LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA, PARTE SESTA

Ovvero: piove, ambientalista ladro!

Renato Miele

L’italia del no è con l’acqua alla gola

Veti ambientalisti sulle infrastrutture chiave. Parla il geologo Fazzini

Il Foglio Quotidiano 18 May 2023 di ERMES ANTONUCCI

Roma. “L’emilia-romagna è da sempre all’avanguardia nella ricerca ambientale. Il problema è che negli ultimi dieci anni dal punto di vista infrastrutturale non è stato fatto nulla, tanto che il territorio è quello mediamente a più alto rischio idrogeologico. La spinta ambientalista all’interno della politica emilianoromagnola è stata talmente forte che non ha permesso di far nulla”. Lo dichiara al Foglio Massimiliano Fazzini, responsabile del team Rischio climatico della Società italiana di geologia ambientale.
Secondo Fazzini, geologo e docente di Rischio climatico all’università di Camerino i primi dati a disposizione sulle precipitazioni in Emilia-romagna “ci consentono di parlare di eventi eccezionali dal punto di vista meteorologico”: “In alcune zone tra Faenza e Forlì, tra l’evento del 2-3 maggio e quello delle ultime ore sono caduti 500 millimetri di pioggia, che rappresentano il 70 per cento della precipitazione media annua. Questo ci fa capire che la prima metà di maggio sarà sicuramente ricordata come eccezionale”. L’eccezionalità dell’evento, tuttavia, non deve impedire di riflettere su quanto è stato fatto (o non è stato fatto) sul piano della prevenzione dei rischi. “L’unica struttura che aveva cominciato a occuparsi seriamente del problema era Italia Sicura, la struttura di missione per la riqualificazione dell’edilizia scolastica e il dissesto idrogeologico, ma è stata cancellata”, afferma Fazzini.
“Adesso il nuovo governo sembrerebbe aver cambiato un po’ le cose. E’ stata fatta la rilettura del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, bloccato da sette anni. Ora però si devono fare i passi decisivi sul piano infrastrutturale”.
“Non si può sempre dire di no a tutto”, aggiunge il geologo. “Con questo nuovo clima bisogna regimare i corsi d’acqua, laddove occorra anche con opere impattanti sull’ambiente, ma sempre nel rispetto di quest’ultimo”, dichiara Fazzini: “Ad esempio, con l’invaso di Ridracoli, nel cesenate, si è risolto il problema dell’approvvigionamento idrico di cinque milioni di abitanti che d’estate popolano la riviera romagnola a scopo turistico. In altre parole, quando occorrono le opere bisogna farle. Non è che andiamo a tagliare cinquanta chilometri di bosco o andiamo a mettere a repentaglio la vita della gente”.
Per l’esperto, dunque, “dobbiamo adattarci e cercare di ridurre al massimo delle nostre potenzialità, tenendo conto dell’ambiente, il rischio effettivo, facendo sì che il rischio residuo sia il più basso possibile. Il rischio zero non esiste, purtroppo. E quindi: dove serve un’infrastruttura grande bisogna farla, dove è sufficiente un’infrastruttura piccola si interviene con l’infrastruttura piccola. Ma bisogna muoversi. Non si può dire sempre di no a tutto, perché altrimenti nel giro di dieci anni siamo rovinati”.
“Il 94 per cento del territorio italiano è messo come la pianura emiliano-romagnola – prosegue Fazzini – quindi i fondi del Pnrr andrebbero maggiormente destinati a opere finalizzate a contrastare il rischio idrogeologico”.
Tutto ciò chiama ovviamente in causa la politica. “Negli ultimi mesi – afferma Fazzini – ci siamo confrontati con i ministri Fratin, Salvini, Lollobrigida. Sono tutti favorevoli alle grandi opere. Il problema è che poi a gestire i soldi sono le regioni e spesso, nel momento in cui il segno politico della regione è opposto a quello del governo, si blocca tutto”.
Eppure, “l’adattamento al rischio” è la chiave fondamentale, “altrimenti continueremo a contare ogni volta morti su morti”, conclude il professor Fazzini.

Stenderei un velo pietoso su “questo nuovo clima” (verso la metà degli anni Novanta a Brunico è piovuto ininterrottamente – cioè tutti i giorni tutto il giorno – per tutto aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, venti giorni a settembre e quindici a ottobre, segnati sul calendario e contati), ma mi interessa riprendere questo articolo per la grande verità che contiene in merito al devastante comportamento dei cosiddetti ambientalisti, per il quale trovo un solo nome: cinismo. E non perdono occasione per dimostrarlo, pronti come sono a sacrificare l’intera umanità in nome della loro delirante ideologia. E a tutti coloro che per “salvare il pianeta” sono pronti a sacrificare l’umanità, vorrei mostrare questo disegnino esplicativo

– non che mi illuda che siano capaci di capire, sia ben chiaro.

Marcello Mazzoleni

Ieri sera ne ho bloccato un altro.
Dopo due o tre messaggi in cui lo stavo aiutando a capire che i ghiacciai in epoca medioevale e fino a tutto il Cinquecento non esistevano sulle Alpi, nonostante gli avessi condiviso delle mappe e dei documenti, questo era ancora convinto che negli ultimi decenni sta accadendo qualcosa di mai visto prima. Gli ho anche spiegato che, ad esempio, dove oggi c’è il ghiacciaio dell’Aletsch, lo spessore massimo del ghiaccio attuale è di circa 900 metri. Fino all’inizio del Seicento lì sotto quasi un chilometro di ghiaccio attuale, passavano delle strade, c’erano delle malghe e dei pascoli. E questo, imperterrito, ancora a darmi contro.
Ma ci rendiamo conto di quanta ignoranza ci sia in giro e di come neanche di fronte all’evidenza della storia questa gente continui imperterrita nelle proprie ideologie?
Leggiamo uno stralcio della storia dei ghiacciai, tratta dal sito della Regione autonoma Valle d’Aosta, dove ben si capisce quale sia stata l’unica vera crisi climatica degli ultimi millenni e perché. Buona lettura.

“…nel periodo del Sacro Romano Impero e della organizzazione feudale dell’Europa sulle Alpi, prendono vita numerosi stati di valico istituiti a controllo e a servizio delle vie transalpine, arterie vitali della grande unità politica. Fra di essi vi è quello dei Conti di Savoia il cui fulcro fu per secoli la Valle d’Aosta con i passi del Piccolo e del Grande San Bernardo.
Il limite climatico delle colture cerealicole si spinge fino all’altitudine di 2300 m. Lo conferma la presenza di settori attrezzati per la trebbiatura del grano in fienili di dimore dell’alta valle di Ayas e di Valgrisenche poste a quell’altitudine, ora diventate stagionali ma costruite nei tempi in cui lassù si poteva abitare tutto l’anno.
Riguardo allo stato dei ghiacciai l’Abbé Henry, noto ricercatore tanto in campo storico quanto in campo naturalistico, scrive in una sua relazione (NOTA 10); “Entre le 1300 e le 1600 les glaciers devaient être très petits et réduits à leur minimum… Sa découle d’un grand nombre de documents tels que les Reconnaissances de l’époque ou le mot glacies est introuvable. Une autre preuve que les glaciers étaient alors très petits et très recules c’est que les passages par les cols élevés de montagne étaient alors très faciles et très fréquentés: on allai communément, on faisait passer vaches et mulets de Prarayé à Evolène par le Col Collon (3130 m), de Zermatt à Evoléne par le Col d’Hérens (3480 m); de Valtournenche à Zermatt par le Col de Saint-Théodule (3380 m).
Il Colle del Teodulo – oggi centro di uno dei più prestigiosi comprensori sciistici – nel Basso Medioevo fu a tutti gli effetti un itinerario “Europeo” sulla via transalpina che univa il porto di Genova con quello di Amsterdam. Tutte le carte geografiche del ‘500 e del ‘600, comprese quelle del grande cartografo olandese Mercatore, rappresentano il “Mons Silvius” – tale era il suo nome in latino – e il villaggio di Ayas, suo principale centro di servizi. In quelle redatte nei paesi d’oltralpe compare la dizione: “Krëmertal”, ovvero “Valle dei mercanti” posta fra i toponimi di Ayas e del valico del Teodulo.
Il controllo delle strade che dalla valle della Dora salivano al colle del Teodulo, era esercitato dagli Challant, la più prestigiosa famiglia nobiliare valdostana che proprio da quel traffico traeva la sua ricchezza e la sua rinomanza a livello europeo.
In questo periodo caldo dai traffici assai vivaci, prese origine la millenaria fiera di Sant’Orso che tutt’ora si celebra il 31 gennaio nel cuore dell’inverno, una stagione che pare ben poco propizia ad un gran concorso di gente, soprattutto in passato quando non esistevano i mezzi spazzaneve. Il più antico documento che riguarda questa rassegna risale al 1305 ma pare che allora essa già fosse secolare, era esclusivamente dedicata agli attrezzi agricoli e si svolgeva nei tre giorni che precedevano la festa di Sant’Orso e nei tre che la seguivano. Questa grande fiera invernale è una testimonianza della mitezza che doveva caratterizzare la stagione fredda durante gli otto secoli dell’Optimum climatico del basso medioevo.
Fra il 1550 e il 1850 ha luogo la più grave crisi climatica del tempi storici denominata dagli specialisti il Pessimum climatico della Piccola Età Glaciale.
Essa provocò un abbassamento di almeno 500 metri dei limiti climatici delle colture, del bosco, del pascolo e delle nevi persistenti determinando un lungo innevamento annuo dei valichi e addirittura la glacializzazione dei più elevati e insieme la perdita di una grande quantità di terre coltivabili. Venendo a mancare contemporaneamente i proventi legati ai traffici transalpini e quelli delle più elevate terre agricole, il periodo della Piccola età glaciale fu per le valli alpine un‘epoca di estrema povertà.
In valle d’Aosta il contraccolpo fu durissimo: da ganglio dei traffici europei la Regione si trasformò in cellula chiusa in se stessa; le attività economiche si ridussero ad una agricoltura volta esclusivamente all’autosussistenza e tanto misera che viene definita dagli studiosi francesi “de acharnement”; la popolazione, poverissima e denutrita, venne falcidiata dalla peste e da malattie endemiche, molte delle quali riconducibili alla malnutrizione e alle grandi fatiche che in tali condizioni ambientali i lavori agricoli richiedevano.
Le condizioni del clima determinarono, nel corso della Piccola età Glaciale, la più imponente crescita volumetrica, areale e lineare dei ghiacciai verificatasi negli ultimi due millenni.
Dopo la metà del secolo XIX inizia il riscaldamento climatico tuttora in corso.
La fine della piccola età glaciale è segnata da una improvvisa forte diminuzione delle precipitazioni e da un sensibile innalzamento delle temperature: all’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo nei vent’anni successivi al 1856 le precipitazioni annue risultano meno di 1600 mm e l’altezza della neve caduta di 870 cm nei confronti di medie di lungo periodo assai più elevate; le temperature medie annue che fino al 1860 erano state attorno ai -1,9 °C si innalzano bruscamente a -1,5 °C”

Chi fosse interessato ad approfondire l’intero articolo dal quale ho tratto questo passaggio, ed estendere l’analisi agli ultimi ottomila anni di variazioni climatiche in Valle d’Aosta può approfondire a questo link
https://www.regione.vda.it/…/aspx/environnement.aspx…
A me spiace continuare a bloccare gente, ma di fronte a tanta ignoranza, a tanta ideologia frutto della becera propaganda in atto e a tanta mancanza di voglia di capire come stanno le cose non posso fare altro.
E questo pure mi dava del negazionista perché metto in ragionevole dubbio strampalate stime e congetture future. E lui che negava le certezze della storia? Ma ci rendiamo conto???
E intanto, questa foto di ieri

ci mostra come sulle stesse strade che anticamente erano percorse tutto l’anno, oggi si stia facendo molta fatica, nonostante le frese e gli strumenti tecnologici attuali, a garantire il passaggio di una tappa del Giro d’Italia nella seconda metà di maggio. Con i valichi alpini che restano aperti a malapena quattro mesi all’anno. E il negazionista poi sono io.
Ma per favore.

E giustamente ricorda, tra le altre cose, che caldo significa prosperità, economica, sociale e culturale, e freddo significa miseria, fame, e regresso su tutti i fronti.

Giovanni Bernardini

DUE MODI…

Ci sono due diversi modi di rapportarsi alle avversità atmosferiche.
Il primo è quello pragmatico: ci si dota degli strumenti tecnici in grado di ridurre le conseguenze negative dei fenomeni meteorologici negativi e si mettono in atto le politiche conseguenti. Ci si dota di una rete idrica efficiente per far fronte ai periodi di siccità, si costruiscono argini, si dragano i fiumi e si puliscono i boschi per far fronte alle piogge torrenziali, si acquistano spazzaneve per far fronte alle nevicate…
Il secondo è quello ideologico. Non si cerca di far fronte agli eventi climatici negativi ma di cambiare il clima. Si teorizza un “clima amico” privo di piogge torrenziali, periodi di siccità, nevicate eccessive e si addebitano tutti gli eventi climatici negativi all’”umana follia”. Si prendono misure costosissime per “cambiare il clima” che cambiano solo, in peggio, la situazione economica e si chiacchiera moltissimo sulle transizioni ecologiche, il nuovo modo di consumare, nuovi modelli di vita eccetera.
Poi arrivano i disastri…
Quale dei due modi sono stati messi in atto nel nostro paese?

E a proposito di eventi climatici negativi, anzi, estremi (oggi è tutto estremo, ve ne siete accorti? Il caldo è sempre equatoriale, il freddo sempre polare, le piogge sempre torrenziali…) non posso non rubare questa chicca all’amico Enrico

E infine un po’ di politica in senso stretto.

Alluvione, piove governo ladro? Bussare a Bonaccini e Schlein

Mai l’espressione “piove governo ladro” poco c’azzecca come in questa alluvione in Emilia Romagna. Checché ne dica Saviano, non solo l’esecutivo Meloni poco poteva farci con le piogge di questi giorni essendo al potere solo da sei mesi. Ma se c’è qualcuno a cui andare a bussare quello è il governo della Regione colpita dal disastro, che da sempre è nelle salde mani dei dem (e dei loro antenati) e che all’ultimo giro vedeva nientepopodimenoche l’attuale presidente del Pd nel ruolo di governatore e la segretaria in quello di vicepresidente.

I danni in Emilia Romagna

Se piove, piove. E le colpe sono sempre difficili da individuare: dunque non saremo noi a puntare il dito per forza contro chi guida la regione. Però oggi il Corriere di Bologna fa notare un confronto interessante tra due eventi simili e vicini sia in ordine di tempo che dal punto di vista geografico. In Emilia Romagna sono caduti in 24 ore qualcosa come 300 millimetri di pioggia, una quantità enorme in troppo poco tempo. Sono esondati fiumi, crollati ponti, interi Comuni sono stati sommersi e l’acqua ha ucciso almeno 13 persone. Per non parlare dei danni incalcolabili alle coltivazioni, alle strade, agli edifici pubblici e a quelli privati. Un disastro a tutti gli effetti che però ha un “precedente”, pure peggiore dal punto di vista della quantità di acqua piovuta ma con meno effetti catastrofici.

