«Da piccola disegnavo ovunque: sui muri di casa, sulle tende, sull’asse di legno dove mia madre impastava… Un giorno la mamma partì per Budapest con qualche mio lavoro in borsa per chiedere al direttore dell’Accademia se vedeva del talento. E lui disse: sì, deve andare avanti!». A 93 anni, la pittrice Eva Fischer parla con voce fresca, soave, colorata. Matita e pennello fanno parte di lei da sempre, e i suoi ricordi scorrono come la pittura a olio sulle sue tele. È l’ultima rappresentante della scuola romana di Mario Mafai, i suoi amici erano Guttuso, Cagli, Emilio Greco. E ha da raccontare. È nata nel 1920 a Daruvar, ex Jugoslavia, da famiglia ebraica ungherese, e ha sofferto il buio dell’era nazista. Più di trenta suoi parenti sono stati massacrati nei lager, tra loro, suo padre Leopold, rabbino capo e noto talmudista. Eva è più fortunata. Dopo la guerra si stabilisce a Roma e dipinge, dipinge… La sua fama cresce, espone in tutto il mondo. È una colorista e lavora a fasi tematiche: biciclette, mercati, Mediterraneo, paesaggi, nature morte, ritratti, voli. Poi c’è Ennio Morricone. Sono amici dalla fine degli anni Cinquanta: «Abitavamo nello stesso palazzo. Eravamo tutt’e due poverissimi. Lo sentivo che suonava tutto il giorno, dalle 6 del mattino». Lei ha tradotto quelle note in 38 dipinti; lui le ha dedicato un album con 12 pezzi, intitolato Eva Fischer pittore. Ma c’è anche un soggetto che Eva Fischer ha tenuto segreto molto a lungo: dal 1946 al 1989 ha fatto quadri sulla Shoah e nessuno poteva vederli, neppure suo marito o suo figlio. «Comprensibile ritegno a mostrare la parte più profonda del suo animo», ha scritto a questo proposito Elio Toaff. A Roma in questi giorni, e fino al 30 marzo, alcune di queste opere compongono una mostra sull’Olocausto presso l’Accademia di Ungheria (un buon segno, visti gli echi di nostalgie barbare che arrivano da quella nazione). Complessivamente, tra oli, incisioni, disegni, litografie, Eva Fischer ha realizzato quasi mille lavori, compresi quattro francobolli italiani e le vetrate del Museo Ebraico di Roma. L’ultimo dipinto è del 2007: una tela di 2 metri per 1,40 della serie Scuole di ballo. «Però, qualche disegno, lo faccio. E davanti al letto ho cavalletto e colori, perché nella mia testa dipingo ancora. Quadri veri, ma soltanto per me».
(Corriere della Sera, 9 febbraio 2014)
Qui una cospicua raccolta delle sue stupende opere sulla Shoah.
barbara
Questi dipinti fanno effetto a vederli semplicemente in fotografia. Dal vero ho l’impressione che mi commuoverò.
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C’è dentro tutta la sofferenza di chi l’ha vissuto sulla propria pelle, e tutta la forza di chi sa di dover testimoniare. E – lo dico da profana – mi sembrano anche delle grandissime opere d’arte.
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L’ha ribloggato su O C T A G O N.
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impressionante…
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Sì, veramente. A me, se hai visto quelli che ho linkato, colpiscono particolarmente i “labirinti della memoria”, dove sembra che i visi stiano tentando di prendere dei lineamenti senza riuscirci (non l’ho detto troppo bene, ma spero che si capisca cosa intendo).
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perfettamente e concordo
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Ecco, io non sapevo dirlo, ma tu ci sei riuscita straordinariamente bene, invece!
Mica facile dare un volto alle emozioni forti..
E’ una Grande, ma tu lo sei in altri campi.. grazie!
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saggerata
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