ANCORA UN PO’ DI PATACCHE

Giusto per chiarire meglio le idee. E inizio con queste due cose di oltre 20 anni fa, straordinariamente istruttive

E se questo era il passato, quest’altro è il presente: come già detto di nuovo ci sono le dimensioni della strage, non certo le modalità, non certo la ferocia, non certo la volontà di infliggere la maggiore sofferenza possibile.

Aggiungo questo vecchio video con una bella botta di patacche d’epoca

Questo invece è di attualità

(poi di’ che a Gaza non hanno ospedali efficienti!)

E i morti che chattano sul cellulare, eh? li avevate mai visti?

E poi c’è la crisi umanitaria

e la carenza di carburante, salvo questo mezzo milione di litri accumulati da hamas con certosina pazienza e amorevolmente custoditi nei pressi del confine di Rafah

E poi ancora la geografia creativa della CNN

Per non parlare della cura che il NYT pone nel garantire l’assoluta imparzialità dei propri corrispondenti (grazie a lui)

E mettiamoci anche, visto il vizio di parlare di Israele come stato colonialista, il mantra del colonialismo

(precisando che le parti più chiare sono aree in cui non ha attecchito la lingua araba (ma spesso i nomi sì: in un intero anno di permanenza in Somalia, di persone con un nome somalo ne ho conosciuta una, per il resto solo nomi arabi), ma è comunque, nella quasi totalità, riuscita l’imposizione  della religione islamica, con l’aggiunta di Turchia, Iran, Pakistan, Afghanistan, alcuni stati dell’ex Unione Sovietica, il Kosovo e varie parti dell’estremo oriente) e già che ci sono vi faccio dare un’occhiata anche alle cattive feroci aggressive crociate

Poi vi faccio vedere perché a Gaza (ma anche in Giudea e Samaria) ci sono così tanti terroristi (i due video hanno una parte in comune, ma vale la pena di guardarli entrambi)

Purtroppo non sono riuscita a ritrovare il video delle due bambine palestinesi, 11 e 12 anni, che alla domanda “Fra uno stato di Palestina libero e indipendente, con tutti i diritti, e il martirio, che cosa scegliete?” rispondono entrambe con convinzione “Il martirio! Avrò i miei diritti in paradiso, tutti i bambini palestinesi vogliono diventare martiri”.

E ora vi faccio dire due parole da un arabo israeliano

e da un palestinese

Da noi invece ci sono quelli che, non potendo fare personalmente a pezzi gli ebrei, si accontentano di farli a pezzi in effigie

D’altra parte forse qualcuno fra i miei più antichi lettori ricorderà questo vecchissimo volantino

E a proposito di ostaggi, una delle cose più oscene che ho sentito è il proposito di Stati Uniti e vari Paesi europei di cercare di far liberare tutti i loro ostaggi con doppio passaporto: quindi gli ostaggi semplicemente israeliani sono ostaggi di serie B? Non meritano un impegno per farli liberare? Possiamo lasciarli ammazzare? Torturare? Stuprare? Fare a pezzi? Usare come scudi umani? Questa a casa mia si chiama discriminazione. Discriminazione razziale, per essere più precisi. E la più oscena di tutte è questa cosa mostruosa

Perché se diventano anche italiani allora meritano di vivere, a quanto pare, mentre se restano israeliani vadano a farsi fottere. Nessuno si offenderà, spero, se dico che mi viene da vomitare.

Metto ora una cosa che ho trovato oggi in rete, che mi sembra una buona risposta a chi chiede moderazione a Israele, ossia ridurre significativamente la potenza di hamas ma senza arrivare ad annientarla, a distruggere tutte le sue armi, tutte le sue strutture e infrastrutture, a ucciderne tutti i componenti (in modo da permetterle di rimettersi in piedi e trovarsi in condizione di fare quello che ha fatto il 7 ottobre, dopo che nella precedente operazione la sua potenza era stata significativamente ridotta, ma non annientata l’organizzazione)

1984: una bomba dell’IRA, diretta alla Thatcher e ai suoi ministri nell’albergo di Brighton dove si tiene il loro raduno, scoppia prima del previsto, uccidendo 5 persone, ma non la Thatcher e il suo governo. Comunicato dell’IRA: “oggi abbiamo avuto sfortuna, ma ricordate, voi dovete aver fortuna sempre, a noi basta aver fortuna una volta”.