L’alluvione in Veneto

Nel 2018 in Veneto la tempesta Vaia colpì le montagne del Nord-Est con venti fortissimi e ben 715 millimetri di pioggia caduta in 70 ore. Più del doppio rispetto all’Emilia Romagna, fa notare il Corriere, eppure “non ci furono allagamenti paragonabili a quelli dell’Emilia Romagna di questi giorni”. Come mai? Merito delle infrastrutture. Il Veneto ha realizzato opere anti alluvionali per un miliardo e mezzo di euro dopo l’alluvione che nel 2010 devastò il Padovano e il Vicentino. La Regione ha messo a punto bacini di laminazione e altri importanti interventi strutturali al territorio. “Finora – ha spiegato Giampaolo Bottacin, assessore all’ambiente e alla Protezione civile del Veneto – abbiamo completato 5 bacini, investito 400 milioni in opere di consolidamento, 320 milioni in opere di manutenzione. E siamo solo a metà. Già oggi, però, possiamo dire che c’è stata una svolta importante. Lo testimoniano gli eventi impattanti del 2018, 2019 e 2020”.
Storia diversa in Emilia Romagna, dove 22 fiumi su 23 sono esondati provocando il disastro cui stiamo assistendo. Anche qui la Regione aveva previsto di costruire delle vasche dove far convogliare i fiumi in caso di alluvioni, ma molte sono ancora in corso d’opera. “Tra il 2015 e il 2022 sono stati destinati oltre 190 milioni di euro per la realizzazione di 23 bacini ma all’esplodere dell’ultima emergenza solo 12 erano funzionanti – scrive il Corriere – Nove sono ancora da finire, altri due funzionano in parte”. Colpa di Elly e Stefano? Difficile dirlo, anzi. Ma una cosa è certa: fosse successo in una regione governata dal centrodestra, oggi gli amministratori sarebbero già sul patibolo. Invece al momento nessuno osa bussare agli uffici del governo regionale targato Pd. (Qui)

In pratica funziona così

Oggi di fare quei lavoretti insulsi non abbiamo più tempo perché siamo troppo occupati a fermare e contrastare i cambiamenti climatici per salvare il pianeta, e tra oche ritardate e galline isteriche, finiremo tutti sommersi.

barbara

AH, QUEI BEGLI INVERNI DI UNA VOLTA!

Quelli di prima del riscaldamento globale! Quelli di prima dei cambiamenti climatici! Quelli di prima di questa spaventosa emergenza climatica che nel giro di dodici anni, no undici, no ormai sono nove scarsi, ci porteranno alla distruzione del Pianeta e alla fine della vita sulla Terra. Quei begli inverni di una volta, di quando eravamo bambini, in cui la neve cadeva e cadeva e cadeva… Ve li ricordate? Ah, che tristezza non averli più!

Penserjoch, Val Sarentina (BZ), 29 marzo 2023

barbara

LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA, PARTE QUINTA

L’articolo è un po’ lungo, ma è importante, e non mi va di postarlo a rate.

Clima, le clamorose bufale sugli orsi polari in via di estinzione

Alcune bufale si ripetono ciclicamente. L’integralismo ideologico induce gli ambientalisti e animalisti a credere a fake news

Il Secolo XIX, 31 agosto 2008: “Nove orsi bianchi sono da giorni in balìa delle onde nel mare di Chukchi in Alaska, a quasi cento chilometri dalle coste, dopo che i ghiacci si sono letteralmente sciolti sotto di loro. Sembra che alcuni non ce l’abbiano fatta. E ora è corsa contro il tempo per tentare di salvare quelli che ancora hanno la forza di nuotare. L’allarme era stato lanciato intorno al 20 agosto dal WWF che sta seguendo la situazione e oggi la storia è apparsa anche sul quotidiano britannico Daily Mail dove campeggia una eloquente fotografia, scattata da un elicottero in ricognizione, di un orso bianco che nuota in solitudine in mezzo al mare”.
“Alcuni di questi nove esemplari non si vedono più – ha detto Massimiliano Rocco, responsabile del Programma Traffic/Specie del WWF Italia –, probabilmente non ce l’hanno fatta. Gli altri sono allo stremo e al limite della sopravvivenza. Non possono tornare indietro e riconquistare naturalmente il pack, è impossibile. Bisogna intervenire”. “Perciò – ha riferito Rocco – abbiamo chiesto alle autorità canadesi e statunitensi di intervenire con i loro mezzi per poter anestetizzare gli animali e portarli in salvo”.
“Trovare così tanti orsi polari al largo è il chiaro segno che il ghiaccio su cui vivono e cacciano continua a sciogliersi. Altri orsi potrebbero trovarsi nelle medesime condizioni – aveva detto nei giorni scorsi Geoff York, un biologo del WWF esperto di orsi bianchi –. Se i cambiamenti climatici continueranno a colpire l’Artico, gli orsi polari e i loro cuccioli saranno costretti a nuotare per lunghe distanze per cercare cibo e riparo”.

Immagine straziante

Immagine straziante, quella degli orsi polari e dei loro cuccioli in balia dell’oceano, diffusa dal WWF il 20 agosto 2008, quando l’emisfero nord del pianeta era alle prese con un’estate caldissima e non si faceva fatica a credere che, a causa del caldo, stesse accadendo qualcosa di drammatico. Un’immagine che viene subito ripresa e rilanciata con dovizia di particolari da tutti i mezzi d’informazione, con l’effetto, consapevole o no, di scavare profondamente nella coscienza collettiva e di sensibilizzare i governanti sulla necessità di intervenire immediatamente sui cambiamenti climatici.
Peccato che la notizia sia totalmente inventata.
Le prime denunce in tal senso appaiono sui mezzi d’informazione una settimana dopo il primo annuncio. Ad insospettire i professionisti dell’informazione è il fatto che, dopo il primo drammatico annuncio, non facciano seguito altre puntate (attesissime) della saga degli orsi polari. Perché il WWF ha rinunciato a battere il ferro finché era caldo? Allora il WWF corre ai ripari e promette aggiornamenti “appena possibile”. A stretto giro il professor Richard Steiner, membro del programma di consulenza marina (?) dell’Università dell’Alaska, afferma che gli orsi sono “in serio pericolo perché hanno bisogno di ghiaccio marino, che sta diminuendo”. Secondo Steiner, quanto sta accadendo dovrebbe “convincere chi ancora non crede al riscaldamento globale e all’impatto che sta avendo nell’Artico”.
Ma gli orsi polari, anziché morire affogati, hanno continuato a nuotare, come hanno sempre fatto, fino a tornare sulla terraferma. Nelle zone abitate dagli orsi polari il ghiaccio si scioglie ad ogni stagione estiva, quando per tutti gli animali artici inizia la stagione della riproduzione. E gli orsi, come sempre, trovano conveniente avventurarsi alla ricerca di nuovi territori di caccia, raggiungendo le numerose isole e aree costiere che d’estate sono (ahimè) sgombre dai ghiacci ma in compenso sono sovrappopolate di foche e di cuccioli di foca: è quello il vero obiettivo degli orsi; altro che il ghiaccio polare che si scioglie sotto le loro zampe.
Dopo le prime smentite, la saga degli orsi polari alla deriva si esaurisce in pochi giorni, rimpiazzata dalla catastrofe bancaria (quella sì vera) della Lehman Brothers e dei mutui subprime. Ma non c’è da dubitare che, dal momento dell’annuncio a quello dell’ingloriosa rivelazione della bufala, nelle casse del WWF siano affluiti milioni di dollari sotto forma di versamenti volontari di chi nel frattempo, in tutto il mondo, decideva di devolvere il proprio contributo, doveroso e disinteressato, alla causa della salvezza dei poveri orsi.

Bufale ricorrenti

Anche se sono regolarmente smascherate, le campagne di sensibilizzazione sulla sorte dei poveri orsi polari alla deriva per lo scioglimento dei ghiacci si ripresentano ricorsivamente. Ed è così che, dopo l’avventura natatoria dei nove orsi naufraghi, il problema si è riproposto in termini ancora più drammatici negli anni successivi.
Il 4 marzo 2010 giornali, riviste e blog pubblicano le foto di un piccolo frammento di iceberg avvistato – si dice – a 12 miglia dalle coste della Norvegia sul quale sono appollaiati mamma orsa e il suo cucciolo.

Lo scioglimento lento e inesorabile della banchisa polare ha causato il distacco del pezzo di ghiaccio sul quale sono intrappolati i due orsi (ma perché “intrappolati”, se entrambi sanno nuotare perfettamente?). Si tenta perfino di accreditare l’ipotesi che mamma orsa stia facendo da skipper, cercando in tutti i modi di mantenere stabile il piccolo iceberg per proteggere il suo cucciolo, quasi il cucciolo stesso fosse solubile in acqua. Sul blog i commenti si succedono frenetici e accorati, dando alla vicenda un’aura da telenovela sudamericana: “Possibile che nessuno degli animalisti non abbia almeno cercato di aiutarli? Negli occhi di mamma orsa c’è solo richiesta di aiuto… e tanta paura per il piccolo… che evidentemente non ce la può fare a nuoto e la mamma non lo vuole lasciare…”; “Sono trascorse ore e forse giorni. Mi auguro che li abbiano già salvati. Lascio la mia e-mail per avere la risposta…”. Poi tutto finisce in una bolla di sapone: si tratta dell’ennesima bufala orchestrata dai soliti ambientalisti e animalisti in cerca di fondi.
L’8 ottobre 2016 Lifegate ci informa che i rarissimi orsi polari che giungono sulle coste dell’Islanda, anziché essere abbattuti (!) come si fa di solito, saranno salvati dai droni. In che modo non si riesce a capirlo, visto che i droni possono sollevare al massimo una ventina di chili e un orso pesa alcune tonnellate [c’è una svista: il peso di un maschio adulto va da 350 a 700 chili (in qualche caso può arrivare a pesare quasi una tonnellata), ma la sostanza non cambia]. C’è inoltre da considerare che il fenomeno non è così diffuso da meritare particolare attenzione: secondo uno studio condotto dall’Istituto islandese di storia naturale, durante tutta l’epoca storica (per capirci, da Erik il Rosso ad oggi) gli orsi approdati in Islanda non sono più di qualche centinaio. L’ultimo sbarco di un orso polare (regolarmente abbattuto, in quanto considerato pericoloso per gli umani) è avvenuto nel luglio 2016 a Hvalsnes.
Ma in tutta l’area artica gli avvistamenti di orsi naufraghi alla deriva continuano a succedersi con regolarità. Il 29 aprile 2019 l’agenzia russa Ria Novosti dirama una notizia, certamente degna di fede, secondo la quale un orso polare alla deriva su un iceberg al largo della penisola russa della Chukotka è stato riportato a casa nel Mare di Bering con un elicottero MI-8.

Baricco unplugged

Nell’ottobre del 2019 Alessandro Baricco pubblica il libro “The Game”, nel quale analizza la rivoluzione digitale alla luce della sua opera precedente, “I Barbari”, nella quale ha regalato all’umanità perle di saggezza secondo le quali i no-global sarebbero la nostra assicurazione contro il fascismo e il videogame Space Invaders [mamma mia quanto ci ho giocato! Ogni tanto ci torno ancora] sarebbe uno dei miti fondativi di quella che lui chiama “insurrezione digitale” e che fa ascendere nientemeno che all’opera di Alan Turing, dimostrando così di conoscere quest’ultima solo attraverso Wikipedia. Ma nel 2019 citare Alan Turing “fa fino”, anche quando si confonde la “macchina di Turing” (astratta) con uno smartphone. Paradigma dell’“insurrezione digitale”, secondo Baricco, è proprio l’i-Phone. Non si tratta affatto, come pensano in molti, di uno dei più classici strumenti di conformismo e omologazione. Secondo Baricco, “in quel tool uscivano allo scoperto e trovavano forma i tratti genetici che l’insurrezione digitale aveva sempre avuto […]. In quel telefono […] moriva il concetto novecentesco di profondità, veniva sancita la superficialità come casa dell’essere, e si intuiva l’avvento della post-esperienza. Quando Steve Jobs scese dal palco, qualcosa era arrivato a compimento”. Bella immagine: ricorda un po’ le seghe mentali di Bonito Oliva sulla trans-avanguardia [e io concordo con quel tale immeritatamente dimenticato: E le masturbazioni celebrali Le lascio a chi è maturo al punto giusto, Le mie canzoni voglio raccontarle A chi sa masturbarsi per il gusto] Nello stesso anno 2019 l’editore di Baricco trova conveniente stimolare uno spin-off di tanta profondità di pensiero con la pubblicazione del volume “The Game Unplugged”, realizzato commissionando testi eterogenei sulle tematiche del web ad un parterre autorale giovane quanto variegato. Uno di questi contributi è una riflessione a voce alta sulle difficoltà di coinvolgere il pubblico sui temi del riscaldamento globale, difficoltà che, a quanto pare, finisce col giustificare alcuni giochetti disinvolti. Ma solo per il bene dell’umanità. Nel testo si fa riferimento esplicito ad un video pubblicato su Instagram il 5 dicembre 2017 dal fotografo naturalista Paul Nicklen nel quale si vede un orso bianco che si trascina, magro ed emaciato, sull’isola di Baffin, nell’Artico canadese, in un paesaggio desolato privo di neve e ghiaccio. È solo un vecchio orso giunto alla fine della sua esistenza per cause naturali (anche gli orsi polari muoiono…). Ma Nicklen preferisce scrivere che “la popolazione dei 25 mila orsi polari rischia l’estinzione entro la fine del secolo” a causa della riduzione dei ghiacci artici. Si tratta della campagna di lancio del progetto Tide dell’organizzazione ambientalista sì-profit Sea Legacy.
Due giorni dopo, il filmato di Nickelen è ripreso integralmente da National Geographic che lo correda di un tappeto musicale di impronta decisamente noir e di una didascalia rivelatrice: “Ecco che aspetto ha il cambiamento climatico”. Le parole “cambiamento climatico” sono evidenziate in giallo e diventano così il cuore di una notizia (fasulla) che attribuisce l’agonia del vecchio orso ai cambiamenti climatici. In breve tempo il video diventa il contenuto più condiviso di sempre su National Geographic con 2,5 miliardi di visualizzazioni.

Danni permanenti

Finalmente, il 12 dicembre un servizio diramato dalla BBC, realizzato con il supporto di alcuni studiosi, chiarisce come stanno effettivamente le cose: l’orso ripreso nel filmato è evidentemente affetto da malanni che con i cambiamenti climatici non c’entrano niente e si muove in un territorio nel quale i ghiacci perenni non ci sono mai stati.
Qualche giorno dopo, recependo anche le inattese rimostranze di Nicklen e di Sea Legacy, la redazione di National Geographic è costretta ad ammettere di avere forzato il significato del filmato. Ma il succo delle prolisse giustificazioni è che la colpa dell’accaduto (manco a dirlo) è dei “negazionisti”, che “costringono” chi ha veramente a cuore le sorti del pianeta ad operazioni disinvolte di questo genere per sensibilizzare gli animi!
I danni causati da mistificazioni come queste si creano in un attimo e, purtroppo, sono permanenti. I tempi di reazione ai messaggi terroristici sul clima e sulle sorti del Pianeta veicolati attraverso Instagram, Facebook, Twitter e Youtube polarizzano l’attenzione per pochi secondi ma lasciano convinzioni (errate) che durano per sempre.
Lo smontaggio di una fake news, che si tratti di orsi o di altro, richiede preparazione, ricerca e riflessione, ma non ha mai lo stesso appeal emotivo di una fake news che si gioca interamente sull’impatto emotivo. La verità è dunque destinata a soccombere nel breve termine e a non essere più recuperabile neppure nel medio e lungo termine.
Un esempio eclatante è dato dal ricordato contributo a “The Game Unplugged” che, anziché evidenziare i guasti causati da certa ideologia pseudo-ambientalista, si conclude con una elaborata apologia sul perché i catastrofisti del clima siano costretti, per il bene dell’umanità, a ricorrere a mezzucci come le falsificazioni per affermare la “verità vera”, senza alcun riguardo per la verità scientifica.
L’autore del contributo citato conclude così le sue brillanti riflessioni: “Viviamo nell’inerzia di una società costruita attorno ai combustibili fossili, e gli istinti e le abitudini che in questo sistema ci sono serviti per prosperare ci stanno portando alla distruzione […] Davanti ai dati non ci dovrebbe essere spazio per le interpretazioni […] Non eravamo destinati all’apocalisse, e se siamo finiti in piena crisi climatica ci sono delle responsabilità precise, politiche ed economiche”.
Si giunge così a rovesciare completamente ogni logica, a dimostrazione del fatto che contro il fanatismo e il ciarpame ideologico non ci sono ragioni scientifiche che tengano. Del resto – come continuano a spiegarci coloro che hanno capito tutto – tutto è relativo, anche la verità.
Se oggi si effettua una ricerca in Internet, le notizie relative ai nove orsi naufraghi e al loro confratello emaciato dell’isola di Baffin si ritrovano ancora lì tali e quali, senza essere corredate di alcun riferimento stabile alle smentite che nel frattempo le hanno ridicolizzate.

