UNA VITA DI MERDA È MEGLIO DI NESSUNA VITA

No, non è una di quelle perline di saggezza alla Gramellini che qualcuno ogni tanto ama citare per sentirsi filosofo: è unaffermazione di uno – abbastanza giovane da poter essere mio figlio – a cui la vita di merda è capitata addosso. Piombata addosso, per meglio dire. Ed è proprio di merda tanto, ma essendo l’unica che ha, ha trovato il modo di farsela bastare. E di goderne tutti i frutti che ancora gli può dare. E di tenersela stretta, fin che può, il più possibile, perché sì, una vita di merda, dopotutto, è pur sempre meglio di nessuna vita.

«Una vita di merda è meglio di nessuna vita»

2 giugno 2023/in Colloqui

Era il John Belushi della Laguna. È un astronauta, il Neil Armstrong della parola. Fatte le debite proporzioni. Qui, di sproporzionato c’è innanzitutto la Sindrome laterale amiotrofica (Sla) che l’ha colpito dieci anni fa. E ci sono gli strumenti di cui, a volte, disponiamo per raccontare i fatti. In questo caso, la storia di Dario Meneghetti, classe 1970, ex tenore del Teatro La Fenice, poeta, ora immobile nel letto ma mobilissimo di pensiero. Tanto da fargli scrivere, con l’aiuto di Bruna Graziani, editor e direttrice del Festival «CartaCarbone» di Treviso, Una pinta di nuvole (Ronzani), autobiografia di oltre 500 pagine, struggente ed esilarante ad un tempo perché toccata da una prosa magmatica, contaminata da influssi dialettali, personalissima. Nell’attrezzatissima camera di una semplice abitazione di San Donà di Piave, entroterra veneziano, la tastiera del computer attivata dal puntatore ottico con cui legge, scrive e chatta è la consolle della navicella spaziale. Una postazione sul confine dell’esistenza. Tra una parete stipata di farmaci, un’altra occupata dal megatelevisore, la terza dalle finestre sulla strada e la quarta dal disegno di una nuvola sulla quale è adagiato un giovane sognatore, si muovono rapide ma senza sdolcinature la madre Mara, la sorella Giulia, il badante Javed e la stessa Bruna. Qui, per rendere il suo stato d’attesa di un badante in una notte in cui anche il pc si era spento, Meneghetti scrive: «Non c’è altro da fare che sperare e aspettare cercando di non esistere… Sono il profumo dei fiori secchi…».

Questa è la sua prima intervista. Dopo qualche minuto di conoscenza, abbozzo le prime domande. Le risposte, lette da Bruna, arrivano lente, essenziali.