Se agli altri per vincere tutto e far saltare il banco basta avere fortuna una volta, non si può lasciare la propria esistenza in balia della fortuna: bisogna eradicare il nemico.

E per rendere chiaro – dato che non per tutti lo è – che cosa esattamente è questo nemico, aggiungo questa non-foto (la foto naturalmente è stata scattata dagli esecutori, a documentazione dell’accuratezza con cui avevano svolto il compito loro assegnato)

E voglio chiudere con qualcosa di bello, per esempio questo tizio, che ha combattuto nelle brigate clandestine prima della proclamazione dello stato; oggi ha 95 anni

E il rabbino Avinar Shlita, che non so quanti anni abbia ma sicuramente non pochi: anche lui ha indossato la divisa ed è andato a difendere il suo Paese

E gli studenti iraniani, che entrano all’università così

per non calpestare la bandiera israeliana. E
infine un motivo di ottimismo: la situazione è sicuramente drammatica, però…

barbara

IL PRESTIGIOSO PREMIO NOBEL

Quello che per la letteratura viene dato a Dario Fo e a Bob Dylan (e io ci metterei anche Quasimodo, che come “poeta” per me sta allo stesso livello di quei due, se non al di sotto). Quello che per la pace viene dato a una signora africana che ha piantato degli alberi (sic!) e che sostiene a spada tratta le mutilazioni genitali femminili. E a Barack Hussein Obama – preventivamente, cosa che non sta né in cielo né in terra, cioè praticamente glielo hanno dato perché è negro, altre spiegazioni non si trovano – il peggior nemico della pace mondiale dopo Hitler, che ha leccato il culo a tutti i peggiori fondamentalisti islamici e voltato il proprio, di culo, a tutti i più sinceri amici, che ha lasciato affondare e massacrare gli studenti dell’Onda Verde in Iran, al quale Iran ha regalato su un piatto d’argento la bomba atomica finalizzata a cancellare Israele dalla faccia della terra, che ha fatto scatenare le cosiddette primavere arabe con un bilancio, molto provvisorio, di molte centinaia di migliaia di morti. Eccetera. E al terrorista Arafat. E all’Onu, per le cui nefandezze non basterebbe un libro delle dimensioni di Guerra e pace, e, in particolare, nella persona di Kofi Annan. Ecco, quel premio Nobel lì. A chi sarà mai andato quest’anno quello per la letteratura?

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo

Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c’è la sua “intransigente e compassionevole analisi” degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi. 

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive  una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad. 

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo. 

Anna Bono, qui.

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica.

Già, toccare i responsabili del peggiore schiavismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore stragismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore colonialismo, che in quasi un millennio e mezzo ha ormai invaso circa un quarto del pianeta

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e che, a differenza del colonialismo europeo da un pezzo morto e sepolto, sta continuando tuttora a espandersi guadagnando quartiere dopo quartiere tutte le nostre principali città e capitali – toccare quelli, dicevo, provare a pestare i calli a quei signori lì, richiede coraggio, che il Nostro evidentemente non ha. Molto più facile prendere a schiaffoni chi ti ha accolto, in fuga dalla rabbia di coloro che la tua etnia aveva oppresso e sfruttato colonialmente per secoli; molto più comodo sputare sul piatto che ti è stato offerto quando non avevi niente; molto più redditizio mordere la mano che ti ha nutrito senza chiedere niente in cambio. Com’era quel vecchio proverbio? Quando la merda monta in scranno, o fa puzza o fa danno. Soprattutto quando viene addirittura messa sul piedistallo dal Merdaio Supremo.