Un mare di cazzate

Il mare delle cazzate che circolano in rete sugli orsi polari non sembra avere limiti. Ecco di seguito alcune perle veicolate da LifeGate, public company di consulenza sul modello “People-Planet-Profit” creata nel 2000 dalla famiglia Roveda, dopo avere accumulato una fortuna vendendo prodotti biologici:

– “Dobbiamo dire addio all’orso polare? Simbolo dello scioglimento dei ghiacci, oggi il loro numero è drasticamente in diminuzione a causa delle temperature bollenti che si registrano nell’Artico” (19 marzo 2014).
– “Gli orsi polari hanno iniziato a cacciare i delfini per colpa dell’uomo. Il riscaldamento globale sta portando alcuni orsi polari a cibarsi di delfini. Il fenomeno inedito è stato osservato da alcuni ricercatori norvegesi” (12 giugno 2015).
– “L’agonia degli orsi polari racchiusa in una foto. Una fotografia scattata alle Svalbard mostra con cruda chiarezza il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci artici che sta minacciando la sopravvivenza degli orsi (e di tutti noi)” (11 settembre 2015).
– “La purezza genetica dell’orso polare e del grizzly è minacciata dal riscaldamento globale che ne sta sovrapponendo gli areali favorendone l’ibridazione” (26 maggio 2016).
– “Un nuovo pericolo per gli orsi polari, i cuccioli sono minacciati da agenti inquinanti. Secondo uno studio italiano i contaminanti organici persistenti alterano il latte delle femmine avvelenando i piccoli orsi polari” (7 gennaio 2017).

Apprendiamo così che – si badi bene, per colpa dell’uomo – gli orsi polari sono in via di estinzione (non è vero), mangiano i delfini (mangiano qualunque animale capiti loro a tiro) e scopano con i grizzly (un solo esemplare ibrido è stato finora documentato in natura nel 2006).
Quindi sono solo cazzate: ma chi si incarica di farlo notare al numerosissimo popolo che continua a frequentare acriticamente il web e a nutrire le proprie convinzioni preconcette con queste “verità” rivelate?
L’allarme sull’estinzione degli orsi polari fu lanciato dai proto-ambientalisti negli anni Sessanta. Sotto accusa erano allora le colonie umane dell’Artico che cacciavano gli orsi per cibarsi della loro carne. Poi si scoprì che la popolazione degli orsi polari era in netta crescita. Ma oggi possiamo dirlo solo sottovoce, altrimenti rischiamo di offendere ambientalisti e animalisti e di essere classificati tra i “negazionisti” del cambiamento climatico. E così, nel sito del WWF l’orso polare è tuttora classificato come “specie in via di estinzione”: erroneamente, dato che, secondo i dati scientifici, la popolazione degli orsi polari è triplicata nel mezzo secolo che separa il 1960 dal 2010, che la specie non ha predatori (ormai neppure l’uomo) e che può contare su riserve di cibo vivo costituito da specie tutt’altro che in via di estinzione.
Ma incurante della verità scientifica, il WWF ha meritoriamente deciso di offrire a tutti la possibilità di adottare un orso polare. Lo si può fare pagando una somma compresa tra i 30 e i 125 euro all’anno: meno di quanto costi adottare a distanza un cucciolo di uomo del Terzo Mondo.

La pelle dell’orso

L’ennesimo allarme sulla sorte degli orsi polari fu lanciato nel 2015 in seguito alla comparsa di una campagna pubblicitaria della Arsu Systems Corporate, azienda che attraverso il proprio sito web, promuoveva l’uso della pelle di orso polare come coibente naturale per isolare dal freddo le abitazioni. Hans Jansson, sedicente amministratore delegato dell’azienda, dichiarava nel sito (tuttora accessibile online) che la sfida per un futuro sostenibile passava per una nuova idea di architettura, e in quell’ambito l’uso delle pelli degli orsi polari – naturali e biodegradabili al 100% – apriva possibilità notevoli, sulla scia di quanto da sempre avevano scoperto e praticato le popolazioni Inuit. Il sito offriva quindi la possibilità di chiedere un preventivo gratuito per isolare termicamente la propria abitazione con pelli di orso polare ricorrendo a tre diverse linee di prodotto: il Furpro30, pellicce di cuccioli di orso di età inferiore a tre anni, adatte per l’isolamento delle intercapedini interne e dei controsoffitti; il B-tech28, pellicce di orsi di età compresa fra i tre e i dieci anni, idonee per l’isolamento di intercapedini e soffitti non praticabili; il Bearrier22, pellicce di orsi di età maggiore di dieci anni, ideali per facciate ventilate, cappotti termici e coperture.
Immediatamente si scatenò sul web la campagna #weareall bears (siamotuttiorsi) che chiedeva a gran voce l’oscuramento immediato del sito della Arsu Systems. Salvo poi accorgersi che si trattava di una campagna di comunicazione provocatoria lanciata dalla multinazionale dell’isolamento termico per l’edilizia Ursa (dal cui anagramma la denominazione Arsu dell’azienda incriminata) in collaborazione con Italian Climate Network e Tribe Communication. Il vero obiettivo della campagna era promuovere l’Ursa Award: best project for a better tomorrow, un bando per un progetto architettonico innovativo ecosostenibile, volto al risparmio energetico e di ridotto impatto ambientale.
Il linguaggio olistico scelto per la campagna, che voleva essere ironicamente provocatorio, aveva trovato terreno fertile nei ristrettissimi spazi lasciati all’immaginazione dal fanatismo ambientalista e animalista, finendo con lo scatenare l’ira della parte più indottrinata del web, ormai divenuta, purtroppo, maggioranza schiacciante.
Lo scherzo della Arsu Systems prosegue. Nella pagina Facebook della Arsu si legge oggi quanto segue: “Siamo davvero delusi dal fatto che la nostra missione non ti sia chiara. Ci dedichiamo a salvare il pianeta e il futuro dei nostri figli. Il modo migliore per farlo è assicurare che i nostri edifici siano isolati termicamente e utilizzare materiali biodegradabili e fonti rinnovabili. Gli insulti non cambieranno la nostra determinazione e soprattutto non faranno nulla per aiutare il nostro pianeta. Voglio cogliere l’occasione per ringraziare i nostri clienti in tutto il mondo che credono in noi e che ci stanno supportando con i loro ordini”.
Ma parallelamente – e incredibilmente – prosegue anche la campagna contro la Arsu Systems di #weareallbears, che continua ad esortare gli aderenti a fermare un inesistente massacro di orsi polari.

Predatori e prede

A margine delle notizie fasulle sui rischi di estinzione degli orsi polari, c’è da rilevare che anche il rapporto predatorio tra uomo e orso negli ultimi anni si è invertito. Se è vero che alcune popolazioni artiche sono tuttora autorizzate a cacciare gli orsi per cibarsene, negli ultimi decenni lo hanno fatto sempre meno, preferendo le foche, il pesce e altri cibi, mentre per contro si registra un numero crescente di esseri umani attaccati e uccisi dagli orsi polari.
Molti attacchi si verificano alle isole Svalbard, dove i turisti si recano spesso proprio per vedere gli orsi polari, nonostante il territorio sia letteralmente tappezzato di cartelli di avvertimento che invitano a non avventurarsi oltre senza un’arma da fuoco efficiente e carica. Nell’agosto 2011 un gruppo di studenti britannici di età compresa tra 16 e 23 anni nel corso di un viaggio organizzato dalla British Schools Exploring Society è stato attaccato da un orso polare alla periferia della cittadina di Longyearbyen. Il bilancio è stato di un ragazzo morto e altri quattro gravemente feriti. All’8 agosto dell’anno scorso risale la notizia dell’aggressione mortale subita da una turista francese.
Gli attacchi degli orsi polari sono all’ordine del giorno in Groenlandia, Islanda, Alaska, Canada e Russia. Il 1° settembre 2016 si diffuse in rete la notizia che un gruppo di cinque climatologi russi del servizio Sevgidromet era assediato nella base artica russa di Troynoy, isola dell’arcipelago di Izvesty Tsik, nel mare artico di Kara, da un branco comprendente una dozzina di orsi polari. Il 31 agosto il branco si era avvicinato alla base e aveva sbranato un cane da slitta. In breve tempo i ricercatori avevano esaurito la scorta di razzi di segnalazione, utilizzati per allontanare gli orsi. Erano stati quindi costretti ad interrompere le attività all’aperto, in attesa dell’arrivo della nave appoggio, che tuttavia sarebbe giunta solo dopo un mese. L’SOS dei ricercatori russi fu comunque raccolto dalla nave russa Akademik Tryoshnikov, che riuscì a raggiungerli e a rompere l’assedio degli orsi, rifornendo gli scienziati di cibo e bengala.
La portavoce di Sevgidromet, Yelena Novikova, non perse l’occasione per attribuire il comportamento anomalo (?) degli orsi al cambiamento climatico: “Il ghiaccio recede velocemente – spiegò la Novikova – e gli orsi non hanno il tempo di nuotare fino alle altre isole. Ma a Troynoy non c’è cibo e perciò sono andati alla stazione meteo”. La domanda sorge spontanea: ma di cosa campavano gli orsi di Troynoy prima dello scioglimento stagionale dei ghiacci, visto che sull’isola gli orsi polari ci sono sempre stati?
La notizia più recente risale allo scorso 17 gennaio, quando un orso polare, dopo avere dato la caccia ad altre persone, ha attaccato e ucciso una madre ventiquattrenne e il suo bambino di un anno a Wales, nella penisola di Seward, Alaska. Anche in questo caso, l’emittente KTUU, nel dare la notizia dell’aggressione, ne ha attribuito la responsabilità al cambiamento climatico, che costringerebbe (perché mai?) gli orsi ad avvicinarsi alle aree antropizzate.
Di fronte al fervore degli ambientalisti e degli animalisti, l’ONU ha addirittura anticipato i tempi e nel 2005 ha istituito la “Giornata internazionale dell’orso polare”, che cade ogni anno il 27 febbraio. Si accompagna idealmente alla “Giornata internazionale del gatto nero” (che cade il 17 novembre); il quale purtroppo, come l’orso polare, non sarà mai consapevole di tanta considerazione. E non manca neppure la “Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente nella guerra e nei conflitti armati” (che cade il 6 novembre). Qual è il significato di quest’ultima ricorrenza? Non mi viene in mente altro: “Ammazzatevi pure, gente, ma non inquinate!”.
Ugo Spezia, 28 gennaio 2022, qui.

E chissà se l’uranio impoverito che Londra vuole dare ai nazisti inquinerà o no.

barbara

LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA, PARTE QUARTA

Questo è un articolo rigorosamente tecnico, ma mi sembra che possa essere sostanzialmente seguito anche dai non addetti ai lavori, visto che io non lo sono e ci sono riuscita.
NOTA: la lettera che precede “in”, “out” eccetera non è una L bensì una I maiuscola che sta per intensità.

Effetto serra, tutti gli errori dell’Ipcc

Affinché vi sia equilibrio termico è necessario che l’intensità Iin della radiazione solare in ingresso nella Terra uguagli l’intensità Iout della radiazione da essa in uscita nello spazio: Iin= out . Della radiazione solare che giunge all’orbita terrestre, Isole , una parte – proporzionale ad un coefficiente, a, che si chiama coefficiente di albedo – viene riflessa, e una parte viene assorbita. Quest’ultima risulta essere Iin = (1 — a)Isole ∕4. In definitiva:

Iout = (1 — a)Isole ∕4

che, come si vede, dipende da due parametri: l’irradianza solare, sole , e l’albedo, a . L’effetto serra è quindi un numero, G , ed è dato dalla differenza tra la radiazione emessa dalla superficie della Terra e la parte di questa radiazione che attraversa l’atmosfera e va oltre nello spazio. Siccome la radiazione emessa dalla superficie della Terra è proporzionale [costante di proporzionalità σ = 5.67 x 10-8 watt/(secondi ∙ kelvin)] alla quarta potenza della sua temperatura (legge di Stefan-Boltzmann), allora l’effetto serra è

     G = σT4 − (1 − a)Isole ∕4    (1)

[NOTA aggiunta dall’autore nei commenti: “Nelle unità della costante di Stefan-Boltzmann c’è un refuso: K (kelvin) deve essere elevato alla potenza 4. Un attento lettore (Mario T.) me l’ha segnalato e lo ringrazio.”]

un’equazione sufficientemente generale da applicarsi a qualunque pianeta, luna o asteroide.
Per la Terra, i valori delle quantità dette sono: T = 289, a = 0.3, Isole = 1370 W∕m2, cosicché

G = 160 W∕m2

è l’effetto serra naturale, di cui 30 W∕m2 sono attribuiti alla presenza naturale della CO2. Questo effetto serra naturale fa sì che la Terra è più calda di 33 gradi: una Terra senza atmosfera sarebbe 33 gradi più fredda.
Dall’equazione (1), la variazione in effetto serra è

ΔG = 4σT3 ΔT + IsoleΔa/4  (2)

dove,  come s’usa di solito, la variazione di una quantità è stata indicata premettendo al suo simbolo la lettera greca delta maiuscola. Per chi non è familiare con la matematica accetti sulla fiducia il passaggio dalla (1) alla (2), ove si è assunto ΔIsole = 0, perché secondo l’Ipcc il valore dell’intensità della radiazione solare sull’orbita terrestre è costante. 

Inserendo i valori σ = 5.67 x 10-8W∕(s ∙ K), T  = 289 K e Isole = 1370 W∕m2, la relazione (2) diventa

  ΔG = 5.67ΔT  + 342Δa   (3)

Ora:

Secondo l’Ipcc, la variazione di effetto serra dovuto ad un raddoppio della concentrazione atmosferica della CO2 vale

ΔG = 3.7 W∕m2

Si noti che questo è un aumento del 2.3% rispetto all’effetto serra naturale. Orbene, posto che l’effetto serra naturale (G = 160 W∕m2) comporta un aumento della temperatura di 33 gradi, se l’effetto serra diventa G + 3.7 = 163.7 W∕m2, quale sarà la corrispondente variazione di temperatura?

2) Secondo l’Ipcc la corrispondente variazione di temperatura è un aumento di 3 gradi:

ΔT = 3K

3) Inoltre, sempre secondo l’Ipcc – e secondo tutti i modelli climatici –  un aumento della concentrazione atmosferica di CO2 comporta un AUMENTO dell’albedo, cioè  Δa > 0.

Ma con ΔG = 3.7  e ΔT = 3  la relazione (3) diventa (in W/m2)

3.7 = 16.4 + 342Δa (4)

che può essere soddisfatta solo se Δa = – 0.037 , cioè la variazione di albedo è negativa. Ma come detto, secondo l’Ipcc – e secondo tutti i modelli climatici – un aumento della concentrazione atmosferica di CO2 comporta un aumento dell’albedo, cioè comporta un Δa  positivo, ma in questo caso la (4) non verrebbe in nessun caso soddisfatta. Detto diversamente:

Sembra che all’Ipcc abbiano seri problemi con la fisica elementare!

