OGGI UN PO’ DI COSE BELLE

Comincio con il riminese di 101 anni, sopravvissuto alla Spagnola, sopravvissuto alla seconda guerra mondiale (ma un sito israeliano dice “sopravvissuto all’Olocausto”), che ora si è ammalato di covid19, ed è guarito (la famosa carica dei 101).
101
Passo a questa

Notizia del TG Kan 11 poco fa:
un’industria israeliana che produce missili , una settimana fa, ha convertito una linea di produzione per creare dei macchinari per la respirazione automatica di malati di coronavirus che siano in gravi condizioni ed abbiano bisogno di respiratori.
Oggi sono stati consegnati i primi 30 macchinari. In tempo di record!
“Se hai un problema devi trovare la soluzione”… (qui)

Come gli Stati Uniti all’inizio della seconda guerra mondiale hanno riconvertito molte industrie passandole alla produzione bellica, ora Israele, di fronte a una guerra forse non più importante ma sicuramente più urgente di quella consueta, riconverte le industrie belliche passandole alla produzione di apparecchiature sanitarie. E naturalmente non pensa solo a sé:
respiratori
qui.

Poi vi regalo il premier albanese che ci viene in aiuto

e il grazie all’Albania da parte di un flautista

un momento di relax di un medico a fine turno

e infine un pensiero per noi da Israele

E per concludere vi mostro, sempre da Israele, la preghiera al Muro del Pianto quando al Muro del Pianto non si può andare,
kotel
e quello che può succedere quanto per due settimane non si può uscire di casa,
2 sett. quar
e infine una bellissima striscia che ci mostra inconfutabilmente che la migliore arma per sconfiggere il virus è la pasta (chi ha difficoltà a leggere clicchi sull’immagine per vedere l’originale)
pasta-resistenza
barbara

JUDEN HABEN WAFFEN!

Pochi giorni fa ricorreva il settantaquattresimo anniversario della fine dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poiché il cannocchiale è irraggiungibile da ormai oltre un mese e mezzo, e temo che sia definitivamente defunto – con conseguente perdita del migliaio buono di documenti postati in sei anni e mezzo – ripropongo qui il post pubblicato undici anni fa.

varsavia ghetto 1
È con questo grido sgomento che i tedeschi accolgono l’incredibile, l’impensabile, l’inimmaginabile: gli ebrei hanno armi. Questo branco di Untermenschen, questa ammucchiata di straccioni pidocchiosi indegni di vivere, hanno deciso di ribellarsi al destino loro assegnato: moriranno, sì, ma non in una camera a gas. Moriranno, sì, ma con le armi in pugno. Moriranno, sì, ma morirà con loro anche qualche combattente dell’esercito più potente del mondo, qualche rappresentante della razza dei superuomini, qualche orgoglioso dominatore ariano. E questa banda di straccioni riuscì a resistere all’esercito tedesco per quasi un mese: fino all’8 maggio 1943.
Quello che segue è un brano dal diario di Zvia Lubetkin, che fu tra i capi dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia (aprile 1943). Dopo la guerra, Zvia è emigrata in Israele con altri superstiti e nel giugno del 1946 ha rilasciato la sua prima testimonianza al Comitato del Kibbutz Hameuhad, al kibbutz Yagur. Zvia è stata tra i fondatori del kibbutz “Lohamei haghetaot”, in cui si è spenta nel 1978, a 64 anni.

