranza dei voti. Siamo delusi – ha aggiunto Della Pergola – e osserviamo la perdita di dignità di organizzazioni come la Croce Rossa [alla perdita di dignità della Croce Rossa abbiamo abbondantemente assistito durante la seconda guerra mondiale, e Israele l’ha ripetutamente sperimentata nel corso della sua storia] che a oggi non ha ancora incontrato uno solo dei nostri deportati. Poi c’è la Chiesa Cattolica che cerca di tenere una posizione intermedia. E l’accademia, di cui faccio parte, che dimostra non essere un centro di riflessione e di studio ma di attivismo politico, in un sistema degenerato. L’intervista delle tre presidenti di ateneo è un segnale di regresso dell’America”. Secondo Della Pergola, “abbiamo un esercito eccezionalmente morale nel combattere, anche se può cadere in errore, ma siamo tornati all’impotenza politica di 75 anni fa. Io – ha concluso – ho proposto uno sciopero del 27 gennaio: un’idea non applicabile e forse anche peregrina. Che però parte da un assunto: se per le strade si chiede la morte degli ebrei e la cancellazione di Israele “dal fiume al mare”, la Giornata della Memoria ha fallito. Noi la memoria ce l’abbiamo, semmai sono altri che non ce l’hanno”. (Pagine ebraiche)

E a proposito di Croce Rossa:

Guido Guastalla

Questo il comportamento della Croce rossa internazionale! Come ai tempi del nazismo!
Tal Amnu, la figlia dell’84enne Alma Avraham, liberata l’altro ieri dalla prigionia di Hamas, ha commentato lo stato di salute di sua madre, che rimane difficile. La Croce Rossa ha ripetutamente rifiutato di prendere le medicine portate alla sede della Croce Rossa. È con assoluta freddezza e sdegno che questa organizzazione ha rifiutato il minimo aiuto per gli ostaggi israeliani. “Ha totalmente abbandonato mia madre dal punto di vista della salute.”
Alma Avraham è arrivata stordita, tutta ferita. È stata abbandonata due volte, la prima il 7 ottobre e la seconda da tutte le organizzazioni che avrebbero dovuto salvarla.
La madre è tornata a poche ore da morte certa perché la sua temperatura era bassa (27°) e il suo cuore molto debole (40 battiti al minuto), per non parlare dei numerosi segni sul suo corpo.

E qui siamo anche al di là, molto al di là dell’indifferenza: qui siamo all’aperta complicità in tentativo di omicidio. E credo che questo ci stia proprio bene

Poi ci sono i terribili coloni che vanno in giro ad ammazzare i poveri civili palestinesi innocenti e che giustamente, cattivi come sono, fanno preoccupare il povero Biden

E poi c’è il NYT che titola

Weapons found in hospital, Israel says

Ma non si illudano che noi siamo così scemi da crederci solo perché lo dicono loro.

Rainews invece titola

Esercito israeliano uccide 3 ostaggi “per errore” (Qui)

perché si sa che l’esercito israeliano è talmente assetato di sangue che se non trova immediatamente qualche bambino palestinese da scuoiare vivo, si accontenta di ammazzare la propria gente, salvo poi raccontare che è stato un errore, ma a noi che siamo furbi non la danno mica a bere.

E ora un piccolo sforzo di immaginazione, da proporre soprattutto a quelli che si proclamano amici dei palestinesi

Sì, lo so, troveranno il modo di rigirare comunque la frittata: quando mai l’antisemitismo si lascia incastrare dalla logica? E infatti guardate cosa hanno fatto questi

The city of Hamtramck in Michigan has decided to rename one its streets to “Palestine Avenue”.
During the booming years of Detroit’s automobile industry, Hamtramck was majority Polish.
Today, it’s the only majority-Muslim city in the U.S.