Per cercare di mettere le cose a posto, all’Ipcc si sono inventati i cosiddetti meccanismi di feedack positivi. Dicono quelli dell’Ipcc: più CO2 significa più riscaldamento, ma più riscaldamento significa 1) più CO2 emessa dagli oceani, cioè più riscaldamento; 2) maggiore evaporazione d’acqua, cioè più riscaldamento (l’acqua è il principale gas-serra); 3) maggiore scioglimento dei ghiacci, cioè minore radiazione solare riflessa nello spazio, cioè più riscaldamento; 4) scioglimento del permafrost con immissione in atmosfera di metano, cioè riscaldamento (il metano è un altro gas serra).  E più riscaldamento significa: etc., etc.
Si noti che qui a innescare la reazione a valanga non è la CO2 in sé, ma il riscaldamento. Cioè, qualunque riscaldamento dovrebbe causare questa presunta reazione a valanga. Ma la cosa, come detto, è un’invenzione, perché è contraddetta dai fatti: i fatti sono che nell’ultimo mezzo milione d’anni la temperatura del pianeta ha oscillato con variazioni dell’ordine di 10 gradi attorno a temperature dell’ordine di 300 kelvin, cioè la temperatura ha oscillato con variazioni di appena il 3% intorno al suo valore medio; ma quando ci sono stati riscaldamenti naturali il pianeta ha reagito, di tutta evidenza, con feedback negativi e non con feedback positivi, altrimenti sarebbe entrato in ebollizione. Per usare le parole di Greta: non è andata in fiamme la nostra casa nel passato, e non andrà in fiamme nel futuro.
Franco Battaglia, 12 gennaio 2023, qui.

Aggiungo una citazione carina:

Giorgio Bianchi

Cuoci la pasta sul fornello, hai la macchina diesel, non consumi insetti, non hai la bandiera ucraina sul profilo… ti ammali, muori.

E un’altra dal libro di Antonio Polito “Riprendiamoci i nostri figli”:

i «negazionisti». Potremmo chiamare così coloro che […] in genere negano qualsiasi emergenza, perfino le ondate di caldo estive.

Cioè, avete capito? Se in estate capitano delle ondate di caldo, siamo di fronte a un’emergenza, un’emergenza talmente emergenziale che merita di essere accompagnata da un “perfino”: serve aggiungere altro?

barbara

LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA, PARTE TERZA

Clima, la grande bufala sulle colpe dell’uomo: non c’è prova scientifica

La verità scientifica sull’evoluzione del clima terrestre, quella che emerge dallo studio delle carote di ghiaccio e dei sedimenti marini, è incontrovertibile. Le conclusioni ricavate dagli studiosi possono talvolta differire tra loro marginalmente, ma non nella sostanza. Quindi, a meno che non si voglia deliberatamente travisare la verità scientifica, si deve riconoscere che il clima della Terra è costantemente in fase di cambiamento, che cambiamenti anche drammatici si sono verificati più volte nel lontano e nel recente passato e che non esiste alcuna evidenza scientifica del fatto che i suddetti cambiamenti dipendano dalle attività umane. Anzi: esiste evidenza del contrario. Chi oggi vuole convincerci che il clima sta cambiando per colpa dell’uomo e delle sue emissioni di CO2 lo fa senza produrre alcuna prova scientifica. Chi sfodera periodicamente grafici “a mazza da hockey” che mostrano una temperatura costante per duemila anni schizzare improvvisamente alle stelle nell’ultimo secolo lo fa elaborando i dati sulla base di algoritmi errati.

Bufale sul clima

I fautori dell’“origine antropica a tutti i costi” si concentrano oggi nell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU, un organismo che non è scientifico ma politico: lo si può capire facilmente dall’aggettivo “intergovernmental” e dal fatto che i membri del panel sono nominati dalla politica e non dalla comunità scientifica.
Dato il proprio mandato politico, l’IPCC ha affrontato fin dall’inizio il problema senza considerare tutte le variabili scientifiche che lo condizionano, a cominciare dall’irraggiamento solare. Sembra incredibile, ma in tutti i documenti elaborati finora dall’IPCC si dà per scontato che l’irraggiamento solare sia rimasto costante per centinaia di migliaia di anni, assunzione in netto contrasto con ogni evidenza scientifica. Del resto, l’IPCC dichiara di non fare ricerca, ma di “analizzare e valutare”, con metodi propri, i risultati delle ricerche fatte da altri, con la finalità dichiarata (e orientata) di “evidenziare i rischi associati ai cambiamenti climatici indotti dalle attività umane”.
Il fatto che i cambiamenti climatici siano “indotti dalle attività umane” non è quindi oggetto di discussione e dimostrazione, ma un assunto di base, un presupposto che motiva l’esistenza stessa dell’IPCC.

Carenze di metodo

Se istituisco un gruppo di lavoro e lo incarico di evidenziare i rischi del “cambiamento climatico di origine antropica”, se lo finanzio lautamente e se lo perpetuo nel tempo per tre decenni distribuendo incarichi di carattere diplomatico, stipendi esentasse e un’ampia visibilità internazionale, sarà ben difficile che quel gruppo di lavoro non trovi alcuna prova (reale o presunta) delle origini antropiche del cambiamento climatico. Diverso sarebbe se incaricassi quel gruppo di studiare “le origini” (e basta) del cambiamento climatico. In questo secondo caso il gruppo di lavoro potrebbe analizzare obiettivamente tutte le cause del cambiamento climatico, incluse, se ci sono, quelle antropiche.
Anche la tesi che l’IPCC, nel valutare le ricerche condotte da altri, non “condizioni” le ricerche stesse è palesemente fasulla: le “valutazioni” dell’IPCC, infatti, violano il normale processo scientifico, in quanto introducono una forzante ideologica presupponendo le origini antropiche dei fenomeni osservati, anche se chi ha svolto quelle ricerche non ha menzionato affatto (e talvolta ha escluso) l’origine antropica dei fenomeni stessi.
Altra circostanza non abbastanza conosciuta è che le tesi dell’IPCC sono elaborate all’interno di un contesto di tipo politico, con metodi di tipo politico che giungono fino alla revisione critica su base politica delle risultanze scientifiche.
Quest’ultima prassi è comunemente adottata, ad esempio, nella redazione dei “Summary for Policymakers”, pubblicazioni di sintesi dell’IPCC-pensiero che diventano il “vangelo climatico” sul quale i politici sono chiamati ad assumere le loro decisioni. Chi partecipa ad un processo del tipo descritto, anche se in origine è uno scienziato, assume una posizione che non è più scientifica, ma politica.
Considerato tutto ciò, c’è da chiedersi perché mai le dogmatiche tesi sul clima elaborate in seno all’IPCC dell’ONU dal 1990 in poi siano riuscite ad influenzare le politiche dell’Unione Europea e dei paesi membri tanto profondamente da condizionare negativamente l’economia del continente europeo e il tenore di vita di 450 milioni di cittadini. La risposta è che dietro queste scelte devono esserci altri interessi: sono quegli interessi che, negli ultimi decenni, sono riusciti a mobilitare la politica convincendola a sposare tesi che non hanno nulla di scientifico e che anzi contraddicono la scienza.

Pensiero unico sul clima

La confutazione delle bufale sui cambiamenti climatici e sulle loro cause ha sempre prodotto reazioni scomposte in seno all’universo ambientalista che ruota intorno all’IPCC. Ma che la verità scientifica sia diventata un nemico da combattere è una novità recente. Una novità che assume aspetti inquietanti.
A prendere posizione contro quelli che definisce “negazionisti del cambiamento climatico” è il colosso americano Google, che il 7 ottobre 2021, con la “risposta n. 11221321” di Google Ads“, ha deciso di chiudere la piattaforma ai contenuti promozionali che “contraddicono il consenso scientifico consolidato sull’esistenza e le cause dei cambiamenti climatici”. Nel mirino di Google “i contenuti che fanno riferimento al cambiamento climatico come a una bufala o a una truffa, affermazioni che negano che le tendenze a lungo termine mostrino che il clima globale si sta riscaldando e affermazioni che negano che le emissioni di gas serra o le attività umane contribuiscano al cambiamento climatico”.
Su quale base scientifica è stata assunta da Google questa drastica decisione? Ma naturalmente sulle tesi (politiche e non scientifiche) dell’IPCC: “Abbiamo consultato fonti autorevoli sull’argomento delle scienze climatiche – scrive Google – inclusi gli esperti che hanno contribuito ai report di valutazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite”.
Dobbiamo dunque attenderci che, nel prossimo futuro, dalla piattaforma Google spariscano le opinioni scientificamente fondate per lasciare spazio al “pensiero unico” di matrice IPCC-ambientalista. Ed ecco trovato un nuovo metodo, del tutto inedito, per perpetuare le tesi dogmatiche dell’IPCC sul clima.

Reazioni

Di fronte al dogmatismo e all’atteggiamento impositivo dell’ONU-IPCC, il sistema scientifico internazionale ha cominciato a reagire in modo fermo.
Nel 2019, su iniziativa dell’ingegnere e geofisico olandese Guus Berkhout e del chimico-fisico e giornalista scientifico olandese Marcel Crok, oltre 700 scienziati hanno sottoscritto e inviato ai leader mondiali una lettera aperta di richiamo alla realtà. Più recentemente, il 2 gennaio 2023, quando i sottoscrittori del manifesto erano saliti a 1.500 circa, lo stesso Guus Berkhout ha indirizzato una lettera aperta al Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres richiamandolo all’ordine sulla necessità di abbandonare una linea dogmatica e intransigente che non tiene conto della verità scientifica e che rischia di condannare i paesi industriali ad una recessione di durata pluridecennale, che produrrebbe immani sofferenze alla popolazione mondiale, tanto ingiustificate quanto inutili al fine di stabilire un impossibile e velleitario sistema di governo del clima terrestre.
Non credo che l’Onu possa fare marcia indietro su un disegno politico avviato tre decenni fa senza perdere la faccia di fronte al mondo. Ma forse i governi dei paesi europei potrebbero cominciare a rivedere le loro posizioni.
Aspettiamo e speriamo…
Ugo Spezia, 9 gennaio 2023, qui.

3. Fine (ma in realtà continua)

A questo punto direi che ci sta bene questa considerazione.

Giovanni Bernardini

CASE

Tizio compra una casa pagandola, poniamo, 100.000 euro. La compra rispettando tutte le leggi, i regolamenti e gli usi in essere, pagando tutte le tasse dovute.
Per comprare la casa Tizio ha contratto un mutuo con la sua banca ed ora paga regolarmente le rate.
Tutto OK, direbbe una persona normale. Le rate che Tizio paga alla banca riducono il suo reddito disponibile ma lui può godere del bene che con tanti sacrifici ha acquistato.
Invece NO.
A Bruxelles un branco di burocrati decide che la casa di Tizio non è “a norma energetica”. O Tizio fa ristrutturare il suo immobile, spendendo, diciamo, 40.000 euro o perde il diritto di poterlo vendere. La casa che Tizio ha intenzione di lasciare ai figli all’improvviso vale ZERO, a meno che Tizio non sborsi 40.000 euro.
E se non li ha? Semplice, può contrarre un altro mutuo con la banca, così il suo reddito disponibile diminuisce ancora.
Fantascienza? NO, realtà, la realtà di una UE sempre più in preda a deliri ideologici.
E’ chiaro che obbligare tutti a spendere cifre decisamente alte per ristrutturare case acquistate in maniera perfettamente legale viola in maniera clamorosa il principio della irretroattività della legge. Una legge vale dal momento in cui è approvata in poi, non può riferirsi ad eventi del passato.
Qualche Pierino può affermare che “si tratta di salvare il pianeta”, quindi tutto va bene.
Salvare il pianeta? Ma… scusate, la direttiva UE pretende che tutte le abitazioni debbano rientrare nella classe E entro il 2030. Però la nuova eroina verde, Greta Thunberg, ci ha assicurato che nel 2030 ci sarà la fine del mondo… e allora? La direttiva arriva tardi… quindi… lasciateci almeno morire in pace…
Salvare il pianeta? Ma… gli abitanti della UE sono 447 milioni, di questi diciamo una cinquantina di milioni sono interessati dalla direttiva. Nel “pianeta” siamo in 6 MILIARDI [in realtà 8 abbondanti]. Davvero la ristrutturazione di qualche milione di abitazioni “salverà il pianeta”? Non scherziamo…
Salvare il pianeta? Ma… da oltre 40 ANNI i vari governi, e la UE in testa, impongono sempre nuove norme, su tutto. E, malgrado questo diluvio, questa valanga di norme i media strombazzano ogni 5 minuti che la fine del mondo è dietro l’angolo. Forse qualcosa non va…
Salvare il pianeta? Ma… la direttiva dice che le case non ristrutturate continueranno ad “uccidere il pianeta”, solo… non potranno essere vendute. E allora? Di che razza di “salvataggio” si tratta? Se fossero coerenti i burocrati UE dovrebbero stabilire che le case non ristrutturate dovranno essere abbattute ed i loro proprietari costretti a vivere sotto i ponti, magari incarcerati e condannati all’ergastolo per “omicidio del pianeta”.
Sarcasmi a parte, la direttiva sulle abitazioni non “salva” un bel niente. Si tratta dell’ennesima misura burocratica, illiberale, non democratica che si cerca di imporre ai cittadini europei ed italiani in particolare.
Spero solo che l’Italia sappia opporsi adeguatamente.

Aggiungo, a proposito degli eventi estremi che imperversano ai nostri giorni, questa splendida foto

ricordando che le cascate del Niagara si trovano sul 43° parallelo, quello che attraversa Spagna Francia Italia (per la precisione poco a sud dell’isola di Capraia) Croazia, Mediterraneo e Adriatico. Così, giusto per.
E concludo con quest’altra foto che vale un Perù della “piccola Greta”, diventata nel frattempo culona, con la faccia bolsa di chi si nutre male, e sempre con l’espressione ebete.

barbara

LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA 2

Perché sembra che i sacerdoti dell’emergenza climatica dimentichino una cosa di non trascurabile importanza: TUTTE le civiltà si sono sviluppate nei periodi caldi o nelle zone calde.

Così il cambiamento climatico ha fatto sviluppare le civiltà

È interessante porre in relazione l’andamento delle temperature medie annuali nel periodo post-glaciale con alcune tappe significative dello sviluppo della civiltà umana. Esiste infatti una evidente correlazione tra i cambiamenti climatici, lo sviluppo e la scomparsa di molte civiltà.
I dati climatici mostrano che, dopo la fine dell’ultima glaciazione, intorno all’anno 6250 a.C. le temperature medie annuali iniziarono a crescere e continuarono a crescere per un lunghissimo periodo, rimanendo per oltre 3000 anni al di sopra della temperatura media post-glaciale. Durante questo periodo, noto ai paleo-climatologi come “optimum climatico post-glaciale”, il progressivo miglioramento del clima rese abitabili anche le latitudini nordiche e, al contrario, rese gradualmente meno facile la sopravvivenza alle latitudini più meridionali, soggette a un progressivo processo di inaridimento e desertificazione.
Grazie all’optimum climatico, nei territori nordici si svilupparono le popolazioni, di ceppo indoeuropeo, che affiancarono progressivamente e sostituiranno in gran parte quelle di ceppo non indoeuropeo che in epoca precedente avevano colonizzato le latitudini mediterranee e mediorientali.