varsavia ghetto 2
Si fa sera. Io e Haim Primer, del gruppo Akiva, ci mettiamo in cammino e Marek Edelman è con noi. Siccome anche Marek rientra nel nòvero dei “ragazzi indisciplinati”, quelli cioè che se ne infischiano degli accorgimenti di sicurezza, ecco che allora prendiamo con noi una candela per illuminarci la strada. La cosa è assolutamente proibita. La candela potrebbe metterci nei guai, ma, del resto, è difficile farne a meno e noi dobbiamo procedere furtivamente tra le rovine.
varsavia ghetto 3
Un soffio di vento spegne il lume. Rimaniamo bloccati tra le rovine di un caseggiato completamente buio, senza sapere dove siamo e dove andiamo. Cominciamo a scalare quell’ammasso di detriti. Ad un tratto, non so come, scivolo rovinosamente e cado dentro ad una buca tra le rovine. So che non devo urlare. Il primo pensiero che mi salta in mente è questo: dov’è la pistola? I miei compagni si sono spaventati più di me, perchè non sanno cosa mi sia successo. A fatica mi tirano fuori dalla buca. Zoppicante e piena di graffi, continuo il cammino.
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Ci avviciniamo a via Mila 18, dove ha sede il bunker principale dell’Organizzazione Ebraica di Combattimento. Il nostro spirito si rianima. Ci mettiamo a programmare degli scherzi da fare ai compagni che stanno di guardia all’entrata. Ma, ben presto, nei pressi del bunker, rimaniamo sorpresi perchè ci accorgiamo che qualcosa è cambiato, rispetto ai giorni passati. Non riesco a riconoscere il posto e, anzi, per un momento, mi sembra che abbiamo sbagliato strada. C’è qualcosa di diverso. Le rovine sono piene di brecce. Non ci sono le sentinelle vicino al nascondiglio, e il nascondiglio stesso, dov’è andato a finire? A un tratto, sono presa da un senso di angoscia, provo a soffocarla, forse i guardiani del bunker si sono spostati per coprirsi meglio. E loro stessi hanno messo le pietre all’entrata per camuffarla. Il bunker ha sei entrate. Noi ci dirigiamo verso la seconda, la terza, la quarta. Non esistono più e non si vede neppure traccia di un guardiano. Il cuore si riempie di orrore e ha tristi presagi. Uno di noi pronuncia la parola d’ordine, nel caso che una sentinella nascosta ci risponda, ma non si ode voce o segno di risposta.
varsavia ghetto 5
A questo punto, cominciamo a muoverci nervosamente e il timore di una disgrazia si fa largo nei nostri cuori. Nel cortile accanto, vediamo d’un tratto delle ombre che si muovono nelle tenebre, c’è chi è seduto e chi cammina. In un primo tempo, abbiamo l’impressione che il nostro gruppo si sia messo in azione come è solito fare al calar della sera. Ci dirigiamo gioiosamente verso quelle figure indistinte, che riconosciamo come i nostri compagni. Ma, subito dopo, ci arrestiamo davanti ad uno spettacolo terribile: davanti ai nostri occhi si presentano degli esseri sporchi di fango e di sabbia, stremati e tremanti come se non fossero di questo mondo. Uno di loro si accascia al suolo svenuto, un altro respira a fatica, Yehuda Vangrobar, dell’Hashomer hatzair, emette dei rantoli soffocati, pesanti e Tossia Altman giace a terra, ferita alla testa e alle gambe. Siamo attorniati da gente a pezzi, che, in modo concitato, ci racconta ciò che è successo, in che modo è andato distrutto il bunker dei combattenti ebrei di via Mila 18 e come in pochi siano riusciti a mettersi in salvo.
Qui incontriamo tre compagni, che come noi sono usciti l’altro ieri dal bunker per andare in missione nella parte ariana e sono tornati poco fa. Tuvia Bojikowsky, Mordechai Grovas, comandante di una delle compagnie dell’Hashomer Hatzair, soprannominato Mardek e Israel Kanal. Anche loro sono usciti in missione al di là della parte ariana, sono rimasti bloccati da qualche parte come noi e non hanno potuto fare ritorno. Si sono imbattuti e scontrati con una pattuglia tedesca, ne sono usciti illesi e sono rimasti nascosti tra gli ammassi di detriti, pronti ad affrontare il nemico. Sono arrivati qui prima di noi e hanno sentito le cose terribili avvenute nel bunker di via Mila 18.

E questo è quanto abbiamo raccolto dalle testimonianze dei superstiti:

Nel pomeriggio, mentre giacciono mezzi nudi sui loro giacigli, una sentinella dell’avamposto fa correr voce che dei gendarmi tedeschi si stanno avvicinando al bunker e, infatti, si sentono distintamente i loro passi. In questi casi, i combattenti prevedevano di reagire in due modi diversi. Secondo il primo, siccome i tedeschi inizialmente erano soliti ingiungere agli ebrei di venir fuori, allora usciva prima la nostra compagnia con le armi nascoste e dopo qualche secondo apriva il fuoco sul nemico e, nel trambusto che ne seguiva, i combattenti si sarebbero dileguati in ogni parte. Alcuni sarebbero morti in combattimento, altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. Il secondo modo prevedeva che bisognasse restare all’interno, ignorando le intimazioni del nemico. Se tentavano di penetrare con la forza, bisognava respingerli con uno sbarramento di fuoco. In questo caso, si poteva resistere per tutto il giorno, perchè i tedeschi non sarebbero entrati, e ci si poteva mettere in salvo. Si sapeva, comunque, che i tedeschi usavano i gas ma questa eventualità non era stata presa in considerazione. Qualcuno ci aveva pure detto che se si teneva un panno bagnato in faccia, i gas non producevano un effetto immediato.
A questo punto, si decide di ignorare l’ingiunzione perentoria dei tedeschi.
Quando arrivano e intimano alla gente di venir fuori, escono i civili, che si consegnano al nemico; dei combattenti, invece, non esce nessuno. I tedeschi dichiarano che chi si arrende viene mandato ai lavori ma chi si rifiuta di uscire è condannato a morire fucilato sul posto. I nostri compagni, nel frattempo, si barricano vicino ai vicoli e aspettano, armi in pugno, l’arrivo dei tedeschi, i quali ribadiscono la loro promessa che nessun male verrà fatto a chi viene fuori. Tutti i combattenti, però, ignorano la loro richiesta. A questo punto, i tedeschi evitano di penetrare nel bunker e cominciano ad immettere i gas, che si diffondono rapidamente all’interno del bunker.
Così arriva la fine spaventosa per centoventi compagni. I tedeschi non li condannano ad una morte rapida, dal momento che introducono nel bunker quantità minime e intermittenti di gas, per fiaccare in questo modo il loro spirito con un lento e progressivo soffocamento. Arieh Wilner è il primo ad esortare i compagni: venite, uccidiamoci, così non cadiamo vivi in mano dei tedeschi! Detto e fatto. Inizia una serie di suicidi. Si sentono degli spari provenire dall’interno del bunker: alcuni combattenti ebrei si tolgono la vita. Avviene anche che un’arma si inceppa e il suo possessore, afflitto e confuso, chiede al compagno di ucciderlo, ma nessuno se la sente di farlo. Berel Broide, che ha la mano ferita e non può impugnare la pistola, chiede ai compagni di sopprimerlo. Mordechai Anilewitz, fiducioso che l’acqua possa neutralizzare l’effetto dei gas, consiglia ai compagni di provare a farlo. Ad un tratto, arriva qualcuno e dice che c’è un’uscita segreta, ignota al nemico, ma solo pochi riescono a raggiungerla, perchè chi è rimasto in vita, si è indebolito per i vapori letali dei gas e sta morendo soffocato.
Tra i combattenti del bunker di via Mila c’è anche Lusek Rothblatt, militante del gruppo Akiva, insieme a sua madre Maria, che, a suo tempo, aveva diretto un orfanotrofio e ai tempi della grande Aktzia [retata] era riuscita a salvare molti dei suoi ragazzi e li aveva raccolti in un casolare abbandonato. Che cosa sia poi successo a quegli orfani, nel periodo tra la grande Aktzia [retata] e l’inizio dell’insurrezione del Ghetto, proprio non lo so. Adesso Maria Rothblatt è accanto a suo figlio e in quei tragici momenti di assedio al bunker, gli chiede di toglierle la vita. Lusek le spara quattro colpi ma la donna non muore subito e agonizza in una pozza di sangue. A quel punto, anche Lusek si toglie la vita.

Così venne recisa la gloria della Varsavia ebraica in lotta. Qui i combattenti ebrei trovarono la morte e tra loro anche Mordechai Anilevitz, il più amato e caro tra i combattenti, il comandante coraggioso, di bell’aspetto, che anche nei momenti più terrificanti, aveva il sorriso sulle labbra. Pochi si salvarono da quell’inferno. Tra loro, quelli rimasti feriti nei tentati suicidi, quelli semisoffocati dai gas, come Menachem Bugelman del Dror e Yehuda Vangrobar dell’Hashomer Hatzair.
Fu uno spettacolo orribile, sconvolgente. Tutti aspettavamo la fine, sapevamo che si stava avvicinando e non avevamo scampo. E, tuttavia, questa storia ci fece rabbrividire e inorridire. Il cuore continuava a piangere la morte degli amici e la sofferenza dei compagni mezzi morti. E c’era solo un desiderio: porre fine per sempre a questa agonia. Non conoscevamo il nostro stato d’animo. Come pazzi correvamo qua e là intorno al bunker e con le nostre unghie tentavamo di strappare le pietre ammassate della barricata. Forse saremmo riusciti ad arrivare ai cadaveri, a prendere le armi, ma i tedeschi avevano fatto saltare in aria tutto con l’esplosivo.
In pochi, con un senso di cordoglio e di lutto, ci levammo da quel luogo orrendo per trovare un rifugio al manipolo di compagni feriti e stremati e per pensare al domani. Le labbra sussurrarono qualche parola di commiato ai nostri compagni fedeli e valorosi, la gloria del nostro sventurato eroismo era stata recisa, la fine dei nostri sogni e delle nostre speranze vi era rimasta sepolta. Provammo la sensazione di andarcene da qui nudi e privati dell’anima, dei sogni, della fede… Tutto è rimasto sepolto qui, per sempre.
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E non dimentichiamo mai che tutto questo non sarebbe avvenuto – non in queste proporzioni, almeno – se a quel tempo ci fosse stato lo stato di Israele. Che non è nato, come amano dire gli antisemiti, a causa di (o grazie a, a seconda dei punti di vista), Auschwitz, bensì nonostante Auschwitz.