Notare poi che sul tabellone non c’è Palestine Avenue, bensì un ben più inquietante Palestine way. Perché giustamente hanno il sacrosanto diritto di difendersi e resistere a modo loro

Poi c’è chi, avendolo apprezzato durante la pandemia, continua a dedicarti a quello che da noi si chiama bizzarramente smart working (e qualunque interpretazione si scelga per il termine smart, non è molto chiaro che cosa abbia a che fare col lavoro da casa) lanciando comodamente i missili dalla propria cucina, mentre nell’altra stanza si provvede all’educazione dei pargoli

E per quando cominceranno a crescere hanno già approntato delle deliziose cinturine esplosive su misura, e poi subito dopo via, di corsa a farne macchine per uccidere

(con quegli occhi che mettono i brividi)

E a proposito di pargoli, sembra che qualcuno stia cominciando a scoprire che

Ma ci sono, a Gaza, civili innocui? (Non dico innocenti che, anche se l’etimologia è la stessa, ha tutt’altra valenza) Sì, ci sono, e quando li incontra Israele fa quello che deve fare

Come sempre

barbara

NOTIZIE SPARSE

Comincio con la nonna affranta

Certo che con tutta una famiglia così, povera ragazza, inutile provare a dire che hai paura, che hai tanta paura, che hai sempre più paura, che vorresti che lui sparisse dalla tua vita per non ricomparire mai più…

E a proposito di violenza sulla donne:

Stefania Malka Hepeisen

Forza, scendete in piazza per la Sierra Leone dove ci sono 10.000 stupri all’anno di ragazze sotto i 15 anni. Dove la sifilide cerebrale la fa da padrona, dove le bambine vengono drogate per subire lo stupro data l’anatomia non pronta ai rapporti sessuali.
Che aspettate?
Dove sta l’Onu? L’Unrwa?
Troppo impegnato con Israele?
La Sierra Leone non ha diritto ai diritti umani? Mentre le bambine lì muoiono, qui siamo occupati a combattere il patriarcato e Israele.

Insomma, praticamente così:

Poi c’è sempre chi proietta su di te le proprie perversioni sessuali

Qui.

Le ho chiamate perversioni sessuali in mancanza di un termine più adatto, ma sessuali non è il termine corretto, perché in questi casi il sesso, la soddisfazione sessuale non è lo scopo, bensì un mezzo: un mezzo per fare male fisicamente e per umiliare, per – come ha detto un prigioniero durante l’interrogatorio – “disonorarle”. E come si può chiaramente capire anche da queste testimonianze

E a proposito di queste violenze, due parole a Lucia Annunziata che ha visto le registrazioni, che ne è rimasta talmente sconvolta da non poter reggere fino alla fine, da sentire la necessità di denunciarle in un crudo e dettagliato articolo: dimmi, cara Lucia, adesso che hai visto coi tuoi occhi che cosa ESATTAMENTE fanno i tuoi beniamini sui civili innocenti – al punto da infierire perfino sui neonati – continuerai a trovare loro ogni sorta di giustificazione? Continuerai a scagliarti contro Israele chiamando crimini la sua lotta in difesa della vita? E prima di quest’ultima mattanza, di vederli direttamente in azione, non sapevi quello che facevano, che hanno sempre fatto da quando è nato l’islam senza mai smettere? E dimmi, così per curiosità, hai ancora…?

E inoltre

Emanuel Segre Amar

A proposito degli stupri del 7 ottobre (continuati poi magari sulle persone ostaggio dei nazi-terroristi.
Due particolari che iniziano a circolare.
Due donne tornate sono risultate essere incinte.
Su dei cadaveri di donne uccise sono stati trovati fino a 14 tipi di sperma.
Ma tutto ciò non interessa alle varie Boldrini and co. che sentenziano a ruota libera

(Nel caso qualcuno si chiedesse come mai gli sia venuta la bizzarra idea di andare a esaminare lo sperma: serve per identificare i responsabili fra i terroristi catturati e quelli che si stanno arrendendo a mandrie intere. Come si diceva una volta nei cortei: pagherete caro, pagherete tutto. Il tempo, oggi, non è più dalla vostra parte

No, decisamente no)