Civiltà nordica

L’optimum climatico post-glaciale determinò l’impressionante sviluppo della civiltà del bronzo nordica, che irrompe nello scenario della civiltà umana in maniera improvvisa, nettamente più tardi delle civiltà mediterranee e mediorientali. In Danimarca, Svezia, Norvegia e Germania settentrionale si sviluppa una civiltà che appare fin dall’inizio del tutto autonoma rispetto alle civiltà già riconoscibili nei territori più meridionali. 
Così parlò dell’optimum climatico e della civiltà nordica Pia Laviosa Zambotti (1898-1965): “[È] l’epoca climatologicamente migliore che i paesi nordici abbiano mai conosciuto e che giustifica il quadro di elevata cultura allora raggiunto dalla Scandinavia (…) È nell’ambito di questo lungo e favorevolissimo periodo climatico che si sviluppa l’ascesa della cultura nordica con l’affermazione in linea progressiva delle civiltà di Maglemose, di Ertebölle, dei dolmen, delle tombe a corridoio e infine le ricche manifestazioni culturali dell’età del bronzo”.
La realtà dell’optimum climatico è confermata da numerosi studi, e in particolare dallo studio dei pollini presenti nelle stratificazioni di terreno studiate dai paleontologi. L’evidenza scientifica mostra complessivamente che i ghiacciai continentali si erano ridotti a un’estensione molto minore di quella attuale e che il Mare Artico era libero dai ghiacci. Alle alte latitudini, la temperatura media estiva era più elevata di diversi gradi centigradi rispetto a quella attuale. In particolare, nell’area scandinava si erano stabilite condizioni climatiche tali da permettere lo sviluppo delle foreste di latifoglie e addirittura la coltivazione della vite.

Tracollo climatico

Ma il periodo dell’optimum climatico ebbe improvvisamente fine intorno al 3000 a.C., quando le temperature medie annuali precipitarono di 1 °C nel breve volgere di pochi secoli. Questo periodo è noto ai climatologi come “tracollo climatico”. Scrisse in proposito Pia Laviosa Zambotti; “Quasi improvvisamente, la temperatura precipita: entriamo nella fase subatlantica con clima umido e freddo (…) Entriamo nel clima freddo del postglaciale, il quale, coincidendo nella fase massima con l’età del ferro, arginerà e condannerà all’abbandono tutte le più promettenti energie della cultura nordica”.
Stando ai dati climatici desumibili dalle carote di ghiaccio e dai sedimenti, il peggioramento del clima fu molto rapido: iniziò e si compì nell’arco temporale di pochi secoli, influendo in modo determinante sulla vita delle popolazioni, che furono costrette a spostarsi verso sud alla ricerca di condizioni climatiche meno estreme. Iniziò così la grande migrazione che portò le popolazioni di ceppo indoeuropeo a soppiantare gradualmente le popolazioni di origine non indoeuropea che popolavano l’Europa centro-meridionale, l’altopiano iranico e l’India.
Fu questa grande migrazione a diffondere in Europa le popolazioni indoeuropee che la occupano tuttora.

Civiltà cretese

Il tracollo climatico fu seguito da un nuovo periodo di riscaldamento del clima che si manifestò a partire dal 2700 a.C. e culminò intorno al 1300 a.C.. Durante questo periodo di riscaldamento (detto “periodo caldo minoico”) nacque e si sviluppò nel Mediterraneo la civiltà cretese, chiamata dal suo scopritore, l’archeologo britannico Arthur Evans, “civiltà minoica”.
Le evidenze archeologiche inducono a ritenere che questa civiltà si sia ulteriormente sviluppata in seguito all’innesto di una popolazione di ceppo indoeuropeo proveniente dall’esterno – che parlava un dialetto greco e acquisì in loco la scrittura nota come “Lineare B”, decifrata da Michel Ventris nel 1953 –  su un substrato antropico di ceppo non indoeuropeo preesistente, che parlava una lingua sconosciuta e utilizzava la scrittura nota come “Lineare A”, tuttora non decifrata.
La civiltà cretese fu dunque la prima civiltà indoeuropea a svilupparsi nel Mediterraneo, riuscendo a dare vita ad una rete commerciale marittima che raggiunse il Nord-Africa, la Fenicia (l’attuale Libano) e le coste del Mar Nero. Anche lo sviluppo di questa civiltà fu propiziato da un miglioramento del clima di cui si trova testimonianza nelle carote di ghiaccio e nei sedimenti marini.

Civiltà romana

Del resto, in un’epoca in cui l’uomo dipendeva totalmente dalla natura, è logico pensare che il clima dovesse avere un’influenza determinante sullo sviluppo delle attività umane e in definitiva della civiltà. Questa assunzione sembra confermata da quanto visto sullo sviluppo della civiltà nordica e sullo sviluppo della civiltà cretese. Ma altre conferme vengono dal confronto tra l’andamento della temperatura media annuale e lo sviluppo di civiltà molto diverse e molto distanti nel tempo, come quella romana e quella vichinga.
I dati ricavati dalle carote di ghiaccio e dai sedimenti marini mostrano che il periodo caldo minoico fu seguito da un periodo di raffreddamento del clima durante il quale le temperature medie annuali si mantennero comunque al di sopra della temperatura media post-glaciale. Intorno al 750 a.C. iniziò un nuovo periodo di riscaldamento che culminò intorno al 100 a.C. [quindi il riscaldamento era abbastanza vicino al picco quando, nel 218 a. C. Annibale attraversò le Alpi con gli elefanti, cosa assolutamente impossibile oggi] e che si esaurì intorno al 300 d.C., accompagnando la nascita e lo sviluppo della civiltà romana. Per questo motivo i climatologi chiamano questo periodo “periodo caldo romano”.
La civiltà romana emerge dalle popolazioni indoeuropee di ceppo latino e sabino che popolavano il Lazio centrale e che vivevano a stretto contatto con la popolazione non indoeuropea degli Etruschi. A partire dal VII secolo a.C. questa civiltà si stacca nettamente dal contesto locale, sotto la guida, secondo la tradizione, di quattro re latini e sabini e di tre re etruschi e, successivamente, con un proprio originale ordinamento di tipo repubblicano. Si deve probabilmente alle condizioni climatiche favorevoli se Roma riuscì ad imporsi e a dare vita, nell’arco di pochi secoli, all’impero che segnerà per sempre la storia del mondo.

Civiltà vichinga

Un ultimo esempio della stretta correlazione esistente tra le condizioni climatiche e lo sviluppo delle civiltà umane riguarda la nascita e la crescita della civiltà vichinga.
Come si è visto, il tracollo climatico verificatosi intorno al 3000 a.C. ebbe l’effetto di arrestare bruscamente lo sviluppo della civiltà nordica. Ma tra il 750 e il 1100 d.C. la temperatura tornò a livelli più elevati. I ghiacciai terrestri e marini tornarono a ritirarsi rendendo nuovamente abitabili le latitudini nordeuropee. Grazie alle nuove favorevoli condizioni climatiche, in queste aree, e in particolare sulle coste della Scandinavia e della Germania settentrionale, si sviluppò la civiltà vichinga, che ebbe i suoi caratteri salienti nella navigazione e nella pirateria.
Approfittando del fatto che il Baltico e l’Atlantico del nord erano tornati ad essere sgombri dai ghiacci, i Vichinghi riuscirono a raggiungere e a colonizzare l’Islanda e la Groenlandia, che all’epoca doveva essere libera dai ghiacci, visto che fu chiamata “Gruenland”, ovvero “terra verde”. I Vichinghi giunsero anche a fondare almeno una colonia nel continente americano, sulla costa settentrionale dell’isola di Terranova, terra che essi chiamarono Vinland, come riferiscono le saghe nordiche. I resti della colonia vichinga di Vinland furono scoperti e riportati alla luce tra il 1960 e il 1968 dagli studiosi norvegesi Helge e Anne Stine Ingstad, che dimostrarono così come l’America fosse stata raggiunta dai Vichinghi quattro secoli prima di Colombo.
Ugo Spezia, 7 gennaio 2023, qui.

2. continua

E non è un caso che le prime civiltà fiorite nel mondo siano queste

e qualcosa di utile ci dice anche questo elenco delle dieci città più antiche, ossia della loro latitudine:

Aleppo, 13.000
Gerico, 12.000
Matera, 10.000
Çatalhöyük (Turchia), 9.500
Atene, 7.000
Ur, (Mesopotamia), 6.000
Uruk (idem), 5000
Damasco, 4.500
Gerusalemme, 4000
Varanasi (India) 3.500 (qui)

Ma “loro” continueranno pervicacemente a negare che freddo = miseria fame morte e caldo = vita e benessere perché, come noto, se i fatti non concordano con l’ideologia, vanno cancellati i fatti. E per curiosità ho digitato “caldo” in google immagini e ho trovato centinaia di immagini di sofferenza estrema, più qualche ricetta in lingua spagnola (in spagnolo brodo si dice caldo): niente villeggianti in spiaggia, niente giochi in acqua, niente gioiosi tramonti estivi, in estate nessuno è felice e nessuno sta bene; poi ho digitato freddo e, accanto ad alcune immagini di sofferenza ho trovato anche meravigliosi paesaggi innevati, facce sorridenti, pupazzi di neve, bambini felici… E non si può neanche dire che Quos vult Iupiter perdere dementat prius, perché qua i dementi stanno mandando in rovina noi.

barbara

LA GRAN PUTTANATA DELL’EMERGENZA CLIMATICA, PARTE PRIMA

e della sua pretesa origine antropica.

La verità sul clima? È sempre cambiato (e l’uomo non c’entra)

Il clima sulla Terra non è mai stato stabile e uguale a sé stesso, ma ha attraversato continue fasi di cambiamento. La temperatura media della Terra è aumentata e diminuita con il trascorrere del tempo e di questo continuo cambiamento abbiamo dimostrazioni scientifiche definitive nelle risultanze dei carotaggi effettuati nei ghiacciai e nei sedimenti oceanici.
I ghiacciai si sono formati progressivamente attraverso la deposizione di strati di neve. Ad ogni nevicata la neve ha trascinato con sé le sostanze che in quel momento erano presenti nell’atmosfera, intrappolando bolle d’aria aventi la composizione chimica e isotopica dell’atmosfera di allora. Queste bolle d’aria contengono anche impurità rappresentative del particolato sospeso nell’atmosfera. Le bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio sono dunque vere e proprie “capsule del tempo” che consentono di ricavare una grande mole di informazioni sulla composizione dell’atmosfera e del particolato e, attraverso questi dati, sulle temperature medie che regnavano sulla Terra nelle diverse epoche.
Ad ogni stagione invernale, durante la quale la neve si depositava, faceva seguito una stagione estiva durante la quale parte della neve depositata si scioglieva. Ma la maggior parte della neve caduta durava fino all’inverno successivo, quando era ricoperta da nuove nevicate. Gli strati di neve si sono così accumulati gli uni sugli altri. Ogni strato ha ricoperto il precedente intrappolando per sempre le sostanze che componevano l’atmosfera. Ogni strato ha aumentato la pressione sugli strati caduti in precedenza comprimendoli progressivamente e trasformandoli in ghiaccio compatto. Con il trascorrere dei millenni, lo spessore del ghiacciaio è aumentato fino a raggiungere, in alcune aree, migliaia di metri. Ogni strato del ghiacciaio ha conservato intatte le informazioni relative alla composizione dell’atmosfera, informazioni che sono oggi disponibili per studiare l’evoluzione del clima.

Carote di ghiaccio

Con una trivella cilindrica chiamata carotatrice è possibile scavare in profondità nel ghiacciaio portando in superficie il ghiaccio che lo costituisce: si ottengono in tal modo cilindri di ghiaccio del diametro di circa dieci centimetri e di lunghezza teoricamente illimitata, grazie all’estrazione di carote successive, ciascuna delle quali, singolarmente, può essere lunga fino a circa 35 metri. Le carote sono poi tagliate in sezioni lunghe un metro che sono racchiuse in cilindri di metallo, a loro volta depositati, ordinati secondo la profondità di estrazione, in magazzini refrigerati in cui la temperatura è mantenuta a – 36 °C.
Ogni strato delle carote di ghiaccio contiene campioni dell’atmosfera che esisteva all’epoca in cui lo strato si è formato. Studiando la composizione delle minuscole bolle d’aria si riesce a ricostruire la temperatura media che regnava sulla Terra nel periodo in cui lo strato di ghiaccio si è formato.
I siti in cui si estraggono e si studiano le carote di ghiaccio si trovano in tutte le zone fredde.
Alcuni di essi si trovano in Groenlandia. Uno di questi siti, denominato GISP2, ha consentito di estrarre e studiare strati di ghiaccio formatisi tra il presente e circa 130 mila anni fa.
Altre ricerche sulle carote di ghiaccio sono state effettuate nell’ambito del progetto EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica), un consorzio di dieci paesi finanziato dall’Unione Europea che ha portato a termine tra il 1996 e il 2003 una perforazione nel ghiaccio antartico profonda tre chilometri il cui strato più antico risale a 740 mila anni fa.

Sedimenti oceanici

Informazioni sull’evoluzione del clima della Terra possono essere estratte anche dal carotaggio dei sedimenti oceanici. In questo caso si studia la stratificazione del materiale fine che si deposita con continuità sul fondo degli oceani fino a costituire strati dello spessore di migliaia di metri. All’interno di questi sedimenti si conservano limi di origine minerale e biologica che intrappolano i resti dei microorganismi che un tempo vivevano nelle acque degli oceani e sui fondali marini. Analizzando lo spessore e la composizione dei singoli strati e la composizione isotopica dell’ossigeno e del carbonio contenuti nei microrganismi, i ricercatori sono in grado di ricostruire in modo dettagliato i cambiamenti climatici avvenuti nel corso degli ultimi 66 milioni di anni.
La carota denominata “MD012443”, campionata nell’Atlantico in corrispondenza del Margine Iberico, ha consentito di ricostruire un profilo della temperatura media dell’oceano relativo agli ultimi 400 mila anni, profilo che è risultato praticamente identico a quello ricavato per il medesimo periodo dall’analisi delle carote di ghiaccio antartico estratte nell’ambito del progetto EPICA.

Evoluzione del clima

I dati derivanti dallo studio delle carote di ghiaccio e dei sedimenti marini consentono di avere informazioni sull’evoluzione del clima terrestre. In particolare, l’analisi delle carote di ghiaccio GISP 2 estratte in Groenlandia ha consentito di ricostruire l’andamento della temperatura media atmosferica dalla fine dell’ultima glaciazione, conclusasi circa diecimila anni fa, ad oggi.
Nel diagramma, l’andamento della temperatura media annuale è espresso come “anomalia termica”, ovvero come allontanamento della temperatura media annuale (linea blu) dalla temperatura media dell’intero periodo post-glaciale (linea rossa). In altri termini, il diagramma evidenzia di quanti gradi centigradi, nel corso del tempo, la temperatura media annuale si è allontanata, in più o in meno, dal valore medio post-glaciale, posto convenzionalmente pari a 0 °C.
La prima considerazione che possiamo esprimere è che, a partire dalla fine dell’ultima glaciazione, la temperatura media annuale ha oscillato intorno alla temperatura media con variazioni aventi un’ampiezza complessiva di 1,5 °C. Per quanto ampie possano essere state le variazioni climatiche che si sono verificate nel periodo post-glaciale, esse non hanno mai determinato temperature medie annuali al di fuori di questo ristretto intervallo. È una circostanza, questa, che può essere letta in modo allarmante o rassicurante. In chiave pessimistica, si può dire che una variazione limitata a 1,5°C può causare catastrofi climatiche; in chiave ottimistica si può affermare che, negli ultimi diecimila anni, anche la variazione climatica più estrema non ha comportato variazioni della temperatura media eccedenti di più di 1,5 °C la temperatura attuale.

“Mai così caldo”?