barbara

ANCORA UN RICORDO DI TINA ANSELMI

Perché ci sono persone troppo grandi per starci tutte intere in un post solo, e quindi adesso ne metto un secondo. E non sarà l’ultimo.

In ascolto – Bella ciao

Il paese piange la scomparsa di Tina Anselmi, una donna dalla biografia straordinaria che amava raccontare le proprie esperienze inserendole nel contesto della normalità. Quando decide di combattere il nazifascismo e di entrare nella brigata Cesare Battisti ha solo 17 anni. Lascia la casa e la famiglia e diventa Gabriella, staffetta partigiana. Ma questo è solo l’inizio di una lunga serie di scelte coraggiose e Tina, con ironia, intelligenza e modi semplici e schietti, dedicherà la sua vita all’impegno politico e alla ricerca della giustizia. Molto è stato scritto su di lei in questi giorni e non intendo ripercorrere in dettaglio le tappe della sua carriera o le sue conquiste, soprattutto perché questa è una rubrica che si occupa di musica. Vorrei dunque ricordare Tina Anselmi con una canzone, molto particolare, che riassume in sé due aspetti importanti della sua vita e racconta due contesti storici e sociali distinti. La canzone è “Bella Ciao delle Mondine”. Su Bella Ciao si è studiato e scritto molto e proprio quest’anno è uscito il testo interessante di Carlo Pestelli, che analizza i diversi strati di formazione del brano, in cui si intrecciano suggestioni russe con le note di un’antica melodia francese, quelle di un motivo klezmer registrato agli inizi del ‘900. Enrico Strobino l’ha definita una canzone gomitolo in cui si riuniscono molti fili. Credo che Bella Ciao sia significativa per ricordare Tina Anselmi, perché a ragione o a torto nell’immaginario collettivo resta pur sempre il simbolo musicale della Resistenza partigiana e le sue note rendono omaggio a quella sua prima scelta che le segnò la vita in modo indelebile. Nella versione che ascoltiamo oggi però, non ci sono l’invasore, il fiore del partigiano o il passaggio delle genti, ma la denuncia da parte di una categoria di lavoratrici, le mondine, che ci riportano idealmente alle tante battaglie condotte da Tina Anselmi per la creazione di una consapevolezza nelle donne e la conquista delle pari opportunità. Infine questa canzone ha per certi versi l’aspetto di un monito, perché se contestualizzata ci porta a ripensare a due momenti fondamentali della nostra storia, due momenti mai chiusi definitivamente e ci fa tornare in mente le parole pacate di Tina di qualche anno fa: “Dico sempre alle mie nipoti: attente, fate la guardia, perché le conquiste non sono mai definitive”.
Maria Teresa Milano
(Moked, 3 novembre 2016)

(E sarà anche una merdaccia, come ha detto qualcuno, o semplicemente una “onesta cantante di balera prima di conoscere Strehler”, come ha generosamente concesso qualcun altro, ma di voce e doti interpretative come quelle di Milva, io in giro non ne vedo mica tante)

barbara

PER ME È STATA UNA GRANDISSIMA DONNA

Ve lo ricordate come la sfottevano negli anni Settanta per quel suo aspetto decisamente poco aristocratico? E le gag alla radio: “Ghe spussa el fià”. E a me piaceva. Con quella sua semplicità. Con quell’aria da massaia un po’ trasandata. E con quel grande passato, e con quella passione politica che mai l’ha abbandonata. Ciao Tina, voglio ricordarti con queste parole non mie, ma che mi sono piaciute e ti dipingono molto bene.

