LA RAGAZZA CON LA LEICA

La ragazza con la Leica è Gerta Pohorylle, nome d’arte Gerda Taro, compagna di André Friedmann, meglio noto come Robert Capa, morta in Spagna dove si trovava per documentare la guerra civile. Se ne sarebbe potuta fare una bella storia. Sarebbe. Perché quello che ne è uscito è un libro brutto, noioso, dispersivo, pesante, scritto male, con mucchi di nomi buttati lì spesso senza chiarire di chi si tratta, divagazioni che niente hanno a che fare con le vicende narrate e niente chiariscono, continui inserti in francese inglese tedesco spagnolo yiddish ebraico, continui salti temporali avanti e indietro, senza alcun criterio e senza alcuna logica, e spaziali, senza che il lettore venga avvertito del cambiamento, per cui solo dopo un bel po’ ti accorgi che non siamo più a Parigi bensì a Berlino o a Lipsia, dieci anni prima o tre anni dopo, magari anche con personaggi diversi. Precisando poi che questa non è una biografia, come ci si potrebbe aspettare dai lanci pubblicitari che inneggiano al disseppellimento dall’oblio della grande fotografa Gerda Taro, bensì un romanzo, costellato di dialoghi e di riflessioni che i protagonisti, tutti nati intorno al 1910, sicuramente non hanno raccontato all’autrice. Per non parlare dell’assurdità delle cornici, che sono tre. La prima è rappresentata da un amante di Gerda, residente a New York (tutti i personaggi sono ebrei sfuggiti al nazismo e quindi sparsi per mezzo mondo) che una domenica  del 1960 riceve una telefonata che gliela fa ricordare, e nel percorso a piedi fino a casa “rievoca” una fetta di storia, rievocazione interrotta ogni tanto dalla descrizione di ciò che incontra lungo il percorso, o dalla decisione di togliersi la giacca perché fa caldo, l’indecisione se prendere o no qualcosa nel negozio kasher e altre simili insulsaggini. La seconda è un’amica, che ad un certo momento Gerda ha mollato per andare a vivere con l’amante della prima cornice lasciandola, tra l’altro, a pagare da sola la stanza che, poverissime entrambe, dividevano a Parigi. Amante, peraltro, durato un solo mese, capriccio di un momento scaricato poi per Capa. Lei la storia la rievoca mentre sfoglia una rivista. La terza cornice è un altro amante, per la precisione quello che telefona, da Roma, a quello della prima cornice, e anche lui dopo la telefonata, mentre con la vespa va in una serie di posti e incontra delle persone, rievoca una paccata di storie – e non è molto chiaro in che modo, fra una domanda dell’amico e la sua risposta, riesca a rievocare una storia che tu impieghi un buon quarto d’ora a leggere. E ci mancavano solo le sigarette col filtro, a inizio anni Trenta. Per chiarire come vengono raccontati i “ricordi”, inserisco qui la narrazione, fatta dall’amica, degli allegri aborti di Gerda.

