MONACO ’72: L’INDIFFERENZA DEL MONDO

Immaginatevi un campus olimpico più o meno come quello che si è visto nelle scorse settimane alla televisione: gli atleti, belli e abbronzati dall’estate appena trascorsa, chiacchierano nelle ore di riposo davanti alle costruzioni approntate apposta per loro. Alcuni raccontano e ridono, altri scambiano fotografie della loro casa e della loro famiglia con giovani provenienti dalle più svariate parti del mondo, altri giocano a carte o a ping pong, altri prendono il sole in bikini o in mutandine, oppure mangiano un gelato in compagnia. Adesso provate a immaginare che pochi prefabbricati più avanti, da quella casetta bianca a due piani, si affacci sulla terrazza, e non è carnevale, un uomo mascherato, con un mitra sottobraccio. Si fa vedere più volte, con una certa ostentazione, gli atleti intorno gli lanciano poco più che occhiate distratte. Continuano ad abbronzarsi, devono riposarsi intensamente, perché fra poche ore gareggeranno. Pensano al record da raggiungere, al grande pubblico festoso che fra poco li accoglierà allo stadio. Tutto questo, mentre gli atleti israeliani muoiono nelle mani dei terroristi palestinesi. Non è un incubo, è una storia vera sulla quale non è stata spesa neppure una parola di commemorazione all’apertura delle Olimpiadi. Gli israeliani l’hanno commemorata da soli per l’ennesima volta, la strage dei loro undici atleti; da soli si sono ricordati l’indifferenza del mondo e la colpevole connivenza che accompagnò l’evento. E il dolore è stato attizzato da un documentario di Arthur Cohen dal titolo “Un giorno di settembre” che si è visto alla televisione israeliana nel giorno della ricorrenza del sequestro. Un documentario spietato, in cui si vedono gli atleti riversi nel loro sangue, si assiste alle conferenze stampa dei palestinesi travestiti da ‘Che Guevara’ antimperialisti, didascalici, sicuri di sé stessi, a contatto continuo fuori della baracca israeliana con i giornalisti senza che ci sia un tentativo di cattura, un autentico sforzo di aiutare le vittime. Lo spettacolo doveva assolutamente continuare mentre gli ebrei morivano. Una faccenda non nuova soprattutto a Monaco, in Germania, dove nel 72 si svolgevano le Olimpiadi che avrebbero dovuto dimostrare la completa riconciliazione della Germania col Mondo.
Alle quattro e mezzo di mattina del 5 settembre avvenne il sequestro: otto feddayn penetrarono oltre il filo spinato e poi nella casetta degli undici atleti israeliani. Due ragazzi israeliani furono immediatamente uccisi. I terroristi chiesero come merce di scambio la liberazione di un gruppo di prigionieri palestinesi in Israele contro le loro vittime innocenti. Le autorità tedesche cominciarono a tremare all’idea che le Olimpiadi potessero trasformarsi in un lago di sangue, o semplicemente all’idea che i giochi potessero fermarsi. Non riuscirono a mettere a punto un solo piano, o non vollero: né mentre fornivano cibo ai terroristi con continui contatti, né mentre la polizia incontrava senza tregua il loro capo, abbigliato con un drammatico cappello sessantottino, i capelli lunghi e l’aria soddisfatta, né quando finalmente salì sul tetto (fu filmato dalla televisione) un commando di teste di cuoio e all’improvviso, un minuto prima dell’operazione, la annullò senza motivi evidenti. Intanto i giochi andavano avanti. Israele insistette per tentare un’operazione di salvataggio in proprio, ma la Germania rispose senza esitazione con un diniego. Quando i terroristi chiesero un paio di elicotteri e un aereo per andarsene con gli ostaggi, la strada fu loro lastricata senza intoppi. Sembra incredibile che non fosse tentato nessun agguato, dato che la situazione era evidentemente disperata comunque. Solo all’aeroporto si appostò un misero gruppo di cinque cecchini su un tetto e un altro commando dentro |’aereo. Quest’ultimo, quando si avvide che i terroristi erano otto e non cinque, cancellò l’operazione e si ritirò. I cecchini cominciarono a sparare alla cieca nel buio, mentre un altro minuscolo gruppetto si dava da fare incongruamente. Il risultato dell’operazione fu che tutti gli atleti israeliani furono bruciati, smembrati. I feddayn furono uccisi in cinque, chissà come, mentre i tre che rimasero in vita furono imprigionati in Germania. Poco dopo un aereo della Lufthansa fu sequestrato da un commando palestinese che chiese l’immediata liberazione dei loro compagni, ciò che avvenne prontamente. Su quell’aereo che, guarda caso, era della Lufthansa, non vi erano, guarda caso, donne e bambini. Dei tre, due furono uccisi probabilmente dal Mossad, e l’ultimo invece – nel film di Cohen – ancora si vanta, in una lunga intervista dal suo nascondiglio in Sud America, dei magnifici risultati propagandistici ottenuti con l’operazione Monaco. E a giudicare dalla solidarietà che i palestinesi hanno ottenuto nonostante atti di questo genere, probabilmente ha ragione. Probabilmente la perversione dell’opinione pubblica è grande.
Forse Israele avrebbe dovuto agire comunque, forse gli atleti avrebbero potuto marciare compatti, tutti insieme, sul prefabbricato sequestrato sfidando il fuoco cui erano esposti i loro colleghi. Certo la Germania avrebbe dovuto mostrare un minimo di quella famosa efficienza che in questo caso, invece, si trasformò in assenza.
Quello che la memoria tramanda della realtà è soltanto che Andrei Spitzer, il campione israeliano di scherma, come prima cosa una volta giunto al Campus andò, fra lo stupore generale, a trovare gli atleti libanesi. Lo accolsero amichevolmente, contro ogni previsione. Parlarono, scherzarono, si dettero la mano. Spitzer tornò radioso: “Le Olimpiadi servono appunto a questo. A unire tutto il mondo intorno all’ideale di una grande collettività”. Durante il sequestro, il suo lungo viso triste, con gli occhiali scuri e il ciuffo liscio sulla fronte fu visto per l’ultima volta dalla moglie alla finestra della baracca per un secondo. La donna aveva in braccio la loro neonata, che non ha mai conosciuto il padre.

No, non è l’ennesimo articolo di contorno alle olimpiadi di Londra, fuori tempo massimo e con qualche dettaglio discordante: questo articolo di Fiamma Nirenstein, pubblicato su Shalom, è di dodici anni fa. Tocca, per l’ennesima volta, constatare, che intorno a Israele il tempo sembra essersi congelato. Ma chi si illude che questo congelamento sia la premessa per la morte definitiva, troverà pane per i suoi denti.

barbara