Addio, staffetta Gabriella, cento chilometri al giorno in bicicletta e una gran fame.
Addio, staffetta Gabriella, pronta a morire a 17 anni “che ogni volta che uscivo di casa speravo di non dover sparare”.
Addio, staffetta Gabriella, che una notte a. Castelfranco arrestò un’ombra nella piazza perché non ricordava la parola d’ordine. E quell’ombra era suo padre, perseguitato dai fascisti.
Addio, staffetta Gabriella, che andò casa per casa a incoraggiar le donne per prendersi il diritto di votare. E ancora si chiedeva “perché per noi donne gli esami non finiscono mai. Come se essere maschio fosse un lasciapassare per la consapevolezza democratica”.
Addio, staffetta Gabriella, quando essere sindacaliste significava difendere “le mani lessate delle filandiere”.
Addio, staffetta Gabriella, che quando ti chiedevano se rimpiangevi la condizione di signorina rispondevi, dietro suggerimento della Sandra Codazzi, “signorina ma non per forza”.
Addio, staffetta Gabriella, prima donna ministro della storia della Repubblica e instancabile “acchiappafantasmi” della commissione d’inchiesta sulla P2.
Addio, Tina Anselmi, che ci hai insegnato anche a essere donne coraggiose. (qui)
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barbara

IL PARTIGIANO JOHNNY

Il capolavoro che racconterà per sempre che cosa sono stati i partigiani e la Resistenza in Italia.

Che se fossi toscana tanto per cominciare direi capolavoro una bella sega. Poi magari con calma chiederei anche cosa vuol dire che racconterà per sempre che cosa sono stati i partigiani e la Resistenza in Italia: forse vuol dire che questo libro è eterno e così questa cosa la sapremo per sempre mentre gli altri libri non lo sono e magari un giorno potremmo non sapere più che Caina attende chi a vita li spense? Boh. Finora comunque sono arrivata, molto faticosamente – e non solo per i problemi fisici – a metà, e sinceramente non so se lo finirò perché è davvero un mattone pazzesco, che si dipana tra azioni improvvisate e velleitarie oltre che dilettantesche e descrizioni di lunghi luunghi luuunghi momenti di noia, con pagine talmente noiose che se ti distrai un attimo poi non ti ricordi più dov’eri arrivato e ti ritrovi a rileggere tre volte di fila la stessa cosa, e te ne rendi conto solo quando incontri una parola strana che aveva attirato la tua attenzione, come il verbo “verticare”. Dice che è in gran parte autobiografico: e allora? Questo è sufficiente a garantire un’obiettività tale su tutta la guerra partigiana, su tutta la resistenza da diventare IL libro che racconta quella parte della nostra Storia?
E poi la lingua: passino le parole inventate, spesso simpatiche e comunque di solito comprensibili, ma l’inglese? Non c’è praticamente una frase che non abbia almeno qualche parola inglese, così, per puro sfizio, o per mostrare quanto è bravo, chissà. O addirittura frasi interamente in inglese. O frasi in italiano ma costruite all’inglese: “l’esercito che egli desiderava entrare in”. Frasi in cui ti rompi la testa per capire cosa significhino fino a quando non ti arriva l’illuminazione e ti rendi conto che “un conosciuto” non è un articolo indeterminativo + participio passato in funzione aggettivale sostantivata, no: è il participio passato con la negazione inglese: unknown. E poi frasi talmente sconclusionate che le rileggi tre volte per cercare di capire cosa diavolo vogliano dire e alla fine rinunci e ti arrendi all’evidenza che non vogliono proprio dire niente. In ogni caso trovo semplicemente indecente scrivere un romanzo italiano che se non sai l’inglese non capisci un piffero.
Concludendo: capolavoro una bella sega (meglio, molto meglio, infinitamente meglio Il sentiero dei nidi di ragno).

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi
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barbara

IL SESSO SECONDO KHOMEINI PARTE SECONDA

(La prima parte era qui)
Khomeinysexe
“L’uomo può avere rapporti sessuali con animali quali montoni, mucche, cammelli eccetera. Dopo avere avuto l’orgasmo, però, deve sgozzare l’animale. Non deve vendere la carne alla gente del suo villaggio, ma la vendita di questa carne a un altro villaggio vicino è ammessa”.

