QUEI RAGAZZINI CHE SI SUICIDANO

Andrea, di Roma, 15 anni si è impiccato. E la prima preoccupazione della famiglia sembra essere stata quella di proclamare che no, non è mica vero che era omosessuale: si travestiva per gioco, ma in realtà era “normale”. Perché il marchio d’infamia bisogna toglierlo, subito, sai che vergogna per la famiglia se fosse vero che era uno sporco finocchio! La prima preoccupazione della scuola invece è stata quella di scagionare tutti, compagni e insegnanti: prese in giro? Insulti? Persecuzioni? Tutte balle, qui siamo tutti santi, tutti angeli, non abbiamo pregiudizi, quel ragazzo lo adoravamo. Evidentemente si è impiccato perché un giorno gli è entrato un moscerino nell’occhio e non ha visto la corda. E dopo Andrea il ragazzo di Vicenza, 16 anni, situazione analoga; non è arrivato al suicidio perché i genitori hanno avuto la capacità di “vedere” e hanno trovato la volontà e il coraggio di prendere in mano la situazione, scongiurando così il peggio.
Sono andata a ripescare un post scritto, in una identica circostanza, circa cinque anni fa, e ho visto che lo posso riproporre pari pari, senza cambiare una virgola, come se lo avessi scritto oggi per la circostanza attuale.

 