barbara

LE COLPE DEI PADRI

Le colpe dei padri, come tutti sanno, sono quella cosa che non deve mai ricadere sui figli. Mai. Neanche per sbaglio. Neanche per distrazione. Neanche per scherzo. Neanche per uno scherzettino bonario. Mai. Tranne il caso che i padri in questione appartengano alla razza bianca. La quale razza è quella cosa che – anche questo lo sanno tutti – assolutamente non esiste, tranne la razza bianca, che non solo esiste, ma è anche una razza inferiore in quanto colpevole di tutti i danni del pianeta, conosciuti e sconosciuti, e di tutti gli altri pianeti scoperti e coperti nonché di tutte le galassie scoperte e coperte. In questo caso le colpe dei padri ricadono sui figli fino alla seimiliardesima generazione. E dunque succede che noi – nel senso di immonda razza bianca – abbiamo avuto le colonie, abbiamo sfruttato il loro suolo e sottosuolo e la popolazione, arricchendoci alle loro spalle, e impoverendo loro in proporzione. (Come? Dici che dopo la fine del colonialismo sono arrivati dei satrapi corrottissimi che li hanno depredati ancora più di noi? Colpa nostra: se non ci fossimo stati prima noi non sarebbero arrivati neanche i satrapi) E dunque, per scontare le colpe dei trisnonni dei nostri trisnonni, adesso dobbiamo accogliere e nutrire tutti quelli che arrivano, da qualunque parte del mondo arrivino. Ne arriva un milione? Accogliamo un milione. Dieci milioni? Accogliamo dieci milioni. Cento milioni? Accogliamo cento milioni. Un miliardo? Accogliamo un miliardo. Continuando infaticabilmente a chiedere scusa e batterci il petto e cospargerci il capo di cenere: scusa per il male fatto dai trisnonni dei nostri trisnonni, scusa per avere sviluppato una cultura superiore alla loro, una scienza superiore alla loro, una tecnologia superiore alla loro, scusa per avere concepito l’idea dei diritti umani ed esserci dotati di democrazia, scusa per esistere.

E gli arabi – che dopo l’arrivo del cammelliere predone assassino pedofilo sono diventati musulmani? Hanno aggredito, invaso, occupato, islamizzato a suon di massacri, deportazioni, stupri etnici, conversioni forzate tutto il nord Africa, buona parte del centro Africa, tutto il medio oriente, parti dell’estremo oriente, i Balcani, parti dell’Italia, la Spagna (se ho dimenticato qualcosa aggiungetelo voi), hanno cancellato culture, lingue, etnie, hanno depredato e devastato, hanno fatto razzie per catturare schiavi (ricordiamo che non solo gli schiavi bianchi sono stati più numerosi degli schiavi neri, ma che anche per gli schiavi neri erano i capitribù locali a fare le razzie, e i mercanti arabi a farne commercio, vendendoli ai negrieri bianchi) e in varie parti praticano tuttora la schiavitù. E stanno conquistando fette sempre più grosse di Europa, terrorizzando gli autoctoni, imponendo loro il proprio stile di vita, limitando le loro libertà e i loro diritti. E loro? Niente colpe da scontare? Niente danni da risarcire? No. al contrario, dobbiamo accoglierli. Dobbiamo essere indulgenti perché loro non lo sanno che in Italia non si può stuprare sulla spiaggia, proprio non lo sanno. Dobbiamo essere comprensivi se addobbano le loro donne come tende beduine, perché è la loro cultura. Dobbiamo capirli se infibulano le bambine, perché da loro si fa così. Non dobbiamo criticarli se sposano bambine prepuberi, perché stanno seguendo l’esempio del loro Profeta, piss be upon him. No, nessun senso di colpa per loro. Ma perché Dai su, ragazzi, non potete fare domande così stupide! Perché loro non appartengono alla famigerata razza bianca, ecco perché.
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PS: mi è capitato di sentir dire: “Se Allah ha dato il petrolio a noi, ci sarà una ragione”. Ora, a parte il fatto che lo ha dato anche agli americani e ai nordeuropei e – orrore degli orrori! – anche agli ebrei in Terra d’Israele, ma se per poterlo estrarre e raffinare e utilizzare  Allah li ha fatti aspettare fino a quando non sono arrivati i famigerati colonizzatori bianchi, non avrà avuto le sue ragioni?