Più o meno lo stesso principio – fatte le debite proporzioni – per cui prima stupri una donna e poi la lapidi perché è una immonda fornicatrice e non è ammissibile tollerare la sua presenza impura, rischiando di venirne contaminati. E se dopo averla stuprata provvedi a lavarti accuratamente prima di pregare, guadagni anche un bordello di punti.

Per fortuna che in Iran almeno ci sono le donne, che all’avvento della barbarie hanno opposto fino all’ultimo una disperata resistenza,

e che ancora oggi, quando possono, fieramente si ribellano (infiniti altri esempi sono documentati in questo blog.

barbara

GEORGES LOINGER

Georges Loinger è un ebreo alsaziano. Quando Emanuel Segre Amar lo ha casualmente scoperto, lo ha contattato a Parigi, dove oggi vive, e nel corso del colloquio intrattenuto con lui, ad un certo momento ha chiesto: “Sarebbe disposto a venire a Torino per una conferenza, per raccontare anche ad altri tutte queste cose straordinarie che sta raccontando a me?”, e Georges ha risposto: “Ho già la valigia pronta”.
Georges Loinger ha 105 anni. Usa il bastone, ma non vi si appoggia più di tanto, sale e scende le scale con incredibile sicurezza, ha voce ferma e, soprattutto, una cristallina lucidità mentale e una memoria priva di ombre. E un sorriso di quelli che ti scaldano dentro. Gli oltre 1000 chilometri che ho percorso, fra andata e ritorno, per andarlo ad ascoltare, sono sicuramente stati fra i meglio spesi della mia vita (con un sentito grazie al Gruppo Sionistico Piemontese e alla Comunità Ebraica di Torino, che hanno organizzato questo straordinario evento).
La prima parte della conferenza è stata dedicata agli anni della guerra, con un non superficiale accenno a quelli che l’hanno preceduta, con i comizi di Hitler, i suoi roboanti proclami, la dichiarata intenzione di sterminio totale nei confronti degli ebrei; gli ebrei alsaziani, residenti in una zona di confine (soggetta a vari passaggi da uno stato all’altro nel corso della storia) e perfettamente bilingui, li ascoltavano, li capivano, e si rendevano conto che non si trattava di sparate a scopo propagandistico, ma di un preciso programma politico, e hanno deciso di non subire passivamente lo sterminio, ma di scegliere la resistenza armata: la prima resistenza del periodo hitleriano. Arruolatosi poi con gli alleati, viene fatto prigioniero e portato in Germania, dove svolge lavoro d’ufficio come interprete; lì viene a sapere, tramite la Croce Rossa, che sua moglie ha organizzato un rifugio in cui dà riparo a 123 bambini ebrei. Decide dunque che deve aiutare la moglie e fugge, attraversando a nuoto il fiume di confine e a piedi tutto il resto, mezza Germania e mezza Francia, insieme al cugino Marcel Mangel (meglio noto come Marcel Marceau) e inizia così la sua opera di salvataggio, che lo porterà a mettere in salvo oltre 1000 bambini, cercando anche, attraverso la Spagna (neutrale), finanziamenti negli Stati Uniti. Nell’ambito della rievocazione delle vicende belliche, ha trovato il giusto spazio anche il riconoscente ricordo dell’occupazione del sud della Francia da parte dell’Italia, fino all’8 settembre 1943; da parte dei carabinieri italiani, per la precisione, che non solo si sono sempre fermamente rifiutati di consegnare i “loro” ebrei ai tedeschi, ma hanno anche consentito loro il massimo possibile di libertà di movimento e di culto. Poiché era previsto che Georges Loinger avrebbe rievocato questa vicenda, era stato invitato alla conferenza il generale Gino Micale, comandante della Legione Carabinieri Piemonte e Valle d’Aosta, accolto, in memoria di quanto fatto dall’Arma che egli rappresenta, da uno scrosciante applauso di (quasi) tutto il pubblico presente.