Com’è la sua giornata tipo?
È un continuo adeguarsi a quello che mi lascia la malattia. Poi, risolto il gioco a perdere, evado nei pianeti, trascendendo la quotidianità.
La scrittura è il pianeta più accogliente?
È un rifugio extra-dimensionale in cui accamparmi fuori dalla portata della malattia.
Quando scrive? Ci sono momenti più favorevoli?
Scrivo in qualsiasi momento. A mente libera. Almeno due libri li ho costruiti in cesso, restandoci almeno tre ore… Facevo colazione e pranzo al bagno perché gli spostamenti avanti e indietro erano troppo faticosi. Ma ne uscivo con un paio di poesie.
Zero romanticismi sui posti dell’ispirazione.
A volte la creatività si giova delle costrizioni.
In questa sua scrittura è rimasta la tempra da ragazzo alla John Belushi?
(Ride) Sì, assolutamente. È una parte fondamentale della mia esistenza.
L’irriverenza?
Mi è congenita. [Confermo: lo seguo da quasi vent’anni, fin dai tempi eroici del Cannocchiale]
Quando ha scoperto di avere anche il dono della scrittura oltre a quello della voce?
Con la voce è stato facile, con la scrittura è stato un percorso intermittente e sempre legato allo stile «imbranauta» (da Limbranauta, fanzine creata negli anni Novanta ndr), termine coniato da me e dalla conventicola dei miei amici, quand’eravamo ragazzi. Con i quali passavamo intere giornate a scrivere su qualsiasi pezzo di carta ci capitasse tra le mani, poesie, frasi, disegni, battute… È il gusto di scrivere scoccando frecce per scardinare i consueti punti di vista e mettere il naso fuori dalla nostra prigione.
Nasce dal suo temperamento, dalle esperienze giovanili, da un certo spirito indomito?
Nasce dal gusto per l’assurdo e dall’ossessione per la parola adatta. Il contrappunto stilistico è un canone, uno slogaritmo linguistico dettato dal mio temperamento e dalle mie esperienze, tutte. Solo che adesso scrivo da sobrio, e questa è sicuramente la svolta più clamorosa.
Ascolta ancora molta musica?
Sì, dalla classica al rap, quello degli anni Novanta. Invece il rock no.
Come mai?
Un po’ mi annoia.
L’interprete preferita?
Édith Piaf.
È citata anche nel libro, a proposito dei finali calanti.
Nei finali è sempre in sotto tonalità e sotto sforzo. Però ci sta.
Nella poesia Deserto scrive: «Insegnami tu a pregare/… Insegnami ad amare/ Imparerò a pregare». Chi è questo tu? Non pensa che rivolgersi a un tu sia già in qualche modo pregare?
È un tu ipotetico. Semanticamente è una preghiera. Chi è questo tu lo decide chi legge.
È un’entità trascendente o una persona in carne e ossa?.
Non è una persona in carne e ossa. È un’invocazione, un richiamo.
Ha pubblicato cinque libri di poesie senza cedere agli «smottamenti autocommiserevoli», mentre «altri poeti e scrittori hanno fatto bandiera della loro condizione». Perché non vuole una critica compassionevole?
Non m’interessa. Io non sono la mia malattia. Inoltre, l’autoironia non me lo permette. Mi fa miseria e non è onesto.
Cedere al vittimismo?
Sì. Ci sono troppe sfumature da vivere oltre l’oltraggio.
L’oltraggio della malattia?
Sì.
Quando ha avuto la prima percezione che qualcosa non andava?
Il dubbio l’ho avuto varie volte. Una delle prime è stato quando non potevo accendermi una sigaretta perché non riuscivo a far girare la ruotina del Bic. Poi feci una sorta di autodiagnosi dopo una prova di coro e dissi a un collega che c’era qualcosa di neurologico… Ero preoccupato, ma non pensavo a un male tanto terribile. La davo come una grave seccatura, però risolvibile.
Qual è stato il primo pensiero quando le hanno detto di cosa si trattava?
È successo all’ospedale di Portogruaro. È stato come un incidente, dopo il quale non ti rendi conto di quello che ti è successo e continui a vagare senza sapere dove andare. L’unica cosa che sono riuscito a chiedere alla dottoressa è quanto mi rimaneva da vivere. «Due anni», mi disse. Ed eccomi ancora qua.
«Una vita di merda è sempre meglio di nessuna vita»: lo scrive a pagina 403, ne è sempre convinto?
(Sorride) Sì. Si può fare di tutto stando fermi. Come Churchill col sigaro e il brandy sul divano.
Astraendosi dalla propria condizione?
La capacità di astrarsi diventa un automatismo. È qualcosa di salvifico.
Che cosa diamo per scontato tutti i giorni quando siamo in salute, stiamo bene, non abbiamo limitazioni pesanti?
Dimentichiamo di essere in salute, di stare bene, di non avere limitazioni pesanti. L’uomo in gran parte  riconosce cosa gli manca solo quando la perde o gli viene tolta. È una banalità, ma è vera per la maggior parte degli uomini, purtroppo.
La dedizione del badante pakistano Javed ben oltre le sue mansioni che cosa la fa pensare?
Che al mondo esistono generosità e gratuità, al di là della cultura, dell’erudizione, della ragione, della prigione del proprio ego. Javed non è solo il mio badante, è un pianeta dove rifugiarsi in tempo di guerra. Lavora con il piacere di fare bene il suo lavoro e già questo è straordinario. Eccede gratuitamente i suoi doveri salvandomi premurosamente da tutte le inconvenienze fisiche e psichiche. Da due amici siamo diventati una terza forza chiaramente dimostrabile.
Prova ancora a convertirla all’Islam?
No, ha capito che per me non c’è niente da fare con l’Islam. Sono un filo d’aria agnostico e ateo alla mercé del vento.
Le ha chiesto che cos’è l’amore, ma lei ha un po’ tergiversato…
Quella dell’amore non è facile spiegarla. Uno non pensa che qualcuno non lo conosca. È come dover spiegare la Nona sinfonia a una mucca.
In un altro punto scrive: «Ormai sono tre anni che non sono ancora morto». La diagnosi per la Sla prevede un tempo di vita dai tre ai cinque anni. Lei è un veterano in attesa di nuovi farmaci?
Sì, certo. È un’attesa concreta. Nei primi mesi del 2024 l’Aifa dovrebbe approvare un farmaco che potrà essere utilizzato anche per la mia forma di Sla.
Che cosa si aspetta da questo libro?
È un miraggio felice andato oltre ogni mia previsione. Che sia uscito è già un traguardo. Gigantesco. È cominciato per caso, ero concentrato sulle poesie quando mi sono trovato a produrre pensieri organizzati allo scopo di divertirmi con le assurdità della mia vita.
Quanta volontà serve per fare un libro così?
Una volontà enorme. Come il divertimento di scriverlo.
Qual è la parte che l’ha più divertita?
Non so. È stato un continuo crescendo, terminato con l’incontro della mia editor che mi ha guidato alla fine e me lo ha pubblicato con un lavoro pazzesco.
È lei la «Bruna» della dedica?
Sì.
C’è un’altra persona che vorrebbe lo leggesse?
Non ci ho mai pensato. Magari dei comici che lo portassero in scena.
E qualcuno di legato alla sua vita?
Mio padre, che non c’è più. Anche se lì dentro non gli risparmio niente.
Nella sua condizione come cambiano i rapporti con le persone?
Cambia il rapporto con chi vede solo la malattia. Cioè, in primis l’altro deve capire che la Sla non compromette il cervello.
In positivo, la malattia può essere anche un acceleratore nella direzione delle cose che contano?
Sì, ti costringe a scavare nel tuo profondo. Fino ad arrivare al di là del buco che stai scavando.
Ha dovuto fare il testamento biologico?
(Sembra rattristarsi) Sì. E anche la Dat, le Disposizioni anticipate di trattamento per la cura  definitiva.
«Assetato di cielo», scrive nella poesia finale, cioè d’infinito. Se tutto non avesse un senso, la vita sarebbe uno scherzo crudele, tanto più una come la sua. Ma lei vuole berla fino all’ultima goccia. Che cosa vorrebbe dire a chi fa una scelta diversa e preferisce interromperla?
Di persistere nella furiosa voglia di vivere. 