E come se non bastasse

Niram Ferretti

DENTRO L’ABIEZIONE

«Sappiamo che alcuni bambini rapiti da Hamas sono stati abusati sessualmente. Non sono tra i piccoli che abbiamo in cura noi qui, si trovano in una delle altre strutture mediche che hanno preso in carico gli ostaggi minorenni dopo il rilascio». Lo dice all’Ansa Omer Niv, vice direttore dello Schneider children’s medical center, il primo e più grande ospedale pediatrico di Israele e del Medio Oriente. Nell’istituto sono in cura 19 piccoli ostaggi tornati alla libertà dopo 50 giorni di prigionia a Gaza. «Sono come fantasmi. Soffrono di depressione profonda grave, sono tristi, camminano lentamente, non vogliono uscire dalla stanza, scoppiano a piangere se vedono un estraneo, hanno paura, masticano il cibo lentamente, temono ogni rumore», racconta il dottor Niv.
Che non si nasconde dietro al pudore e ammette che anche i team di medici che curano i piccoli pazienti stanno andando avanti per tentativi, a secondo delle reazioni che raccolgono: «Non ci sono nella letteratura scientifica esempi in cui bambini piccoli, di 2, 3, 4 anni, siano stati rapiti, tenuti in posti claustrofobici, in condizioni igieniche estreme, separati dai loro genitori, nutriti a malapena, torturati con false notizie come la morte di papà e mamma anche se non era vero. Non c’è mai stata una terapia per questi danni. Perché non era mai successo niente del genere nella storia dell’umanità», osserva Niv. «Con psichiatri, psicologi, pediatri, sociologi, affrontiamo i bambini caso per caso. In un certo senso ci sentiamo impotenti. Una madre con due bambine di 3 anni è con noi dal momento del rilascio, vogliono restare qui: la loro casa è stata bruciata, il papà è in ostaggio a Gaza, non vogliono uscire. Questi bambini probabilmente avranno bisogno di essere curati e seguiti per tutta la loro vita», conclude il vice direttore dello Schneider children’s medical center.

E poi c’è lo zio Sam, il “migliore alleato di Israele” quando gli interessi di Israele coincidono coi suoi, altrimenti Israele si fotta, e che con Obama e Biden è diventato un sordido nemico.

Con la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, il segretario di Stato americano Blinken ha informato Israele delle restrizioni sotto cui gli Stati Uniti gli permetteranno di operare. Nessuno sfollamento della popolazione civile e meno vittime civili (anche se non ci sono numeri tranne quelli che provengono direttamente da Hamas). Nessun bombardamento su ospedali o  scuole, anche quando sono di fatto santuari delle truppe di Hamas. Nessuna interruzione della fornitura di carburante, che Hamas utilizza per mantenere i suoi tunnel illuminati e ventilati. Tuttavia ci viene detto di finire la guerra in fretta, perché il nostro “credito” sta finendo. E nel caso qualcuno pensasse che un giorno i bambini israeliani avranno il diritto di dormire sonni tranquilli nelle comunità del Negev occidentale, ebbene, non dovrà esserci alcuna zona di sicurezza sul lato di Gaza del confine e nessun controllo di sicurezza israeliano su Gaza. La minaccia implicita è che se Israele esce dalla riserva, gli Stati Uniti non gli forniranno munizioni e pezzi di ricambio essenziali per i nostri sistemi d’arma americani, né porranno il veto alle risoluzioni ostili del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Non so come Israele abbia risposto a queste richieste fatte al nostro gabinetto di guerra dove il signor Blinken ha evidentemente il diritto di sedere. Ma so come penso che dovremmo rispondere. E quindi invio quanto segue:

Caro Segretario Blinken,
Apprezziamo il sostegno che riceviamo dall’America nella nostra guerra contro il genocida  Hamas. Apprezziamo il fatto che sembriate capire che questi mostri devono essere rimossi dal potere a Gaza, da dove hanno promesso di ripetere ancora e ancora le atrocità commesse contro il nostro popolo il 7 ottobre, atrocità proporzionalmente venti volte maggiori di quelle perpetrate contro negli Stati Uniti l’11 settembre. Ma nonostante la vostra comprensione, insistete nel porre restrizioni su come possiamo combattere; di fatto, per noi, una micro gestione della guerra.
Parliamo francamente: ci state chiedendo, nel breve termine, di barattare la vita dei nostri soldati con quella dei civili di Gaza, e  state misurando la nostra capacità di soddisfare questa richiesta con i numeri forniti da Hamas! Ci state chiedendo di combattere in un modo che, nella migliore delle ipotesi, sconfiggerà Hamas solo parzialmente. Dite di volere che Hamas venga rimosso dal potere, ma il probabile effetto del seguire le vostre istruzioni non sarà questo. Ci state chiedendo di combattere in un modo che gli americani non hanno mai perseguito, né mai perseguirebbero. Non è così che avete combattuto durante la seconda guerra mondiale, in Corea, Vietnam, Afghanistan e Iraq.
Sul lungo termine, ci state chiedendo di rinunciare all’intero Negev occidentale, che diventerà inabitabile per gli ebrei se non manteniamo il controllo di sicurezza di Gaza e se non possiamo stabilire una zona cuscinetto tra esso e la nostra popolazione. Aspirate addirittura a creare uno stato palestinese unificato e sovrano in tutta la Giudea, Samaria e Gaza, qualcosa che porterebbe in breve alla fine dello stato ebraico.
Noi non accettiamo le vostre restrizioni e la microgestione della guerra, e non scambieremo la vita dei nostri soldati con nessuno, né con gli abitanti di Gaza (che sostengono in stragrande maggioranza la violenza omicida contro gli ebrei, sia da parte di Hamas che di altri gruppi), e nemmeno con le fortune elettorali della fazione Obama-Biden del Partito Democratico.
Insistiamo sul fatto che quando la guerra finirà, dovranno essere create condizioni adeguate per la sicurezza del Negev occidentale. E dobbiamo informarvi che se metterete in atto la vostra minaccia di tagliare la nostra fornitura di munizioni e ricambi per le nostre moderne armi americane, saremo costretti a combattere in modi meno moderni e per molto più tempo [ma secondo me potreste anche scegliere di combattere in modi MOLTO più moderni, e per molto meno tempo]. La crisi umanitaria, come conseguenza diretta, sarà molto più grave e voi ne sarete responsabili. Perché non smetteremo di combattere quella che consideriamo una battaglia essenziale nella guerra per la sopravvivenza della nostra nazione e del nostro popolo, anche se dovremo combattere con le armi più primitive.
Noi non abbiamo scelta. Ma voi l’avete: potete sostenerci, o potete di fatto sostenere coloro che pensano che l’omicidio, la tortura e lo stupro siano tattiche non solo accettabili, ma lodevoli. Potete aiutarci a finire la guerra in fretta, oppure potete prolungarla, con tutto il dolore e la sofferenza che ciò comporta. Ma sappiate questo: in ogni caso Hamas non sfuggirà al giudizio.
Cordiali saluti,
praticamente tutti in Israele (qui, traduttore automatico con correzioni a aggiustamenti miei)

Scenario già visto. E l’altra volta la risposta c’è stata davvero

Nel frattempo

Emanuel Segre Amar

Ma guardate che strano: in un camion che portava aiuti ai civili di Gaza (ai civili, mica a Hamas: e se fosse la stessa cosa?) sono stati scoperti dei droni.

Mentre in casa nostra

A quanto pare, anche se il sindaco è cambiato, i sentimenti da quelle parti restano sempre gli stessi.

Ma voglio chiudere con due cose almeno relativamente positive. Questa è Amit Soussana,

quarant’anni, avvocato. Questo è il suo rapimento (qui)

E questa è di nuovo lei, 55 giorni dopo

E questa è Emilia Aloni di ritorno all’asilo

barbara

OGGI UN PO’ DI COSE BELLE

Comincio con il riminese di 101 anni, sopravvissuto alla Spagnola, sopravvissuto alla seconda guerra mondiale (ma un sito israeliano dice “sopravvissuto all’Olocausto”), che ora si è ammalato di covid19, ed è guarito (la famosa carica dei 101).
101
Passo a questa

Notizia del TG Kan 11 poco fa:
un’industria israeliana che produce missili , una settimana fa, ha convertito una linea di produzione per creare dei macchinari per la respirazione automatica di malati di coronavirus che siano in gravi condizioni ed abbiano bisogno di respiratori.
Oggi sono stati consegnati i primi 30 macchinari. In tempo di record!
“Se hai un problema devi trovare la soluzione”… (qui)

Come gli Stati Uniti all’inizio della seconda guerra mondiale hanno riconvertito molte industrie passandole alla produzione bellica, ora Israele, di fronte a una guerra forse non più importante ma sicuramente più urgente di quella consueta, riconverte le industrie belliche passandole alla produzione di apparecchiature sanitarie. E naturalmente non pensa solo a sé:
respiratori
qui.

Poi vi regalo il premier albanese che ci viene in aiuto

e il grazie all’Albania da parte di un flautista

un momento di relax di un medico a fine turno

e infine un pensiero per noi da Israele

E per concludere vi mostro, sempre da Israele, la preghiera al Muro del Pianto quando al Muro del Pianto non si può andare,
kotel
e quello che può succedere quanto per due settimane non si può uscire di casa,
2 sett. quar
e infine una bellissima striscia che ci mostra inconfutabilmente che la migliore arma per sconfiggere il virus è la pasta (chi ha difficoltà a leggere clicchi sull’immagine per vedere l’originale)
pasta-resistenza
barbara

JUDEN HABEN WAFFEN!