La seconda considerazione è che, come mostrano i dati, oggi non ci troviamo affatto in un periodo caratterizzato da temperature medie annuali particolarmente elevate. Anzi, è vero il contrario. Considerando l’andamento delle temperature negli ultimi 3.500 anni, periodo che coincide con l’intera epoca storica, notiamo che le temperature medie annuali sono diminuite complessivamente di circa 1 °C.
Le temperature medie annuali sono aumentate e diminuite più volte toccando un massimo intorno al 1300 a.C., un minimo intorno al 750 a.C., un nuovo massimo intorno al 100 a.C., un nuovo minimo intorno al 700 d.C. e un nuovo massimo intorno all’anno 1000 d.C..
Dall’anno 1000 in poi la temperatura media annuale è diminuita fino all’anno 1850 e solo successivamente a quella data ha ripreso a crescere, rimanendo tuttavia al di sotto della temperatura media post-glaciale.
Durante tutta l’epoca storica (dal 1500 a.C. ad oggi) il trend delle temperature medie annuali (linea azzurra tratteggiata nel grafico) evidenzia un netto calo, che colloca la temperatura attuale al di sotto della media post-glaciale di circa 0,3 °C.
La terza considerazione è che le temperature medie attuali sono certamente superiori a quelle degli anni intorno al 1850, ma restano ben al di sotto delle temperature più elevate raggiunte in passato. Questa circostanza fa giustizia di quanto si legge spesso a proposito delle temperature che non sarebbero mai state così calde.
Se dunque è vero che i cambiamenti climatici ci sono (ma ci sono sempre stati, anche prima dell’era industriale) essi non sono affatto liquidabili come un “riscaldamento globale”: quello attualmente in corso è un riscaldamento che sta ponendo fine ad un lungo periodo di raffreddamento (quello che i climatologi hanno chiamato “piccola età glaciale”) e che tende a far risalire la temperatura media annuale verso il valore medio post-glaciale, che non è stato ancora raggiunto.
Ugo Spezia, 7 gennaio 2023, qui, con i grafici.

1. continua

Fra i commenti ho trovato questo, magnifico, di tale NitFo

Il primo grafico non mente, è sempre colpa dell’uomo: l’ultima impennata fuori controllo delle temperature, addirittura +12 gradi, è avvenuta 150.000 anni fa. Guarda caso proprio quando l’uomo ha iniziato ad accendere sistematicamente fuochi davanti alle caverne, facendo impennare le emissioni di CO2. A quei tempi alcuni ecofessi volevano vietare l’accensione dei fuochi, starnazzando “non c’è più tempo!” e gettando succo di bacche per deturpare le pitture rupestri. Avrebbero condannato la razza umana a una non evoluzione e a grugnire per sempre nelle caverne.
Per fortuna, le persone a quei tempi erano molto più intelligenti di oggi.

E poi propongo questa riflessione, di puro buon senso

Giovanni Bernardini

ESTREMO

E’ mattina presto. Come tutti i diversamente giovani sono piuttosto mattiniero [facciamo quasi tutti, va’]. Sorseggio il caffè ed intanto guardo distrattamente la TV, in attesa del primo notiziario. Uno spot pubblicitario attira la mia attenzione. Ci invitano a comprare una stufa elettrica. “Vi tiene caldo anche durante i fenomeni climatici estremi”, sussurra una voce sensuale. E sul teleschermo appaiono le immagini della neve che cade, lenta lenta.
Ecco, una nevicata sarebbe un “fenomeno climatico estremo”!
Tutto è ormai “estremo”. Il freddo come il caldo. La pioggia come la siccità, la neve come la sua assenza.
Per non essere “estremo” il clima dovrebbe essere perfettamente a misura d’uomo. Dovrebbe nevicare solo sulle piste da sci, piovere, leggermente, solo sui campi coltivati ed il vento dovrebbe ridursi a piacevole brezza. Tutto ciò che non quadra con questa melassa climatica è qualificato “estremo” ed addebitato all’”umana follia” ed al “consumismo compulsivo”.
Nessuno è sfiorato dal dubbio che il concetto di “estremo” si riferisce a valori ed esigenze umane nei confronti delle quali la natura è assolutamente indifferente. Per NOI un uragano o un terremoto sono qualcosa di “estremo”, ma a ben vedere le cose si tratta di normalissimi fenomeni naturali. Spiacevoli, addirittura tragici per noi, è vero, ma chi lo ha detto che la natura debba sempre e comunque esser “piacevole” per noi?
Se il dibattito sui mutamenti climatici si liberasse della insopportabile melassa ideologica che oggi lo caratterizza si potrebbe cominciare ad affrontare seriamente i problemi. Sarebbe un gran bel passo avanti.

Il paragone che mi viene più ovvio, per la religione dell’emergenza climatica, è con la religione islamica: una religione fondamentalista, estremamente pericolosa, assolutista, che si manifesta con il lavaggio del cervello, che si realizza attraverso il martirio degli adepti e i sacrifici umani dei miscredenti, che usa come strumento per diffondersi il terrorismo, che a qualcuno costa moltissimo in termini economici, e a qualcun altro rende moltissimo al cubo. Se non ci ribelliamo in massa verremo sommersi, e in questo sì che il conto alla rovescia corre a velocità folle.

barbara

E SE L’EMERGENZA CLIMATICA

fosse il fumo che ci viene gettato negli occhi per impedirci di vedere questo? Vale la pena di leggere questo articolo di Giulio Meotti, anche se lungo, per cercare di capire quale sia il pericolo reale che incombe su di noi.

“L’immigrazione islamica è la grande minaccia alla pace civile in Europa”

Si tratta del testo più impressionante, più articolato e più scenaristico che abbia letto finora da parte di un alto dirigente europeo della sicurezza sulla disintegrazione del continente. Nessun ex capo dei servizi segreti italiani ha mai usato parole tanto oneste e coraggiose.
L’ex capo dei servizi segreti francesi Pierre Brochand (Direction générale de la sécurité extérieure) ha tenuto una drammatica conferenza al Senato di Francia. Ne rende conto in esclusiva Le Figaro e lo pubblico per gli abbonati alla newsletter. Ci vuole pazienza e leggerla tutta. Perché c’é tutto: cosa abbiamo sbagliato, cosa accadrà, cosa possiamo e dobbiamo fare… Niente non è un’opzione, ma un suicidio. Riguarda i francesi, gli italiani, tutti gli europei. O almeno tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell’Europa. Quella vera, non della lingua di legno.
Signore e signori senatori,
È un grande onore per qualcuno che ha iniziato a servire la Francia sotto il generale de Gaulle. Mi avete chiesto di parlare di immigrazione e io ho suggerito di aggiungere “questione centrale”.
Per due motivi:
da un lato, credo che, tra tutte le sfide che dobbiamo affrontare, l’immigrazione è l’unica che minaccia la pace civile e, come tale, la vedo come un prerequisito per tutte le altre. D’altra parte, l’immigrazione ha un impatto trasversale su tutta la nostra vita collettiva, che considero generalmente negativo.
L’immigrazione in generale non è affatto un male in sé, ma lo è l’immigrazione molto particolare a cui siamo sottoposti da 50 anni.
Chi sono io per suonare la campana?
Col tempo, mi sono reso conto, non senza angoscia, che le dure lezioni, tratte dalle mie esperienze all’estero, si rivelavano sempre più rilevanti all’interno, poiché, attraverso il gioco dell’immigrazione, questo “fuori” era diventato il nostro “dentro”.
Quali sono questi insegnamenti o queste verità che non sempre è bene dire?
Primo, che la realtà del mondo non è né bella né gioiosa e che è suicida prendersene gioco, perché, come un boomerang, si vendica centuplicata. Poi, che, nell’azione, il peggior peccato è assumere i propri desideri per realtà. Che, se il peggio non è sempre certo, è meglio prevederlo per prevenirlo. Che le società “multi” sono tutte destinate a disgregarsi. Che non siamo più “furbi” dei libanesi o degli jugoslavi nel far “convivere” persone che non vogliono.
Per prima cosa, non mi impantanerò nei numeri. Perché, con quasi mezzo milione di ingressi annui e un tasso del 40 per cento di bambini da 0 a 4 anni di origine immigrata, la questione mi sembra ovvia su questo piano.
D’altra parte, è chiaro che a questo livello, non siamo più nell’addizione di singoli casi – tutti singolari -, ma nella riattivazione di potenti forze collettive, ancorate nella Storia. Sicché procedere a ragionevoli generalizzazioni – quello che si grida in genere sotto il nome di amalgama – non ha infatti, per me, nulla di scandaloso.
Cominciamo torcendo il collo alla “papera”, secondo cui la Francia è sempre stata un paese di immigrazione. Per mille anni, dai Carolingi a Napoleone III, non è successo niente.
Dal 1850, tuttavia, abbiamo vissuto tre ondate:
La prima è durato un secolo. Di origine eurocristiana, discreta, laboriosa, grata, regolata dall’economia e dalla politica, ha rappresentato un modello insuperabile di riuscita fusione.
La seconda è iniziata negli anni ’70 e da allora è solo cresciuta. È l’esatto opposto della prima.
È un’immigrazione di insediamento irreversibile, che non è calibrata né dal lavoro né dalla politica, ma generata dai diritti individuali, soggetti all’unico giudice nazionale o sovranazionale. Siamo, quindi, travolti dai flussi col pilota automatico, “a ruota libera”.
Tutti provengono dal “terzo mondo”, da società fortemente fallimentari, e la maggior parte sono di religione musulmana, oltre che originari delle nostre ex colonie. Inoltre sono, come si dice oggi, “razzializzati”.
La terza ondata è stata innescata dieci anni fa dalla cosiddetta “primavera araba”, di cui è una delle nefaste conseguenze.
Non possiamo capire molto dell’immigrazione attuale se non abbiamo percepito fin dall’inizio che essa era virtualmente conflittuale, che questi conflitti non erano quantitativi ma qualitativi – quindi insolubili – e che facevano parte in ultima analisi del dolorosissimo contraccolpo antioccidentale innescato dalla globalizzazione.
Fingendo di ignorare questo determinismo, siamo stati così sciocchi da reintrodurre nelle nostre società gli ingredienti delle tre tragedie che hanno causato le nostre peggiori disgrazie in passato:
Discordia religiosa, antagonismo coloniale e razzismo, da cui pensavamo di esserci liberati dal 1945.
Per quanto riguarda la religione, cioè l’islam, questa confessione, interamente importata dall’immigrazione, non è un corrispettivo del cristianesimo, radicato in noi quindici secoli fa e da tempo addomesticato da una laicità tagliata su misura.
Da un lato, come fede, l’Islam è una religione “antiquata”, un codice onnicomprensivo di pratiche apparenti, un patchwork di certezze comunitarie, precipitato improvvisamente dal cielo nello stagno di un post-moderno dove la società, che non crede più a niente, è completamente spiazzata da questa devastante irruzione (oggi in Francia ci sono 25 volte più musulmani che negli anni ’60).
D’altra parte, come civiltà totale, orgogliosa, guerriera, offensiva, militante, l’Islam ha preso male per due secoli l’umiliazione dell’Occidente. Non appena la globalizzazione gli ha offerto l’opportunità, si è svegliato come un vulcano.
Conosciamo le manifestazioni di questa esplosione: jihadismo, salafismo, islamismo, reislamizzazione culturale. Tutti sintomi ormai presenti sul nostro suolo, come tante espressioni crisogene dell’insoddisfazione di un agente storico “anti-status quo”, che aspira all’egemonia là dove è presente, e, quando ci riesce, non condivide la nostra deferenza verso le minoranze.
Per questo bisogna avere un “cervello da colibrì” – come diceva de Gaulle – per dimenticare che musulmani ed europei non hanno smesso di battersi, da 13 secoli, per il controllo della sponda settentrionale e meridionale del Mediterraneo e bisogna essere piuttosto ingenui per non percepire, negli odierni andamenti demografici, un risorgere di questa secolare rivalità che, va ricordato, è sempre finita male.
Siamo stati così stupidi da immaginare che ricostituendo, sotto lo stesso tetto metropolitano, il faccia a faccia con persone che avevano appena divorziato all’estero, saremmo riusciti a rimetterle assieme. Errore fatale.
Di qui il fatto, mai visto da nessuna parte, di un’immigrazione con tendenza al vittimismo e alla rivendicazione, portata tanto al risentimento quanto all’ingratitudine e che, consapevolmente o no, si presenta come creditore di un passato che non passa.
Quanto al divario razziale, è dovuto alla visibilità dei nuovi arrivati ​​nello spazio pubblico, anch’essa senza precedenti. Il che porta, ahimè, a instillare nella mente delle persone una griglia di lettura etnica delle relazioni sociali, dove, per contaminazione, ognuno finisce per essere giudicato dall’aspetto. Che spostamento fraudolento e scandaloso, poiché porta i nostri immigrati a pensare che anche loro siano discendenti di schiavi.
Ma, non contenti di aver ravvivato questi tre fuochi mai spenti (religioso, coloniale, razziale), siamo riusciti nell’impresa di accenderne tre nuovi, sconosciuti alla nostra storia recente:
Il primo è dovuta all’incongrua intrusione di costumi comunitari d’altri tempi, ereditati dai paesi di origine e perpendicolari al nostro modo di vivere: primato dei legami di sangue, sistema di parentela patrilineare, controllo della donna, sorveglianza sociale della sessualità, endogamia, cultura dell’onore e suoi corollari (giustizia privata, diritto del taglione, omertà), ipertrofia dell’autostima, incapacità di autocritica. Senza dimenticare la poligamia, l’escissione, la stregoneria, ecc.
Un altro incredibile dissenso: l’alter nazionalismo dei nuovi arrivati, che, a differenza dei loro predecessori, intendono conservare la nazionalità giuridica ed affettiva del paese di origine, in gran parte mitizzata. Con tutti i danni che può causare questa rara dissociazione tra passaporto e fedeltà.
Infine, “ciliegina sulla torta”, queste comunità di altrove non solo hanno dispute con la Francia, ma anche tra di loro: nordafricani/subsahariani; algerini/marocchini; turchi/curdi e armeni; afghani, ceceni, sudanesi, eritrei, somali, pakistani, pronti a dare battaglia, ognuno dalla propria parte. Senza dimenticare lo spaventoso paracadutismo di un antisemitismo di tipo orientale. Così, una sorta di “bonus regalo”, assistiamo all’insolito spettacolo di un territorio, trasformato in campo chiuso per tutte le beghe del pianeta, che non ci riguardano.
I flussi di immigrazione sono cumulativi. Oltre agli effetti di flusso, ci sono effetti di stock, che a loro volta generano nuovi flussi. Queste correnti obbediscono anche agli effetti di soglia. Oltre un certo volume, cambiano natura e segno. Da possibilmente positivi, cambiano in negativi.
Questa soglia di saturazione viene raggiunta tanto più rapidamente quanto più profondo è il divario tra la società di partenza e quella di destinazione.
Lo scenario secessionista è la pendenza più naturale di una società “multi”.
Quando i gruppi sono ripugnati dal vivere insieme, si formano quelle che vengono chiamate diaspore, costituite da popolazioni extraeuropee, né assimilate né integrate e con una tendenza non cooperativa.
Una specie di controcolonizzazione, dal basso, che non dice il suo nome.
Di conseguenza, tra questo “arcipelago” e il resto del Paese, sta crollando la fiducia sociale, fondamento stesso delle società felici. Dove la sfiducia diventa sistema, l’altruismo presto scompare al di là dei legami familiari, cioè la solidarietà nazionale. A cominciare dal suo fiore all’occhiello: il welfare state, la cui perpetuazione richiede un minimo di empatia tra contribuenti e beneficiari. L’economista Milton Friedman diceva, a mio avviso giustamente, che il welfare state non era compatibile con la libera circolazione degli individui.
Tuttavia, di fronte a queste micro-contro-società, siamo paralizzati. Vi scorgiamo, non senza ragione, tante pentole a pressione, che temiamo soprattutto possano esplodere contemporaneamente. Siamo pronti a passare di compromesso in compromesso. Si tratta di ciò che viene chiamato, per antifrase, “accomodamento ragionevole”, che non è altro che negazioni della libertà di espressione, della giustizia penale, dell’ordine pubblico, della frode sociale e del laicismo o sotto forma di clientelismo agevolato.
Tutti questi accordi quotidiani possono moltiplicarsi, ma non bastano per comprare la pace sociale ed è allora che “accade ciò che deve accadere”: quando più poteri sono in aperta competizione, sullo stesso spazio, per ottenere il monopolio della violenza ma anche dei cuori e delle menti, questo è lo scenario che si verifica.
Il confronto. Quella che noi modestamente designiamo con l’espressione “violenza urbana” e di cui conosciamo bene la scala ascendente. Rivolte che ora degenerano in guerriglie a bassa intensità, una sorta di intifada alla francese o “remake” minori delle guerre coloniali. Con il culmine di questo continuum che è il terrorismo jihadista.
Alla luce di questo bilancio, la mia sensazione è che, se restiamo a guardare, andiamo incontro a grandi disgrazie.
Dove stiamo andando? Cosa fare?
Se si vuole affrontare un problema, è fondamentale definirne la reale dimensione. Tuttavia, l’apparato statistico, centrato sul criterio della nazionalità, non consente di valutare tutte le ripercussioni di un fenomeno che in gran parte gli sfugge. Per questo è imperativo orientarsi verso statistiche e proiezioni cosiddette “etniche”.
Per quanto riguarda il discorso intimidatorio, è l’incredibile predicazione che i media, le ONG, il “popolo” ci servono e il cui unico scopo è organizzare l’impotenza pubblica. Questi elementi di linguaggio sono, ai miei occhi, solo il riflesso di un’ideologia che, come tutte le ideologie, non ha nulla di sacro. Tranne che è stato dominante per 50 anni.
Il suo dogma centrale, come tutti sappiamo, è quello di far prevalere, ovunque e sempre, i diritti individuali e universali degli esseri umani che si presumono intercambiabili, rimovibili a piacimento, in un mondo senza confini, dove tutto sarebbe perfetto, senza l’ostacolo anacronistico dello stato nazionale, l’unico teoricamente capace di dire no a questo scempio. Per questo abbiamo lavorato molto attentamente per riabilitarlo, amputando le sue braccia regali per conformarlo al nuovo ideale: lascia andare, lascia correre.
La cosa più grave è che questa utopia si difende dall’assalto della realtà solo con un mezzo spregevole: il ricatto. Il ricatto del razzismo che, attraverso le fatwa, promette la morte sociale a tutti coloro che osano mettere la testa fuori dalle trincee. Tuttavia, questa doxa, in forma di fiaba, non dobbiamo temere di proclamarla falsa e incoerente.
Falsa, perché, se è vero che gli immigrati entrano come individui, non è meno vero che si stabiliscano come popoli. Ed è proprio questa limpida evidenza che la narrazione ufficiale ci vieta di vedere.
Ci viene detto contemporaneamente che l’immigrazione non esiste, che esiste ed è una benedizione, che esiste da sempre ed è inevitabile, che accoglierla è un dovere morale, ma che ci pagherà le pensioni e ci darà lavori che noi non vogliamo.
Ma, alla fine, si finisce sempre per imbattersi nello stesso argomento: “non gettare benzina sul fuoco, perché stai facendo il gioco del tal dei tali”. Argomento che è, probabilmente, il più stravagante di tutti, in quanto riconosce che c’è davvero un incendio in corso, ma che è meglio tacere per motivi che non hanno nulla a che fare con esso.
Portati a un tale livello di assurdità, ci troviamo di fronte a una triforcazione:
– O prendiamo sul serio queste sciocchezze e lasciamo che tutto scivoli via: rotoliamo verso l’abisso, premendo l’acceleratore.
– O ci limitiamo ad accompagnare il fenomeno, votando, ogni 3 o 4 anni, leggi che fingono di occuparsi dell’immigrazione, ma che, di fatto, rientrano nella sua gestione amministrativa e tecnocratica. È solo fare un passo indietro per saltare meglio.
– O riusciamo a toglierci la camicia di forza e a riprenderci, mostrando finalmente volontà politica, il volante del camion impazzito che da 50 anni guida da solo.
Avete indovinato che la mia scelta è ovviamente l’ultima. Ma più precisamente?
L’immigrazione – è facile intuirlo – funziona come una pompa che spinge indietro da una parte e risucchia da un’altra. Non possiamo fare nulla, o quasi, per impedire la partenza. Possiamo fare qualsiasi cosa per scoraggiare l’arrivo.
Quindi 6 passi principali:
Lanciare, urbi et orbi, il messaggio che la marea è cambiata di 180 gradi, attaccando frontalmente l’immigrazione legale, che dovrebbe essere divisa almeno per dieci.
L’accesso alla nazionalità deve cessare di essere automatico.
Contenere l’immigrazione irregolare, dividendo per 20 o 30 i visti, compresi gli studenti, concessi ai Paesi a rischio, non accogliendo più alcuna domanda di asilo sul nostro territorio, abolendo ogni premio per la frode (soccorso medico di Stato, alloggio, regolarizzazioni, sbarco delle navi di “soccorso”).
Attenuare l’attrattiva sociale della Francia, eliminando tutte le prestazioni non contributive per gli stranieri e limitando a 3 figli, per famiglia, gli assegni familiari, rivalutati senza condizioni di reddito.
Sgonfiare le diaspore, riducendo tipologie, durate e numeri dei permessi di soggiorno ed escludendo i rinnovi quasi automatici.
Rafforzare la nostra laicità cristiana per adattarla alla ben diversa sfida dell’Islam, non neutralizzando più solo lo Stato e la scuola, ma anche lo spazio pubblico, le università e il mondo delle imprese.
Se queste proposte rientrano nel quadro del diritto esistente, tanto meglio, altrimenti dovrà essere modificato a qualunque costo. Poiché l’inversione proposta è ora una questione di sicurezza pubblica, la sua ferocia è solo la controparte del tempo perduto.
Vi ho appena fatto una diagnosi. Vale a dire, se persistiamo nella nostra cecità, andremo verso un paese dove, al minimo, la vita non sarà più degna di essere vissuta, o, al massimo, in un paese dove, a forza di esplosioni, non saremo più in grado di vivere affatto.
Potremmo non condividere questa valutazione e, in questo caso, avrei parlato per non dire nulla. Ma possiamo aderirvi e, in questo caso, le misure avanzate sono la nostra ultima possibilità.
Sono consapevole che alcuni di voi potrebbero avermi trovato eccessivo, allarmista, irrealistico, senza sfumature, o generosità, cos’altro so.
Vi concedo volentieri altri due difetti. Da un lato, il mio carattere può essere descritto come ostinato, in quanto non accetterò mai di affermare che è notte in pieno giorno. D’altra parte, è vero, sono ossessionato, ma la mia ossessione è rivolta unicamente ai nostri figli e nipoti, verso cui il nostro dovere elementare non è lasciare in eredità un paese caotico, quando lo abbiamo ricevuto dai nostri anziani come un magnifico dono.
Ultima domanda, che suppongo che tutti ci poniamo di tanto in tanto: cosa farebbe il generale de Gaulle?
Nessuno lo sa, ma sono personalmente convinto di due cose: se fosse stato al potere non ci avrebbe mai messo nei pasticci che ho descritto stasera, e se fosse risorto, temo che mi prenderà per un moderato.
Grazie per avermi ascoltato.