«È ufficiale: sono incinta. Ma venerdì mattina risolviamo. Basterà il fine settimana a riposo, dice la dottoressa. È una che capisce le esigenze delle donne. E si fa pagare così poco che conviene ricascarci, quasi quasi…» Gerda rideva della sua battuta, come se con quella fosse già tutto mezzo sistemato.
[…]
Il venerdì Ruth l’aveva accompagnata all’appuntamento medico. Si erano svegliate all’alba per prepararsi senza premura e poi attraversare mezza Parigi. Sul metrò avevano letto il giornale e commentato le notizie a voce bassa per non disturbare il popolo lavoratore che riempiva le prime corse con l’esigenza di un altro po’ di sonno. Erano scese a Filles du Calvaire, salite in una casa all’inizio di rue Oberkampf. «Voilà» aveva detto Gerda, appena erano entrate nel vestibolo simile a tante sale d’aspetto, salvo che a quell’ora del mattino era completamente vuoto. La dottoressa si era affacciata quasi all’istante. Per quel poco che Ruth aveva avuto modo di vederla, le era piaciuta: età media, acconciatura di media lunghezza, piccolo giro di perle sotto il camice, rossetto fresco. Aveva notato che nella pila di riviste sul tavolino della sala d’aspetto c’erano alcuni numeri di Vu e Regards, ma aveva preferito quelle femminili. Si era distratta con i nuovi modelli proposti da Le Petit Écho de la Mode (l’unica idea da copiare erano dei grandi fiocchi scozzesi da portare sui colletti). Aveva ricambiato il «bonjour, madame» di una giovane coppia, vedendo spuntare da uno scialle di lana chiara un ventre protuberante come un cocomero, e il ragazzo con il berretto sempre in testa le aveva detto: «Voyez, il-y en a deux, là-dedans», e poi le aveva chiesto se poteva dare uno sguardo all’Humanité lasciato da Gerda sulla sedia accanto. «Bien sur», e potevano tenere il quotidiano. «Merci, camarade!» «De rien. Et beaucoup de félicitations, camarades.» «Ce sera dur, putain, mais on va se débrouiller.»
La ragazza aveva accennato a una gomitata, e per istinto si era allisciata la pancia. Si erano sforzati di ridere. Avevano parlato di turni straordinari, di come sistemare i gemelli e della dottoressa che li riceveva gratis, perché il diritto di partorire con il minimo di rischio doveva spettare anche a un’operaia, come a qualsiasi futura madre. Così, quando la prima paziente era uscita dallo studio della compagna ginecologa, Ruth si sentiva ormai del tutto rassicurata. «On y va!» aveva squillato Gerda attraversando leggera la sala d’aspetto, però nell’ascensore si era lasciata andare contro il legno oleoso della cabina. Ruth voleva cercare un taxi, ma Gerda l’aveva insultata, «Sei cretina? Proprio qui davanti?», e aveva insistito per la metropolitana. Ne era uscito un compromesso, suggerito dal primo caffè apparso sul marciapiede, in cui l’amica dolorante si era infilata per farsi dare un bicchiere d’acqua. «Stai lì» le aveva detto Ruth, «vengo a recuperarti in taxi.» Nel tragitto Gerda guardava fuori dal finestrino. Aveva fatto le scale ignorando il suo braccio e fino in camera non aveva detto una parola. «Merde, brucia. La prossima volta nasco maschio!» L’aveva tamponata, aveva cambiato l’assorbente, piegato quello vecchio, portato via il vaso da notte pieno di broda rossa e riportato in camera risciacquato. Era uscita a fare commissioni e tornata per controllare se era tutto a posto. Gerda era sempre in posizione rannicchiata, immobile, non riusciva a capire se dormiva. Più tardi, sbirciandola dalla sua metà del materasso, le aveva fatto tenerezza. Un piccolo gomitolo di membra femminili che respirava russando un poco a bocca leggermente aperta. Il sonno disarma, anche i più combattivi. Il giorno dopo Gerda aveva dichiarato che stava bene pur sentendosi ancora una schifezza («come un pesce pulito prima di finire lesso»), e non aveva più bisogno di assistenza. «Mi serve solo l’aspirina.» «Te l’ho presa, sta lì sul comodino con una tazza di tè fresco.» «Sei un tesoro. Allora ci vediamo verso sera.» Questo era quanto. No, non del tutto. Aveva da poco trionfato il Front Populaire, quando si erano incontrate per caso al Café Capoulade, e Gerda le aveva raccontato, tra varie altre novità, che era stata di nuovo in rue Oberkampf da quella brava dottoressa: nessuno strascico, nessun problema, e c’era pure il lato positivo che i flic erano occupati con lo sciopero generale, così si era concessa un taxi subito, non come l’altra volta… Era probabile che l’artefice dell’incidente fosse André, ma quella domanda Ruth non se l’era posta neanche la prima volta, quando viveva assieme a Gerda.

Ecco, è tutto così, dettagli su dettagli, dialoghi su dialoghi, costruiti sul niente, storie di cui dice che potrebbe essere andata così ma forse potrebbe anche essere andata cosà. Dice che per scriverlo ha impiegato sei anni in accurate ricerche. E chissà chi sarà stato, fra tutte le fonti consultate, a raccontarle così accuratamente in che modo Gerda manifestasse i propri orgasmi, da permettere all’autrice di descriverli piuttosto dettagliatamente… E insomma, in tutto questo affastellamento di nomi e di tempi e di luoghi e di avvenimenti storici e privati e di personaggi e di elucubrazioni, finisce per restare sommerso quello che dovrebbe essere il personaggio principale, ossia Gerda Taro. E quel poco che ne emerge è un autentico stucchevole santino: Gerda che non aveva paura di niente e di nessuno, Gerda per cui tutti gli uomini impazzivano, Gerda a cui delinquenti parigini e scugnizzi delinquentelli napoletani tributavano un rispetto al limite della venerazione. Io ci ho buttato via tempo e soldi, voi risparmiatevelo, anche se ha vinto lo Strega e Roberto Saviano ci informa che “Helena è scrittrice vera, e questo, forse, è il suo libro più bello.”

Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda
la ragazza con la leica
Ah, stavo per dimenticare. Questa foto
taro-miliziana
che credo sia una delle sue più famose, l’ho vista per la prima volta tanti anni fa, senza sapere di chi fosse. Quando ho letto nella didascalia che si tratta di “Una miliziana repubblicana mentre si addestra sulla spiaggia di Barcellona (agosto 1936)”, non riuscivo più a smettere di ridere, come riderà sicuramente chiunque abbia, una volta della vita, impugnato una pistola.

barbara