DEL SEDICENNE SUICIDA, DELLA SCUOLA E DI ALTRO

Chiunque insegni e sia capace di vedere ciò che ha intorno lo sa: in ogni classe c’è un bersaglio fisso. Da sempre. Non ci sono eccezioni. Il più delle volte è uno bravo, ma occasionalmente può anche non esserlo. Quasi sempre è un maschio. Qualche volta i bersagli fissi sono due, e in questi casi sono sempre un maschio e una femmina. Una volta, quando ho avuto l’impressione che il rischio di suicidio da parte del bersaglio fosse molto elevato, ho chiesto l’intervento di un sociologo. Il preside per prima cosa ha chiesto al consiglio di classe se avesse notato qualcosa: naturalmente nessuno aveva notato alcunché di particolare. In questi casi la persona maggiormente ascoltata è la collega di arte, laureata in architettura e ora laureanda in psicologia. Ovviamente – e chi ha a che fare con psicologi e affini avrà ben chiaro il motivo per cui dico “ovviamente” – fra tutti noi è quella che ha il peggiore rapporto con gli scolari, non riesce a farsi rispettare, la sbeffeggiano, e per riuscire ad avere un minimo di ascolto impone una disciplina da caserma. E, va da sé, non capisce niente di quello che succede in classe. La situazione normale comunque è che io dico succede questo e succede quest’altro, tutti gli altri dicono no, io non ho mai visto succedere niente, e quindi non se ne fa niente. Nonostante l’episodio di M. Avevo, con lui, denunciato sintomi di gravissimo disagio. Avevo più che fondati sospetti che subisse violenza sessuale dal padre e sistematiche sevizie da parte della madre. Niente: M. è un rompicoglioni, punto e basta. Ho mosso mari e monti, per quel ragazzo, ma non sono riuscita ad impedire che la sofferenza superasse la sua capacità di sopportazione: ad un certo punto ha staccato la spina. Ha smesso di camminare, di muoversi, di mangiare, di parlare. Passava le giornate chiuso in casa immobile, muto, a fissare il vuoto con occhi privi di espressione. Dovrebbero saperlo, dunque, che quando grido al lupo farebbero meglio a guardarsi intorno perché il lupo c’è. E invece niente. Le cose strane succedono, ammesso che sia proprio vero che vero che succedono – perché anche questo viene messo in dubbio – solo da me, da loro non succede niente, è tutto normale, niente da segnalare. E così dunque anche con K. In quell’occasione, comunque, era fortunatamente successo che il preside aveva visto il ragazzo in questione che aspettava l’autobus delle superiori perché in quello delle medie non lo lasciavano salire. Non che se saliva poi lo maltrattavano, no: proprio gli impedivano materialmente di salire. Di conseguenza era discretamente propenso ad ascoltarmi. L’intervento del sociologo poi l’ho ottenuto, ma solo perché quella era una classe speciale, che seguiva un progetto particolare. Ci è costato, per inciso, un migliaio di euro. Attraverso drammatizzazioni di tipo teatrale, il sociologo è riuscito a portare allo scoperto molte cose prima nascoste. Poi ha discusso con loro, li ha fatti riflettere sulle varie dinamiche che agivano nei loro rapporti, ha fatto loro prendere coscienza della sofferenza immensa che certi comportamenti provocavano. Dopodiché nel loro comportamento è cambiato tutto: mentre prima colpivano a casaccio e spesso, ma non sempre, riuscivano a ferire K., da quel momento in poi ogni attacco era perfettamente mirato, e di colpi a vuoto non ce ne sono stati più. La crudeltà innata in bambini e ragazzi è cosa da dare la vertigine, ed è molto difficile trovare qualcuno che ne sia esente. Questo è un dato di fatto, e toccherà farsene una ragione. Non accade molto spesso che il bersaglio arrivi al suicidio, ma parecchi ci vanno molto vicino. Detto questo, nella vicenda di Matteo la cosa, a mio avviso, in assoluto più oscena, immonda, nauseante è stata la preoccupazione di preside insegnanti e psicologa per i compagni: «Il senso di colpa potrebbe travolgerli». Travolgerli?? Preoccupazione?? Ma io spero che ne siano schiantati! Io spero che la consapevolezza della loro colpa – consapevolezza, non senso: il senso di colpa è tutt’altra cosa – li accompagni fino al loro ultimo giorno di vita e impronti ogni loro azione e ogni loro scelta. Anche al mio amico D. è capitato. Oggi è sulla cinquantina, D., e i fatti risalgono a oltre trent’anni fa. Lo rincorrevano per i corridoi urlando “ammazziamolo, ammazziamolo il culattone!” e lui che si rifugiava nei bagni col cuore che gli scoppiava. Per inciso – non che sia importante: lo dico solo per amore di precisione – D. non era affatto finocchio, era solo dolce e gentile e sensibile. Poi è capitato che un giovane di buona famiglia, ricchissimo e molto “maschio”, giusto per dare prova della sua virilità, con l’aiuto di due amici che lo hanno tenuto fermo e di un terzo che, per togliergli ogni capacità di reazione, gli ha stritolato le palle, lo ha violentato. A questo punto ha perso anche la possibilità, quando gli dicevano rotto in culo, di replicare che non era vero. La prima volta che ci ha provato, è stato buttando giù un’intera confezione di sonniferi. Poi poco dopo ha cominciato a stare talmente male che si è infilato due dita in gola e ha buttato fuori tutto. La seconda volta ha scavalcato la ringhiera del terrazzino della mansarda, al quinto piano. Nel momento in cui stava per lanciarsi gli è arrivato lo strillo della vicina: «D.!! Cosa diavolo stai facendo?» Ha farfugliato su «Ah … no … niente … mi è caduto un … stavo cerc … ma sarà meglio che lasci perdere». Ha riscavalcato la ringhiera ed è rientrato. Poi credo di essere riuscita a convincerlo che anche con una situazione così, dopotutto, si può riuscire a convivere. Credo di essere l’unica persona al mondo a conoscere tutta la vicenda – sono parecchie, in effetti, le vicende che sono l’unica persona al mondo a conoscere, e un po’ pesano, devo dire, ma sono anche un bagaglio importante, al quale non potrei rinunciare. Comunque. La storia di D. l’ho raccontata per chiarire che c’è ben poco di nuovo sotto il sole. Da sempre, il meno ostentatamente maschio della classe diventa automaticamente IL finocchio, e che lo sia o non lo sia, è dettaglio del tutto secondario. Se per caso qualcuno ha intenzione di chiedermi quale soluzione, forte dei miei 32 anni in cattedra, potrei suggerire, la risposta è: boh. Non lo so. Quello che, in compenso, NON suggerisco è la tolleranza, l’indulgenza, la maggiore comprensione per i carnefici che per le vittime. Picchiare gli scolari è vietato per legge – giustamente, ci mancherebbe! Ma nessuno è mai andato a raccontare che gli ho tirato un poderoso calcio negli stinchi dietro l’angolo avvertendo: “La prossima volta ti andrà peggio”. I semi-slogamenti di polsi con mossa di karatè invece li faccio pubblicamente, perché fa fico da matti, e si sentirebbero terribilmente pirla ad andarsene a lamentare. E normalmente funziona, oh se funziona!

barbara