LA STORIA DELLA CAPRA TURCA E DELLA GAZZELLA TIBETANA

Ovvero: la vera storia di Sheherazade

Dai tempi più remoti si narra la leggenda della principessa Sheherazade, che narrando storie per mille e una notte si guadagnò dal suo crudele marito il diritto a vivere. Ma la storia non era andata così. O meglio, questa è solo una parte della storia. Ora vi racconto la vera storia che ha dato origine a quella leggenda.
Giunse dunque alla principessa Sheherazade la notizia che il sultano l’aveva scelta come sua sposa. Grande fu la disperazione della giovane e bellissima principessa: era infatti noto a tutti come il crudele sultano, terrorizzato dall’idea che le sue spose potessero essergli infedeli, fosse solito farle uccidere dopo la prima notte di nozze. Che fare? Rifiutarsi di sposare il sultano? Impensabile! E che altro dunque? Sheherazade chiese consiglio alla vecchia madre, donna saggia e prudente, che le suggerì di consultare la maga che viveva nella grotta sulle soglie della grande foresta. Quella maga era molto vecchia, chi diceva avesse mille anni, chi diecimila, chi ancora di più, nessuno sapeva quanti anni veramente avesse, si sapeva solo che anche i più vecchi del regno l’avevano sempre vista vecchia, e che questi narravano di aver sentito dire dai loro nonni che anche loro l’avevano sempre vista vecchia. Decise dunque Sheherazade di seguire il consiglio della sua saggia madre e durante la notte, coperta da un grande mantello nero, si recò alla grotta della maga.
“Maga, saggia e sapiente maga – disse – io …”
“Lo so, figliola – rispose la maga – so tutto. So quale tormento ti porta da me. Siediti e vediamo cosa si può fare. Dunque, tu vuoi sopravvivere alla prima notte di nozze, e anche alle altre finché la tua natura ti concederà di vivere. Ebbene, è molto semplice: la sera, quando tu e il sultano vi troverete nell’alcova, dovrai cominciare a raccontargli una bellissima, meravigliosa storia, e quando la storia sarà giunta al suo punto culminante, fingerai di cedere al sonno e di addormentarti. Il sultano allora ti lascerà vivere fino al giorno dopo per poter sentire la fine della storia. La sera seguente tu finirai la storia del giorno prima e poi ne comincerai subito un’altra, che al punto culminante si interromperà perché tu ti addormenterai e così via, sera dopo sera, per cento volte, per mille volte, continuerai finché il sultano non deciderà di concederti di vivere. Semplice, no?”
“Maga! – gridò atterrita Sheherazade – ma dove troverò cento e mille storie da raccontare? E come farò a sapere quale sarà il punto culminante in cui interrompermi? Racconterò una storia brutta e stupida e noiosa, e il sultano mi farà uccidere prima ancora che la notte sia finita!”
“Non ti agitare – disse la maga – metterò al tuo fianco qualcuno che ti aiuterà e ti consiglierà”.
Aprì la piccola gabbia del suo furetto preferito e gli sussurrò all’orecchio un misterioso incarico. Il furetto sparì, rapido come il lampo, e dopo qualche tempo riapparve, seguito da due personaggi: un giovane turco e una bellissima fanciulla tibetana. Erano due persone molto speciali, come la maga raccontò a Sheherazade: avevano vissuto molte vite, sempre sfiorandosi, qualche volta incontrandosi, ma senza mai poter fermare le loro vite, le loro vicende, l’uno accanto all’altra. Ora, finalmente, per la prima volta, si erano riuniti, e speravano che fosse per sempre.
“Ecco – disse la maga – questa donna è stata dotata dal fato di una fantasia sconfinata; inoltre nelle sue numerose vite ha visto accadere tante vicende quante ne può contenere la volta celeste: lei ti suggerirà le storie da raccontare. E quest’uomo è il più saggio che la terra abbia mai ospitato: lui ti consiglierà le cose giuste da fare per salvare la tua giovane vita dalla crudeltà del sultano”.
“Ma maga – obiettò Sheherazade – come potrei mai introdurre due estranei alla corte del sultano? E un uomo per giunta!”
“A questo si può porre rimedio. – disse il turco – Basterà che la maga ci trasformi in due animali. Al sultano racconterai che te li donò tuo padre prima di morire, raccomandandoti di non separartene mai, affinché mai tu ti possa separare dal ricordo di lui. Neppure il sultano oserà disobbedire alla volontà di un padre morente”.
La maga si grattò perplessa il mento rugoso.
“Tu sai, amico mio – disse – che i miei poteri sono grandi, ma non illimitati. Così ha stabilito la divinità, affinché troppo non montasse la mia superbia credendomi onnipotente. Io posso dunque trasformarvi in animali, ma non posso poi ritrasformarvi in esseri umani: se diventerete animali, animali dovrete restare per sempre”.
L’uomo e la donna si guardarono negli occhi per un istante: non avevano bisogno di parole per comprendersi.
“Va bene – disse la donna – accettiamo di restare animali per sempre. In cambio chiediamo di poter vivere per sempre, e per sempre insieme”.
“Sì, questo posso farlo” rispose la maga, e procedette subito alla trasformazione. L’uomo fu trasformato in una capra turca e la donna in una gazzella tibetana: la maga aveva scelto di incarnarli in due specie molto simili, affinché una troppo grande diversità non impedisse le loro unioni. Per consolare la donna della perdita dei suoi meravigliosi capelli, le donò un sofficissimo vello, che nessun altro animale al mondo possedeva.
“Bada – disse all’uomo-capra – un giorno uomini malvagi cercheranno di ucciderla per rubarle il suo vello: dovrai proteggerla, non allontanandoti mai dal suo fianco.”
Sheherazade tornò a casa accompagnata dai suoi due protettori e consiglieri. Nei giorni che mancavano alle nozze imparò la loro lingua, affinché solo lei, e non il sultano, potesse comprendere i loro suggerimenti, e dopo le nozze, come la maga aveva previsto, le storie meravigliose raccontate dalla donna-gazzella e riferite da Sheherazade, interrompendole nel momento in cui l’uomo-capra suggeriva di farlo, finirono per indurre il sultano a fare grazia della vita alla sua ultima sposa.
Finito il loro compito, la capra e la gazzella se ne andarono. Presero congedo prima da Sheherazade, che pianse molte lacrime al momento della separazione, e poi dalla maga. Se ne andarono lontano, dove nessuno poteva conoscerli, dove nessuno poteva cercarli. Se ne andarono sulle alte cime del Tibet, e da allora è possibile vederli pascolare su quei verdi prati, sempre insieme. I monaci, perplessi, si domandano: ma cosa avranno mai da dirsi quella capra turca e quella gazzella tibetana? Se potessero comprendere la loro lingua, li sentirebbero dire: “ … e ti ricordi quella volta al mercato degli schiavi?”, “ … e quella volta nel ghetto …”, “ … e sul lago Tana?”, “ … e quella volta sulla terrazza?” “… e Simurgh …” “… e la caverna ai confini del Messico …” “… e la perla dell’ostrica …” Forse, tendendo bene le orecchie, tra una rievocazione e l’altra, potrebbero cogliere anche qualche sommessa risatina …