Non vi sembra che sia qualcosa di un po’ più concreto della fantomatica emergenza climatica a causa della quale da oltre mezzo secolo ci stanno raccontando che ci restano ancora dieci anni? E ci fosse un cane che ci spiegasse che cosa succederà fra dieci anni se non cambiamo rotta.

barbara

GRETA, PRESTO, CHAMA I POMPIERI

che la nostra casa brucia!

-40°C! La vita si ferma in U.S.A e Canada! Il Natale più freddo da decenni con un’enorme tormenta

E meno male che hanno un sacco di pannelli solari e pale eoliche per scaldarsi

NOTA: quest’ultima è roba dell’anno scorso: adesso tentano di raccontarci che questo “evento estremo” di quest’anno è un’assoluta rarità, segno ineluttabile dei famigerati cambiamenti climatici (succeduti al riscaldamento globale a sua volta succeduta alla glaciazione) che determinano l’emergenza climatica, ma questa è una balla, l’ennesima balla.

barbara

AIUTO L’EMERGENZA CLIMATICA!

che se non ci gretinizziamo all’istante ci ucciderà tutti entro dieci anni! Lo sanno tutti! Lo dicono tutti! È davanti agli occhi di tutti! Fratello ricordati che devi morire e guai a te se non te lo segni ora e sempre nei secoli dei secoli di dieci anni in dieci anni amen.

Non c’è nessuna emergenza climatica

1.200 scienziati e professionisti di tutto il mondo, guidati dal premio Nobel norvegese per la fisica professor Ivar Giaever, dichiarano: “Non c’è nessuna emergenza climatica”

Leggi il testo della dichiarazione pubblicata su Climate Intelligence

Preambolo

La scienza del clima dovrebbe essere meno politica, mentre le politiche climatiche dovrebbero essere più scientifiche. In particolare, gli scienziati dovrebbero sottolineare che i risultati dei loro modelli non sono il risultato di una magia: i modelli informatici sono fatti dall’uomo. Ciò che viene fuori dipende completamente da ciò che i teorici ed i programmatori hanno inserito: ipotesi, assunzioni, relazioni, parametrizzazioni, vincoli di stabilità, ecc.
Purtroppo, nella scienza del clima mainstream la maggior parte di questi input non viene dichiarata.
Credere al risultato di un modello climatico significa credere a ciò che i creatori del modello hanno inserito. È proprio questo il problema dell’attuale discussione sul clima, in cui i modelli climatici sono centrali. La scienza del clima è degenerata in una discussione basata su convinzioni, non su una sana scienza autocritica. Dovremmo liberarci dall’ingenua fiducia nei modelli climatici immaturi. In futuro, la ricerca sul clima dovrà dare molta più importanza alla scienza empirica.

Non c’è emergenza climatica

Una rete globale di oltre 1100 scienziati e professionisti ha preparato questo messaggio urgente. La scienza del clima dovrebbe essere meno politica, mentre le politiche del clima dovrebbero essere più scientifiche. Gli scienziati dovrebbero affrontare apertamente le incertezze e le esagerazioni delle loro previsioni sul riscaldamento globale, mentre i politici dovrebbero spassionatamente valutare i costi reali così come i benefici, ipotizzati dalle loro misure politiche.

Fattori naturali ed antropogenici causano il riscaldamento globale.

L’archivio geologico rivela che il clima della Terra ha subito variazioni per tutto il tempo della sua esistenza, con fasi naturali fredde e calde. L’ultimo ciclo freddo, noto come la La Piccola era Glaciale è terminato di recente nel 1850. Pertanto, non sorprende che ora stiamo vivendo un periodo di riscaldamento.

Il riscaldamento è molto più lento del previsto.

Il pianeta si è riscaldato meno della metà del tasso previsto dall’IPCC, sulla base della forzatura antropogenica introdotta nei modelli e dello squilibrio radiativo. Tutto questo ci dice che siamo lontani dal comprendere I meccanismi del cambiamento climatico.

La politica climatica si basa su modelli inadeguati

I modelli climatici presentano molte carenze e non sono ragionevolmente lontani dall’essere usati come strumenti politici globali. Amplificano l’effetto dei gas serra come la CO2. Inoltre, ignorano il fatto che arricchire l’atmosfera con CO2 è benefico.

La CO2 è il cibo delle piante, la base di tutta la vita sulla Terra

La CO2 non è un inquinante ed è essenziale per tutta la vita sulla Terra. La fotosintesi è infatti una benedizione. Più CO2 è un beneficio per la natura, perché rende verde la Terra: una ulteriore quantità di CO2 nell’aria ha favorito la crescita della biomassa globale delle piante. È anche di beneficio per l’agricoltura, con l’aumento delle rese delle colture in tutto il mondo.

Il riscaldamento globale non ha aumentato i disastri naturali

Non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia intensificando uragani, alluvioni, siccità e simili eventi naturali, od aumentando la loro frequenza. Viceversa, è ampiamente dimostrato che le misure di mitigazione della CO2 sono tanto dannose quanto costose.

Le politiche climatiche devono rispettare le realtà scientifiche ed economiche.

Pertanto, non vi è alcun motivo per creare panico ed allarme. Ci opponiamo fermamente alla dannosa e irrealistica politica delle “Zero emissioni nette di CO2” proposta per il 2050. Se emergeranno approcci migliori, e sicuramente ci saranno, avremo tutto il tempo per riflettere ed adattarci. L’obiettivo della politica globale dovrebbe essere “prosperità per tutti” fornendo energia affidabile e conveniente in ogni momento per tutto il Pianeta. In una Società prospera uomini e donne vengono ben istruiti, i tassi di natalità rimangono bassi mentre le persone si preoccupano per il loro ambiente.

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Climate Intelligence (CLINTEL) è una fondazione indipendente che opera nei settori del cambiamento climatico e delle politiche climatiche. CLINTEL è stata fondata nel 2019 dal professore emerito di geofisica Guus Berkhout e dal giornalista scientifico Marcel Crok. L’obiettivo principale di CLINTEL è diffondere la conoscenza e di stimolare la comprensione delle cause e degli effetti del cambiamento climatico, nonché degli effetti della politica climatica.

A tal fine:

1. La Fondazione cerca di comunicare in modo obiettivo e trasparente al grande pubblico quali sono i fatti disponibili sul cambiamento climatico e sulle politiche climatiche ed anche dove i fatti si trasformano in ipotesi e previsioni.

2. La Fondazione conduce e stimola il dibattito pubblico su questo tema e realizza reportage investigativi in questo campo.

3. La Fondazione vuole fungere da luogo di incontro internazionale per scienziati con opinioni diverse sul cambiamento climatico e sulle politiche climatiche.

4. La Fondazione svolgerà e finanzierà la propria ricerca scientifica sul cambiamento climatico e sulle politiche climatiche.

CLINTEL vuole assumere il ruolo di “cane da guardia climatico” indipendente, sia nel campo della scienza del clima che in quello delle politiche climatiche.