Pochi giorni fa ricorreva il settantaquattresimo anniversario della fine dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poiché il cannocchiale è irraggiungibile da ormai oltre un mese e mezzo, e temo che sia definitivamente defunto – con conseguente perdita del migliaio buono di documenti postati in sei anni e mezzo – ripropongo qui il post pubblicato undici anni fa.

varsavia ghetto 1
È con questo grido sgomento che i tedeschi accolgono l’incredibile, l’impensabile, l’inimmaginabile: gli ebrei hanno armi. Questo branco di Untermenschen, questa ammucchiata di straccioni pidocchiosi indegni di vivere, hanno deciso di ribellarsi al destino loro assegnato: moriranno, sì, ma non in una camera a gas. Moriranno, sì, ma con le armi in pugno. Moriranno, sì, ma morirà con loro anche qualche combattente dell’esercito più potente del mondo, qualche rappresentante della razza dei superuomini, qualche orgoglioso dominatore ariano. E questa banda di straccioni riuscì a resistere all’esercito tedesco per quasi un mese: fino all’8 maggio 1943.
Quello che segue è un brano dal diario di Zvia Lubetkin, che fu tra i capi dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia (aprile 1943). Dopo la guerra, Zvia è emigrata in Israele con altri superstiti e nel giugno del 1946 ha rilasciato la sua prima testimonianza al Comitato del Kibbutz Hameuhad, al kibbutz Yagur. Zvia è stata tra i fondatori del kibbutz “Lohamei haghetaot”, in cui si è spenta nel 1978, a 64 anni.

varsavia ghetto 2
Si fa sera. Io e Haim Primer, del gruppo Akiva, ci mettiamo in cammino e Marek Edelman è con noi. Siccome anche Marek rientra nel nòvero dei “ragazzi indisciplinati”, quelli cioè che se ne infischiano degli accorgimenti di sicurezza, ecco che allora prendiamo con noi una candela per illuminarci la strada. La cosa è assolutamente proibita. La candela potrebbe metterci nei guai, ma, del resto, è difficile farne a meno e noi dobbiamo procedere furtivamente tra le rovine.
varsavia ghetto 3
Un soffio di vento spegne il lume. Rimaniamo bloccati tra le rovine di un caseggiato completamente buio, senza sapere dove siamo e dove andiamo. Cominciamo a scalare quell’ammasso di detriti. Ad un tratto, non so come, scivolo rovinosamente e cado dentro ad una buca tra le rovine. So che non devo urlare. Il primo pensiero che mi salta in mente è questo: dov’è la pistola? I miei compagni si sono spaventati più di me, perchè non sanno cosa mi sia successo. A fatica mi tirano fuori dalla buca. Zoppicante e piena di graffi, continuo il cammino.
varsavia ghetto 4
Ci avviciniamo a via Mila 18, dove ha sede il bunker principale dell’Organizzazione Ebraica di Combattimento. Il nostro spirito si rianima. Ci mettiamo a programmare degli scherzi da fare ai compagni che stanno di guardia all’entrata. Ma, ben presto, nei pressi del bunker, rimaniamo sorpresi perchè ci accorgiamo che qualcosa è cambiato, rispetto ai giorni passati. Non riesco a riconoscere il posto e, anzi, per un momento, mi sembra che abbiamo sbagliato strada. C’è qualcosa di diverso. Le rovine sono piene di brecce. Non ci sono le sentinelle vicino al nascondiglio, e il nascondiglio stesso, dov’è andato a finire? A un tratto, sono presa da un senso di angoscia, provo a soffocarla, forse i guardiani del bunker si sono spostati per coprirsi meglio. E loro stessi hanno messo le pietre all’entrata per camuffarla. Il bunker ha sei entrate. Noi ci dirigiamo verso la seconda, la terza, la quarta. Non esistono più e non si vede neppure traccia di un guardiano. Il cuore si riempie di orrore e ha tristi presagi. Uno di noi pronuncia la parola d’ordine, nel caso che una sentinella nascosta ci risponda, ma non si ode voce o segno di risposta.
varsavia ghetto 5
A questo punto, cominciamo a muoverci nervosamente e il timore di una disgrazia si fa largo nei nostri cuori. Nel cortile accanto, vediamo d’un tratto delle ombre che si muovono nelle tenebre, c’è chi è seduto e chi cammina. In un primo tempo, abbiamo l’impressione che il nostro gruppo si sia messo in azione come è solito fare al calar della sera. Ci dirigiamo gioiosamente verso quelle figure indistinte, che riconosciamo come i nostri compagni. Ma, subito dopo, ci arrestiamo davanti ad uno spettacolo terribile: davanti ai nostri occhi si presentano degli esseri sporchi di fango e di sabbia, stremati e tremanti come se non fossero di questo mondo. Uno di loro si accascia al suolo svenuto, un altro respira a fatica, Yehuda Vangrobar, dell’Hashomer hatzair, emette dei rantoli soffocati, pesanti e Tossia Altman giace a terra, ferita alla testa e alle gambe. Siamo attorniati da gente a pezzi, che, in modo concitato, ci racconta ciò che è successo, in che modo è andato distrutto il bunker dei combattenti ebrei di via Mila 18 e come in pochi siano riusciti a mettersi in salvo.
Qui incontriamo tre compagni, che come noi sono usciti l’altro ieri dal bunker per andare in missione nella parte ariana e sono tornati poco fa. Tuvia Bojikowsky, Mordechai Grovas, comandante di una delle compagnie dell’Hashomer Hatzair, soprannominato Mardek e Israel Kanal. Anche loro sono usciti in missione al di là della parte ariana, sono rimasti bloccati da qualche parte come noi e non hanno potuto fare ritorno. Si sono imbattuti e scontrati con una pattuglia tedesca, ne sono usciti illesi e sono rimasti nascosti tra gli ammassi di detriti, pronti ad affrontare il nemico. Sono arrivati qui prima di noi e hanno sentito le cose terribili avvenute nel bunker di via Mila 18.