Finita la guerra, si dedica, nell’ambito della sua opera volta a contribuire all’immigrazione clandestina nella Palestina sotto mandato britannico, a un’impresa altrettanto grandiosa del salvataggio dei bambini: la vicenda di Exodus. Pochi, probabilmente, sanno che dietro a quella vicenda, in un ruolo di primo piano, c’è ancora lui, Georges Loinger: è lui, infatti, ad occuparsi delle modifiche necessarie a riadattare una nave costruita per trasportare 5-600 persone in modo che ne possa contenere 4500. Ed è sempre lui a organizzare il trasporto di tutte queste migliaia di sopravvissuti alla Shoah dalla stazione di arrivo al porto d’imbarco con 200 camion. Ora, proviamo a ricordare cos’era l’Europa poco dopo la fine della guerra, strade bombardate, ponti distrutti, passaggi ostruiti; e proviamo a immaginare che cosa significasse reperire anche solo un paio di mezzi di trasporto, per non parlare di centinaia. E lui niente, lo racconta così, con nonchalance, come uno che dicesse “poi siamo andati a comprare il pane” – ossia con quella totale inconsapevolezza della propria grandezza che hanno i veri grandi. Le vicende legate all’Exodus sono note: si trattava di una provocazione costruita da Ben Gurion allo scopo preciso di creare un caso mondiale che attirasse l’attenzione sulla drammatica situazione dei sopravvissuti alla Shoah cui la Gran Bretagna impediva l’ingresso in Eretz Israel, e spesso accampati in campi di raccolta che troppo ricordavano i campi nazisti. E quanto avvenuto all’arrivo della nave al porto di Haifa, con le forze armate britanniche che sparano sui sopravvissuti e li costringono a tornare indietro, in quell’Europa che li aveva sterminati, in quell’Europa ancora maleodorante delle decine di migliaia di tonnellate di carne umana bruciata, in quell’Europa in cui a nessun costo volevano mai più rimettere piede, riuscì effettivamente a scuotere le coscienze.
Terminata la seconda parte, si erano fatte le otto di sera, e Georges Loinger, che era uscito di casa la mattina per atterrare a Torino nel primo pomeriggio e, a parte un’oretta di riposo in albergo, non si era mai fermato e in quel momento stava parlando da un’ora e mezza, ha dichiarato di essere un po’ stanco e di non sentirsi di affrontare la terza parte programmata. Di questa ha perciò brevemente parlato Emanuel Segre Amar, ma quando ha terminato la sua esposizione, il nostro incredibile Georges ha ripreso la parola per aggiungere ancora qualche dettaglio, per precisare, per chiarire, per completare. Si tratta di un episodio pressoché sconosciuto, avvenuto nel 1959. Il gesuita Michel Riquet, amico di Loinger, decide di dare vita a un atto simbolico di grande impatto di riconciliazione fra tedeschi e francesi, e organizza il primo congresso eucaristico, riunendo appunto cattolici francesi e tedeschi; e affinché questa simbologia sia davvero potente, vuole che questo incontro tra francesi e tedeschi avvenga su una nave israeliana. A questo provvederà appunto Georges Loinger, all’epoca direttore della compagnia di navigazione israeliana ZIM, procurando una nave capace di ospitare 350 persone. Ultima tappa del percorso – per rendere ancora più luminosa questa simbologia di riconciliazione – sarà la città di Barcellona: la prima presenza ebraica ufficiale in terra di Spagna dopo la cacciata del 1492. Al viaggio prese parte anche Georges Loinger, che consegnò al sindaco di Barcellona una Bibbia donata dal vice sindaco di Gerusalemme.
Aggiungo ancora qualche nota di colore, diciamo così, a margine. Tra il pubblico, accorso numeroso ed entusiasta ad ascoltare questo straordinario personaggio, attore e testimone allo stesso tempo, brillavano alcune consistenti assenze, che non specificherò, per carità di patria, come si suol dire; dirò solo che qualcuno ha ritenuto l’ideologia più importante della conoscenza (Georges Loinger è fortemente filoisraeliano) e qualcun altro è rimasto schiavo delle proprie personali antipatie nei confronti di chi ha voluto e organizzato l’evento e ha scelto, pertanto, di boicottarlo.
Ancora un’ultima cosa: questa di Torino è stata la prima conferenza in Italia di Georges Loinger; a quanto pare ci ha preso gusto, e ha accolto con piacere la proposta avanzata da Emanuel Segre Amar di organizzare, finita l’estate, altre tre conferenze: a Roma, a Venezia e a La Spezia. E magari per allora avrà portato a termine il quinto libro, in cui ci insegnerà come restare giovani e brillanti a cent’anni suonati.
George Loinger
barbara