LA VOCE DELL’IRAN

Quest’altra invece è la voce di Biden che raccomanda agli israeliani a non attaccare Haifa.

E se questo tipo di effetti della demenza suscita il riso, altre mosse statunitensi mettono invece a rischio il mondo intero.
Dopo l’attacco israeliano in Iran, appare evidente che i due stati sono strettamente legati nel comune impegno a bloccare ogni possibilità di escalation. La risposta israeliana era, per chiunque conosca mentalità e modus vivendi dei protagonisti, non solo scontata ma anche obbligatoria: il non rispondere sarebbe stato interpretato come segno di debolezza, che, nella cultura arabo-islamica, rappresenta un invito a colpire a fondo (il non colpire in una circostanza di questo tipo sarebbe a sua volta interpretato come debolezza e farebbe perdere la faccia, e perdere la faccia, in quel mondo, è la peggiore sciagura che possa capitare). E dunque Israele ha risposto, e lo ha fatto non solo nel modo più sobrio e moderato, ma anche con il messaggio più esplicito e inequivocabile: ha colpito un obiettivo, uno solo, ha scelto un obiettivo militare, e lo ha scelto ben lontano dagli impianti nucleari. E non ha rivendicato l’attacco. E l’Iran?

«“Non è stato chiarito quale sia il Paese straniero da cui è stato generato l’incidente. Non abbiamo ricevuto alcun attacco esterno e non abbiamo in programma ritorsioni da attuare con urgenza”, ha dichiarato una fonte ufficiale del regime di Teheran alla stampa. Il comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, ha invece definito “assurde” le ricostruzioni che considerano Israele colpevole dell’attacco.»
«La Mehr News, agenzia semi-ufficiale iraniana, ha riferito che la situazione a Esfahan, città vicina agli attacchi, rimane “completamente calma”.»

Tutto bene, dunque? Ahimè no: fonti ufficiali americane hanno fatto arrivare ai giornali l’informazione che l’attacco è stato condotto da Israele, aprendo così la porta alla possibilità un’escalation di rappresaglie e contro rappresaglie.

Questo invece, quello coperto di sangue, è Yarden Bibas, marito di Shira e padre di Ariel e Kfir; quelli intorno che lo stanno massacrando e quello che guida la moto con cui, dopo averlo catturato, lo ha portato a Gaza, sono i famosi civili innocenti palestinesi

Questa è l’evoluzione dei tempi

Questa è l’ennesima smentita della leggenda nera della povera Gaza zona più densamente popolata del mondo

E questo è un bambino palestinese steso, non si capisce bene perché, sopra le macerie (e senza un solo granello di polvere addosso) che stringe al petto il suo gatto. I gatti palestinesi, come tutti certamente saprete, per adeguarsi ai bambini palestinesi che hanno 6 dita,

si sono dotati di 5 zampe.

E questi sono due inni della resistenza ebraica, che curiosamente terminano con le stesse parole: Mir zaynen do, noi siamo qui. Il primo, di cui trovate qui la traduzione in inglese (che non ho controllato) è il canto dei partigiani ebrei di Vilna, Zog nit keynmol, Non dire mai, di Hirsh Glick (1922-1944)

L’altro (qui la traduzione) è di Lejb Rosenthal, anch’egli di Vilna, novembre 1916-gennaio 1945

barbara

Una risposta

  1. Il mio amico sviluppatore ormai residente in India ha coniato il termine “cretinismo artificiale” (credo lo abbia detto a tutti quelli con cui ha corrispondenza qui in Nordest: se apparisse da altri della zona, sai chi l’ha inventato).

    Quella dei bambini con sei dita la sapevo, quella dei gatti a cinque zampe mi mancava! Vista da qui, il gatto artificiale pare abbia anche due code. E… non è che il bambino di dita ne abbia solo quattro? O sono io che dopo aver lavorato tutta la notte sono un po’ stanco?

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