E questo è quanto abbiamo raccolto dalle testimonianze dei superstiti:

Nel pomeriggio, mentre giacciono mezzi nudi sui loro giacigli, una sentinella dell’avamposto fa correr voce che dei gendarmi tedeschi si stanno avvicinando al bunker e, infatti, si sentono distintamente i loro passi. In questi casi, i combattenti prevedevano di reagire in due modi diversi. Secondo il primo, siccome i tedeschi inizialmente erano soliti ingiungere agli ebrei di venir fuori, allora usciva prima la nostra compagnia con le armi nascoste e dopo qualche secondo apriva il fuoco sul nemico e, nel trambusto che ne seguiva, i combattenti si sarebbero dileguati in ogni parte. Alcuni sarebbero morti in combattimento, altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. Il secondo modo prevedeva che bisognasse restare all’interno, ignorando le intimazioni del nemico. Se tentavano di penetrare con la forza, bisognava respingerli con uno sbarramento di fuoco. In questo caso, si poteva resistere per tutto il giorno, perchè i tedeschi non sarebbero entrati, e ci si poteva mettere in salvo. Si sapeva, comunque, che i tedeschi usavano i gas ma questa eventualità non era stata presa in considerazione. Qualcuno ci aveva pure detto che se si teneva un panno bagnato in faccia, i gas non producevano un effetto immediato.
A questo punto, si decide di ignorare l’ingiunzione perentoria dei tedeschi.
Quando arrivano e intimano alla gente di venir fuori, escono i civili, che si consegnano al nemico; dei combattenti, invece, non esce nessuno. I tedeschi dichiarano che chi si arrende viene mandato ai lavori ma chi si rifiuta di uscire è condannato a morire fucilato sul posto. I nostri compagni, nel frattempo, si barricano vicino ai vicoli e aspettano, armi in pugno, l’arrivo dei tedeschi, i quali ribadiscono la loro promessa che nessun male verrà fatto a chi viene fuori. Tutti i combattenti, però, ignorano la loro richiesta. A questo punto, i tedeschi evitano di penetrare nel bunker e cominciano ad immettere i gas, che si diffondono rapidamente all’interno del bunker.
Così arriva la fine spaventosa per centoventi compagni. I tedeschi non li condannano ad una morte rapida, dal momento che introducono nel bunker quantità minime e intermittenti di gas, per fiaccare in questo modo il loro spirito con un lento e progressivo soffocamento. Arieh Wilner è il primo ad esortare i compagni: venite, uccidiamoci, così non cadiamo vivi in mano dei tedeschi! Detto e fatto. Inizia una serie di suicidi. Si sentono degli spari provenire dall’interno del bunker: alcuni combattenti ebrei si tolgono la vita. Avviene anche che un’arma si inceppa e il suo possessore, afflitto e confuso, chiede al compagno di ucciderlo, ma nessuno se la sente di farlo. Berel Broide, che ha la mano ferita e non può impugnare la pistola, chiede ai compagni di sopprimerlo. Mordechai Anilewitz, fiducioso che l’acqua possa neutralizzare l’effetto dei gas, consiglia ai compagni di provare a farlo. Ad un tratto, arriva qualcuno e dice che c’è un’uscita segreta, ignota al nemico, ma solo pochi riescono a raggiungerla, perchè chi è rimasto in vita, si è indebolito per i vapori letali dei gas e sta morendo soffocato.
Tra i combattenti del bunker di via Mila c’è anche Lusek Rothblatt, militante del gruppo Akiva, insieme a sua madre Maria, che, a suo tempo, aveva diretto un orfanotrofio e ai tempi della grande Aktzia [retata] era riuscita a salvare molti dei suoi ragazzi e li aveva raccolti in un casolare abbandonato. Che cosa sia poi successo a quegli orfani, nel periodo tra la grande Aktzia [retata] e l’inizio dell’insurrezione del Ghetto, proprio non lo so. Adesso Maria Rothblatt è accanto a suo figlio e in quei tragici momenti di assedio al bunker, gli chiede di toglierle la vita. Lusek le spara quattro colpi ma la donna non muore subito e agonizza in una pozza di sangue. A quel punto, anche Lusek si toglie la vita.