Firmatari italiani della dichiarazione

1. Alberto Prestininzi, Professore di Rischi Geologici, Honorary Cherman NHAZCA Università of Rome Sapienza, già Scientific Editor in Chief della Rivista Internazionale IJEGE e Direttore del Centro di Ricerca, Previsione, Prevenzione e Controllo dei Rischi Geologici (CERI); WCD Ambassador
2. Pietro Agostini, Ingegnere, Associazione Scienziati e Tecnologi per la Ricerca Italiana
3. Piero Baldecchi, Lettore
4. Achille Balduzzi, Geologo, Agip-Eni
5. Antonio Ballarin, Fisico, “Chief Artificial Intelligence Officer” di una pubblica amministrazione
6. Cesare Barbieri, Professore Emerito di Astronomia, Università di Padova
7. Donato Barone, Ingegnere
8. Sergio Bartalucci, Fisico, Presidente Associazione Scienziati e Tecnologi per la Ricerca Italiana
9. Giuseppe Basini, Astrofisico, Deputato, già dirigente di Ricerca dell’INFN
10. Franco Battaglia, Professore di Chimica Fisica, Università di Modena, Movimento Galileo 2001
11. Marco Benini, Ingegnere Idraulico, Libero Professionista
12. Eliseo Bertolasi, Dottore di Ricerca in Antropologia Culturale
13. Giorgio Bertucelli, Ingegnere, già Dirigente Industriale, ALDAI
14. Alessandro Bettini, Professore Emerito (Fisica) Università di Padova
15. Antonio Bianchini, Professore di Astronomia, Università di Padova
16. Luciano Biasini, Professore Emerito, già Docente di Calcoli Numerici e Grafici, Direttore dell’Istituto Matematico e Preside della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Ferrara
17. Paolo Blasi, Professore Emerito (Fisica) e già Rettore dell’Università di Firenze, già Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane
18. Enrico Bongiovanni, Dottore Commercialista
19. Paolo Bonifazi, Ex Direttore dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario (IFSI) dell’Istituto Nazionale Astrofisica (INAF)
20. Roberto Bonucchi, Insegnante in Pensione
21. Giampiero Borrielli, Ingegnere
22. Francesca Bozzano, Professore di Geologia Applicata, Università di Roma La Sapienza, Direttore del Centro di Ricerca Previsione, Prevenzione e Controllo Rischi Geologici (CERI)
23. Antonio Brambati, Professore di Sedimentologia, Università di Trieste, Responsabile Progetto Paleoclima-mare del PNRA, già Presidente Commissione Nazionale di Oceanografia
24. Gianfranco Brignoli, Geologo
25. Marcello Buccolini, Professore di Geomorfologia, Università di Chieti-Pescara
26. Paolo Budetta, Professore di Geologia Applicata, Università di Napoli
27. Antonio Maria Calabrò, Ingegnere, Ricercatore, Consulente
28. Monia Calista, Ricercatore di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara
29. Cristiano Carabella, Geologo, Borsista presso l’Università di Chieti
30. Giovanni Carboni, Professore di Fisica, Università di Roma Tor Vergata, Movimento Galileo 2001
31. Peppe Caridi
32. Franco Casali, Professore di Fisica, Università di Bologna e Accademia delle Scienze di Bologna
33. Giuliano Ceradelli, Ingegnere e Climatologo, ALDAI
34. Augusta Vittoria Cerutti, Membro del Comitato Glaciologico Italiano
35. Franco Di Cesare, Dirigente, Agip-Eni
36. Alessandro Chiaudani PhD, Agronomo, Università di Chieti-Pescara
37. Luigi Chilin, Dirigente in Pensione
38. Claudio Ciani, Relazioni Internazionali, Scienza Politica, Università di Roma La Sapienza
39. Edoardo Cicali, Membro del C.I.R.N (Comitato Italiano Rilancio del Nucleare) e dell’associazione “Atomi per la pace”, ex Dipendente di un Centro Medico Radiologico ed Attualmente Impiegato nel Settore dell’Informatica
40. Pino Cippitelli, Geologo Agip-Eni
41. Carlo Colomba
42. Enrico Colombo, Chimico, Dirigente Industriale
43. Vito Comencini, Onorevole, Membro della Camera dei Deputati Italiana dal 2018
44. Enrico Conti, Physicist, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN)
45. Ferruccio Cornicello, Fotografo e Lettore di Studi sul Clima
46. Domenico Corradini, Professore di Geologia Storica, Università di Modena
47. Carlo Del Corso, Ingegnere Chimico
48. Uberto Crescenti, Professore Emerito di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara, già Magnifico Rettore e Presidente della Società Geologica Italiana
49. Fulvio Crisciani, Professore di Fluidodinamica Geofisica, Università di Trieste e Istituto Scienze Marine, Cnr, Trieste
50. Salvatore Custodero
51. Francesco Dellacasa, Ingegnere, Amministratore di Società nel settore Energetico
52. Alessandro Demontis, Perito Chimico Industriale, Tecnico per la Gestione delle Acque e delle Risorse Ambientali, Pomezia
53. Serena Doria, Ricercatore di Probabilità e Statistica Matematica, Università di Chieti-Pescara
54. Roberto d’Arielli, Geologo, Borsista presso l’Università di Chieti
55. Carlo Esposito, Professore di Rischi Geologici, Università di Roma La Sapienza
56. Gianluca Esposito, Geologo
57. Prof. Stefano Falcinelli PhD, Professor of Chemistry and Materials Technology, Department of Civil and Environmental Engineering, University of Perugia
58. Antonio Mario Federico, Professore di Geotecnica, Politecnico di Bari
59. Aureliano Ferri, Vicepresidente Associazione Piceno Tecnologie
60. Maurizio Fiorelli, Sommelier Professionale, studioso dell’evoluzione nella Coltivazione delle Vigne
61. Mario Floris, Professore di Telerilevamento, Università di Padova
62. Gianni Fochi, Chimico, Ricercatore in Pensione della Scuola Normale Superiore, Giornalista Scientifico
63. Sergio Fontanot, Ingegnere
64. Luigi Fressoia, Architetto Urbanista, Perugia
65. Mario Gaeta, Professore di Vulcanologia, Università di Roma La Sapienza
66. Sabino Gallo, Ingegnere Nucleare e Scrittore Scientifico
67. Giuseppe Gambolati, Fellow della American Geophysical Union, Professore di Metodi Numerici, Università di Padova
68. Alessio Del Gatto, Liceo Scientifico, Collaboratore Attivita Solare.it
69. Rinaldo Genevois, Professore di Geologia Applicata, Università di Padova
70. Umberto Gentili, Fisico dell’ENEA, Climatologo per il Progetto Antartide, ora in pensione
71. Enrico Ghinato, Perito Fisico
72. Mario Giaccio, Professore di Tecnologia ed Economia delle Fonti di Energia, Università di Chieti-Pescara, già Preside della Facoltà di Economia
73. Daniela Giannessi, Primo Ricercatore, IPCF-CNR, Pisa
74. Roberto Grassi, Ingegnere, Amministratore G&G, Roma
75. Roberto Graziano, Ricercatore di Geologia Stratigrafica e Paleoclimatologia/Paleoceanografia, Università di Napoli, già Geologo presso il Servizio Geologico d’Italia
76. Alberto Guidorzi, Agronomo
77. Roberto Habel, Professore di Fisica Medica, Università di Cagliari
78. Thomas Kukovec, Tropical Agronomist and Subtropical Field Biologist in the private sector, specialised in semi-arid agriculture, ecophysiology and phytogeography of Sahelian and Saharan plants. Scientific adviser and consultant in research-projects and learned societies
79. Alberto Lagi, Ingegnere, Presidente di Società Ripristino Impianti Complessi Danneggiati
80. Luciano Lepori, Ricercatore IPCF-CNR, Pisa
81. Carlo Lombardi, Professore di Impianti Nucleari, Politecnico di Milano
82. Walter Luini, Geometra
83. Roberto Madrigali, Meteorologo
84. Angelo Maggiora PhD, INFN Senior Researcher, more than 40 years experience in research at CERN, Saclay, Dubna and Frascati
85. Ettore Malpezzi, Ingegnere
86. Vania Mancinelli, Geologo, Borsista presso l’Università di Chieti
87. Ludovica Manusardi, Fisico Nucleare e Giornalista Scientifico, UGIS
88. Luigi Marino, Geologo, Centro Ricerca Previsione, Prevenzione e Controllo Rischi Geologici (CERI), Università di Roma La Sapienza
89. Alessandro Martelli, Ingegnere, già Dirigente ENEA
90. Salvatore Martino, Professore di Geologia Applicata all’Ingegneria al Territorio ed ai Rischi, Università di Roma “Sapienza”
91. Maria Massullo, Tecnologa, ENEA-Casaccia, Roma
92. Enrico Matteoli, Primo Ricercatore, IPCF-CNR, Pisa
93. Paolo Mazzanti, Professore di Interferometria Satellitare, Università di Roma La Sapienza
94. Adriano Mazzarella, Professore di Meteorologia e Climatologia, Università di Napoli
95. Marcello Mazzoleni, Docente e imprenditore nel settore della formazione, fondatore del sito web MeteoSincero
96. Carlo Merli, Professore di Tecnologie Ambientali, Università di Roma La Sapienza
97. Enrico Miccadei, Professore di Geografia Fisica e Geomorfologia, Università di Chieti-Pescara
98. Gabriella Mincione, Professore di Scienze e Tecniche di Medicina di Laboratorio, Università di Chieti-Pescara
99. Umberto Minopoli, Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare
100. Alberto Mirandola, Professore di Energetica Applicata e Presidente Dottorato di Ricerca in Energetica, Università di Padova
101. Aurelio Misiti, Professore di Ingegneria sanitaria-Ambientale, Università di Roma La Sapienza, già Preside della Facoltà di Ingegneria, già Presidente del Consiglio Superiore ai Lavori Pubblici
102. Maurizio Montuoro, Medico
103. Renzo Mosetti, Professore di Oceanografia, Università di Trieste, già Direttore del Dipartimento di Oceanografia, Istituto OGS, Trieste
104. Daniela Novembre, Ricercatore in Georisorse Minerarie e Applicazioni Mineralogichepetrografiche, Università di Chieti-Pescara
105. Francesco Oriolo, Professore di Impianti Nucleari, Università di Pisa
106. Paolo Emmanuele Orrù, Professore di Geografia Fisica e Geomorfologia, Università di Cagliari
107. Sergio Ortolani, Professore di Astronomia e Astrofisica, Università di Padova
108. Giorgio Paglia, Geologo, Borsista presso l’Università di Chieti
109. Massimo Pallotta, Primo Tecnologo, Istituto Nazionale Fisica Nucleare
110. Antonio Panebianco, Ingegnere
111. Giuliano Panza, Professore di Sismologia, Università di Trieste, Accademico dei Lincei e dell’Accademia Nazionale delle Scienze, detta dei XL, vincitore nel 2018 del Premio Internazionale dell’American Geophysical Union
112. Antonio Pasculli, Ricercatore di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara
113. Ernesto Pedrocchi, Professore Emerito di Energetica, Politecnico di Milano
114. Davide Peluzzi, Ambasciatore del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga nel Mondo nel 2017
115. Corrado Penna, Docente di Matematica
116. Enzo Pennetta, Professore di Scienze Naturali e Divulgatore Scientifico
117. Gianni Pettinari, Impiegato Amministrativo, Fondatore del gruppo Facebook: “Falsi allarmismi sul riscaldamento globale”
118. Alessandro Pezzoli, Ricercatore Universitario e Professore aggregato in Weather Risk Management, Politecnico di Torino e Università di Torino
119. Tommaso Piacentini, Professore di Geografia Fisica e Geomorfologia, Università di Chieti-Pescara
120. Stefano De Pieri, Ingegnere Energetico e Nucleare
121. Paolo M.J. Pilli, Pensionato
122. Mirco Poletto, Geologo libero professionista, registered at ‘Ordine dei geologi del Veneto’
123. Andrea Pomozzi, Presidente Associazione Piceno Tecnologie
124. Guido Possa, Ingegnere Nucleare, già Viceministro del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca con delega alla Ricerca
125. Giorgio Prinzi, Ingegnere, Direttore Responsabile della Rivista “21mo Secolo Scienza e tecnologia”
126. Franco Prodi, Professore di Fisica dell’Atmosfera, Università di Ferrara
127. Franco Puglia, Ingegnere, Presidente CCC, Milano
128. Francesca Quercia, Geologo, Dirigente di Ricerca, Ispra
129. Nunzia Radatti, Chimico, Sogin
130. Arnaldo Radovix, Geologo, Risk Manager in Derivati Finanziari
131. Mario Luigi Rainone, Professore di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara
132. Mario Rampichini, Chimico, Dirigente Industriale in Pensione, Consulente
133. Arturo Raspini, Geologo, Ricercatore, Istituto di Geoscienze e Georisorse (IGG), Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze
134. Renato Angelo Ricci, Professore Emerito di Fisica, Università di Padova, già Presidente della Società Italiana di Fisica e della Società Europea di Fisica, Movimento Galileo 2001
135. Marco Ricci, Fisico, Primo Ricercatore, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
136. Renzo Riva, Comitato Italiano Rilancio Nucleare (C.I.R.N.), Buja
137. PierMarco Romagnoli, Ingegnere, Milano
138. Vincenzo Romanello, Ingegnere Nucleare, Ricercatore presso il Centro di Ricerca Nucleare di Rez, Repubblica Ceca
139. Piergiorgio Rosso, Ingegnere Chimico
140. Stefano Rosso, Insegnante di Geografia, Storia e Italiano, Scuola Secondaria, Modena
141. Alberto Rota, Ingegnere, Ricercatore presso CISE ed ENEL, Esperto di Energie Rinnovabili
142. Ettore Ruberti, Ricercatore ENEA, Docente di Biologia Generale e Molecolare
143. Giancarlo Ruocco, Professore di Struttura della Materia, Università di Roma La Sapienza
144. Sergio Rusi, Professore di Idrogeologia, Università di Chieti-Pescara
145. Massimo Salleolini, Professore di Idrogeologia Applicata e Idrogeologia Ambientale, Università di Siena
146. Nicola Scafetta, Professore di Fisica dell’Atmosfera e Oceanografia, Università di Napoli
147. Emanuele Scalcione, Responsabile Servizio Agrometeorologico Regionale ALSIA, Basilicata
148. Nicola Sciarra, Professore di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara
149. Francesco Sensi, Generale di Divisione Aerea (R)
150. Massimo Sepielli, Direttore di Ricerca, ENEA, Roma
151. Leonello Serva, Geologo, Accademia Europa delle Scienze e delle Arti, Classe V, Scienze Tecnologiche e Ambientali, già Direttore Servizio Geologico d’Italia
152. Roberto Simonetti, Geologo, R&D c/o Azienda S.I.I.
153. Elio Sindoni, Professore Emerito dell’Università di Milano Bicocca
154. Enzo Siviero, Professore di Ponti, Università di Venezia, Rettore dell’Università e-Campus
155. Rinaldo Sorgenti, Deputy Chairman of ASSOCARBONI
156. Ugo Spezia, Ingegnere, Responsabile Sicurezza Industriale, Sogin, Movimento Galileo 2001
157. Luigi Stedile, Geologo, Centro di Ricerca Previsione, Prevenzione e Controllo Rischi Geologici (CERI), Università di Roma La Sapienza
158. Emilio Stefani, Professore di Patologia Vegetale, Università di Modena
159. Flavio Tabanelli, Fisico
160. Maria Grazia Tenti, Geologo
161. Umberto Tirelli, Visiting Senior Scientist, Istituto Tumori d’Aviano, Movimento Galileo 2001
162. Giorgio Trenta, Fisico e Medico, Presidente Emerito dell’Associazione Italiana di Radioprotezione Medica, Movimento Galileo 2001
163. Roberto Vacca, Ingegnere e Scrittore Scientifico
164. Gianluca Valensise, Dirigente di Ricerca, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma
165. Corrado Venturini, Professore di Geologia Strutturale, Università di Bologna
166. Benedetto De Vivo, Professore di Geochimica in Pensione dall’Università di Napoli, ora Professore Straordinario presso Università Telematica Pegaso, Napoli
167. Andrea Zaccone, Geologo, Dirigente Protezione Civile Regione Lombardia
168. Luigi Zanotto, Docente in Pensione
169. Franco Zavatti, Ricercatore di Astronomia, Università di Bologna
170. Antonino Zichichi, Professore Emerito di Fisica, Università di Bologna, Fondatore e Presidente del Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana di Erice (qui)

Contro i deliri della religione fondamentalista e terroristica dei cambiamenti climatici – già riscaldamento globale, già (o forse sarebbe meglio dire già già) glaciazione globale – speciali, che sono diversi da quelli normali, e che sono di origine antropica, religione che in un batter di ciglia scivola nell’antropofobia più spinta, si sono già pubblicati in questo blog un’infinità di documenti. Naturalmente non mi illudo di poter instillare negli adepti di tale religione un granellino di dubbio: fra le fedi religiose – specialmente le fedi nelle religioni laiche – e il dubbio c’è un’eterna inimicizia di proporzioni tali da far sparire quella decretata fra il serpente e la Donna. Tutto questo è unicamente a beneficio degli scettici, degli eretici, delle menti pensanti. Aggiungo un esempio degli squallidi trucchetti dei media asserviti per impressionare con le temperature abnormi dell’emergenza climatica

e una acuta osservazione dell’amico Erasmo:

Constato che la scienza ufficiale è schierata sull’origine antropica, mentre un gruppo di scienziati anziani no. Ciò si può spiegare in due modi: 1. Gli anziani sono rincoglioniti; 2. Gli anziani sono in pensione, e quindi non rischiano rappresaglie che mettano a rischio la loro carriera. Contro la prima ipotesi gioca il fatto che non tutti i pensionati hanno l’Alzheimer; contro la seconda … no, non riesco a trovare niente contro la seconda.

Ecco, io i superesperti del clima aspiranti professionisti li vedo più o meno così (ascoltate bene quello che dice prima di cantare)

barbara