NOTA per il lettore: la gazzella tibetana sono io, in una delle mie numerose incarnazioni.

barbara

Una risposta

    • Mille e una barbara e anche di più, ragazza mia! La capra turca comunque è colui che un tempo è stato l’amico del mio cuore… Fino al giorno in cui mi sono trovata a dover affrontare l’impegno più micidiale della mia vita, e gli ho chiesto se fosse disposto a darmi una mano. Certo, ha detto, puoi contare su tutto il mio sostegno morale. No io veramente, ho detto, avrei bisogno proprio di aiuto materiale, di due mani che si aggiungano alle mie per aiutarmi a portare a termine quello che da sola non riuscirò mai. Non è che saresti disposto a regalarmi una pausa pranzo? (Non gli ho chiesto di prendere tre giorni di ferie e piazzarsi in casa mia per settantadue ore da passare a lavorare: gli ho chiesto una pausa pranzo…). Da quel giorno – fanno giusto in questi giorni otto anni – non l’ho mai più sentito. Scomparso dalla mia vita. Volatilizzato. Evaporato. Restano le storie create insieme – e sì, sono io anche in tutte quelle, il ghetto, la terrazza, il lago Tana (lì ero la gemella segreta della regina di Saba), l’aquila in volo con Simurgh…

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    • Sì, penso che più o meno tutti abbiamo all'”attivo” storie analoghe. La cosa buffa – si fa per dire – è che qualche tempo fa mi sono incontrata con la sua compagna, che ad un certo momento se n’è uscita a dire: “Io però non lo so mica perché abbiate fatto baruffa”… Senza parole.
      In compenso c’è stato poi qualcun altro – che bazzica anche lui da queste parti – che non si poteva neanche definire propriamente un amico in senso stretto, che senza che glielo chiedessi, saputa la situazione in cui mi trovavo mi ha offerto spontaneamente il suo aiuto e ha lavorato come un mulo per una intera mattinata. Salvandomi oltretutto dal macero il Rocci e il Calonghi Badellino, cosa di cui non finirò mai di essergli riconoscente.

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  1. E’ talmente incredibile.. inaccettabile, che.. sei certa che non sia scomparso dalla Vita, tout court? 😦
    Fortuna che sei mille e più, almeno ti restano doppelganger a sufficienza per scrollare le spalle, voltarle e ricominciare ogni volta!

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  2. L’ho conosciuta adesso questa storia. Tre anni fa non ti conoscevo e non frequentavo il tuo blog. L’ho trovata bella come la vita, anzi più della vita, perché ha il fascino incommensurabile della poesia.

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