Così venne recisa la gloria della Varsavia ebraica in lotta. Qui i combattenti ebrei trovarono la morte e tra loro anche Mordechai Anilevitz, il più amato e caro tra i combattenti, il comandante coraggioso, di bell’aspetto, che anche nei momenti più terrificanti, aveva il sorriso sulle labbra. Pochi si salvarono da quell’inferno. Tra loro, quelli rimasti feriti nei tentati suicidi, quelli semisoffocati dai gas, come Menachem Bugelman del Dror e Yehuda Vangrobar dell’Hashomer Hatzair.
Fu uno spettacolo orribile, sconvolgente. Tutti aspettavamo la fine, sapevamo che si stava avvicinando e non avevamo scampo. E, tuttavia, questa storia ci fece rabbrividire e inorridire. Il cuore continuava a piangere la morte degli amici e la sofferenza dei compagni mezzi morti. E c’era solo un desiderio: porre fine per sempre a questa agonia. Non conoscevamo il nostro stato d’animo. Come pazzi correvamo qua e là intorno al bunker e con le nostre unghie tentavamo di strappare le pietre ammassate della barricata. Forse saremmo riusciti ad arrivare ai cadaveri, a prendere le armi, ma i tedeschi avevano fatto saltare in aria tutto con l’esplosivo.
In pochi, con un senso di cordoglio e di lutto, ci levammo da quel luogo orrendo per trovare un rifugio al manipolo di compagni feriti e stremati e per pensare al domani. Le labbra sussurrarono qualche parola di commiato ai nostri compagni fedeli e valorosi, la gloria del nostro sventurato eroismo era stata recisa, la fine dei nostri sogni e delle nostre speranze vi era rimasta sepolta. Provammo la sensazione di andarcene da qui nudi e privati dell’anima, dei sogni, della fede… Tutto è rimasto sepolto qui, per sempre.
varsavia ghetto 6

E non dimentichiamo mai che tutto questo non sarebbe avvenuto – non in queste proporzioni, almeno – se a quel tempo ci fosse stato lo stato di Israele. Che non è nato, come amano dire gli antisemiti, a causa di (o grazie a, a seconda dei punti di vista), Auschwitz, bensì nonostante Auschwitz.

barbara

ANCORA UN RICORDO DI TINA ANSELMI

Perché ci sono persone troppo grandi per starci tutte intere in un post solo, e quindi adesso ne metto un secondo. E non sarà l’ultimo.