Panorama, 31 maggio 2023

Qui: https://limbranauta.wordpress.com/2023/06/28/sul-nostro-amato-d

Questa intervista è un cazzotto allo stomaco, di quelli tosti, però anche salutari. Io comunque, dopo questo libro che oggi andrò a comprare, resto in attesa del prossimo. E che non si azzardi a farmi lo scherzo di andarsene prima. Se poi per caso avesse anche voglia di tornare a fare qualcuna delle cose che faceva prima e che ho sempre seguito da quasi vent’anni, beh, sarebbe davvero un grandissimo regalo all’umanità.

FORZA DARIO!!!!

barbara

RESILIENZA

Vacchi-Resilienza
resilienza
Pescato su FB da mia cugina. A dire la verità non lo so se il termine sia stato coniato in riferimento a quello, ma l’accostamento mi sta bene.

Guarda penso a mia nonna che ha passato 2 guerre la fame perso 5 figli il marito patito la fame e vissuta fino a 90 anni prendendosi la sua felicità… E colei era resiliente o mio fratello con 3 interventi a cuore fermo con metri di cicatrici ecco lui è resiliente. Perciò chi lo dice a cazzo si becca un fanculo

risposta di tale Francesca: Ma pure due!

Del vaccoso signore mi ero già occupata qui.

Di mio aggiungo: resilienti sono le soldatesse curde che combattono l’ISIS

Resilienti sono le donne iraniane che sfidano il governo ballando per strada, sapendo di rischiare frustate e prigione

Resiliente è un uomo che, colpito prima da SLA e poi da un tumore al cervello, continua con fatica e sofferenza ma con indomito coraggio a regalarci la sua arte.

barbara