In ascolto – Bella ciao

Il paese piange la scomparsa di Tina Anselmi, una donna dalla biografia straordinaria che amava raccontare le proprie esperienze inserendole nel contesto della normalità. Quando decide di combattere il nazifascismo e di entrare nella brigata Cesare Battisti ha solo 17 anni. Lascia la casa e la famiglia e diventa Gabriella, staffetta partigiana. Ma questo è solo l’inizio di una lunga serie di scelte coraggiose e Tina, con ironia, intelligenza e modi semplici e schietti, dedicherà la sua vita all’impegno politico e alla ricerca della giustizia. Molto è stato scritto su di lei in questi giorni e non intendo ripercorrere in dettaglio le tappe della sua carriera o le sue conquiste, soprattutto perché questa è una rubrica che si occupa di musica. Vorrei dunque ricordare Tina Anselmi con una canzone, molto particolare, che riassume in sé due aspetti importanti della sua vita e racconta due contesti storici e sociali distinti. La canzone è “Bella Ciao delle Mondine”. Su Bella Ciao si è studiato e scritto molto e proprio quest’anno è uscito il testo interessante di Carlo Pestelli, che analizza i diversi strati di formazione del brano, in cui si intrecciano suggestioni russe con le note di un’antica melodia francese, quelle di un motivo klezmer registrato agli inizi del ‘900. Enrico Strobino l’ha definita una canzone gomitolo in cui si riuniscono molti fili. Credo che Bella Ciao sia significativa per ricordare Tina Anselmi, perché a ragione o a torto nell’immaginario collettivo resta pur sempre il simbolo musicale della Resistenza partigiana e le sue note rendono omaggio a quella sua prima scelta che le segnò la vita in modo indelebile. Nella versione che ascoltiamo oggi però, non ci sono l’invasore, il fiore del partigiano o il passaggio delle genti, ma la denuncia da parte di una categoria di lavoratrici, le mondine, che ci riportano idealmente alle tante battaglie condotte da Tina Anselmi per la creazione di una consapevolezza nelle donne e la conquista delle pari opportunità. Infine questa canzone ha per certi versi l’aspetto di un monito, perché se contestualizzata ci porta a ripensare a due momenti fondamentali della nostra storia, due momenti mai chiusi definitivamente e ci fa tornare in mente le parole pacate di Tina di qualche anno fa: “Dico sempre alle mie nipoti: attente, fate la guardia, perché le conquiste non sono mai definitive”.
Maria Teresa Milano
(Moked, 3 novembre 2016)

(E sarà anche una merdaccia, come ha detto qualcuno, o semplicemente una “onesta cantante di balera prima di conoscere Strehler”, come ha generosamente concesso qualcun altro, ma di voce e doti interpretative come quelle di Milva, io in giro non ne vedo mica tante)

barbara

PER ME È STATA UNA GRANDISSIMA DONNA

Ve lo ricordate come la sfottevano negli anni Settanta per quel suo aspetto decisamente poco aristocratico? E le gag alla radio: “Ghe spussa el fià”. E a me piaceva. Con quella sua semplicità. Con quell’aria da massaia un po’ trasandata. E con quel grande passato, e con quella passione politica che mai l’ha abbandonata. Ciao Tina, voglio ricordarti con queste parole non mie, ma che mi sono piaciute e ti dipingono molto bene.

Addio, staffetta Gabriella, cento chilometri al giorno in bicicletta e una gran fame.
Addio, staffetta Gabriella, pronta a morire a 17 anni “che ogni volta che uscivo di casa speravo di non dover sparare”.
Addio, staffetta Gabriella, che una notte a. Castelfranco arrestò un’ombra nella piazza perché non ricordava la parola d’ordine. E quell’ombra era suo padre, perseguitato dai fascisti.
Addio, staffetta Gabriella, che andò casa per casa a incoraggiar le donne per prendersi il diritto di votare. E ancora si chiedeva “perché per noi donne gli esami non finiscono mai. Come se essere maschio fosse un lasciapassare per la consapevolezza democratica”.
Addio, staffetta Gabriella, quando essere sindacaliste significava difendere “le mani lessate delle filandiere”.
Addio, staffetta Gabriella, che quando ti chiedevano se rimpiangevi la condizione di signorina rispondevi, dietro suggerimento della Sandra Codazzi, “signorina ma non per forza”.
Addio, staffetta Gabriella, prima donna ministro della storia della Repubblica e instancabile “acchiappafantasmi” della commissione d’inchiesta sulla P2.
Addio, Tina Anselmi, che ci hai insegnato anche a essere donne coraggiose. (qui)
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barbara