barbara

LA TOMBA DI RACHELE (13/15)

Poi Labano disse a Giacobbe: «Perché sei mio parente devi servirmi gratuitamente? Dimmi che compenso vuoi». Labano aveva due figlie: la più grande si chiamava Lea la minore Rachele. Lea aveva gli occhi smorti, Rachele era bella di forme e bella d’aspetto. Giacobbe amava Rachele, e disse: «Ti servirò sette anni per Rachele, la tua figlia minore». Labano replicò: «È meglio ch’io la dia a te che a un altr’uomo; rimani con me». Giacobbe servì per Rachele sette anni che gli sembrarono pochi giorni, tanto l’amava. Poi Giacobbe disse a Labano: «Dammi mia moglie, sì che possa convivere con lei». Labano riunì tutta la gente del luogo e fece un pranzo. Alla sera, prese sua figlia Lea, la condusse presso di lui che si unì con lei. Labano diede come ancella a sua figlia Lea la propria serva Zilpà. Al mattino Giacobbe si accorse che era Lea e disse a Labano: «Che mi hai fatto? Io ti ho servito per Rachele; perché dunque mi hai ingannato?». Labano gli replicò: «Non si fa così nel nostro paese, di dar marito alla minore prima che alla maggiore. Finisci la settimana [di festeggiamenti] di questa, e ti daremo anche l’altra, per il servizio che mi presterai per altri sette anni». Giacobbe fece così, completò la settimana di quella e poi Labano gli dette in moglie la figlia Rachele. (Genesi 29, 15-28)

Partirono da Beth-El; quando mancava ancora un breve tratto di strada per arrivare ad Efrath, Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre soffriva nella difficoltà del parto, la levatrice le disse: «Non aver paura, anche questo è un maschio». “Quando stava per esalare l’ultimo respiro, perché morì, chiamò il neonato Ben-Onì [figlio del mio dolore], mentre il padre lo chiamò Binjamin (Beniamino) [figlio della destra, cioè prediletto]. Morta Rachele, fu seppellita sulla via di Efrath che è Beth-Lèchem (Betlemme). Giacobbe eresse un monumento sulla sua sepoltura; è il monumento tombale di Rachele ancora oggi. (Genesi 35, 16-20)

E da allora gli ebrei venerano quel luogo come la tomba di Rachele, moglie prediletta di Giacobbe figlio di Isacco figlio di Abramo, e madre di Giuseppe e di Beniamino. In un disegno del 1585 la tomba appare così,
tomba Rachele 1585
mentre in questa foto del 1912 la vediamo circondata da mura;
tomba Rachele 1912
in seguito l’edificio viene ampliato.
tomba Rachele
Oggi, grazie alle graziose attenzioni dedicate dagli arabi a questo come a ogni altro luogo di culto ebraico, per proteggere il sito dai violenti attacchi lo vediamo ridotto così:
tomba Rachele oggi
inserito in una massiccia costruzione, con la strada chiusa al traffico, e fronteggiato da questo orrendo muro che, visto dal di fuori, appare così, dotato di torrette di osservazione:
muro Rachele
per sopravvivere e per pregare, sembra che non sia stato lasciato agli ebrei altro mezzo che il cemento. Questo è l’interno,
tomba Rachele interno
ma di questo parlerò in altra occasione. Qui, per chi se la cava con l’inglese e desidera conoscere più in dettaglio la storia della tomba e delle manovre arabe per appropriarsene, una buona ricostruzione e molte immagini.

E direi che ci sta bene anche questo.

barbara

CARMINE PASCIÀ (CHE NACQUE BUTTERO E MORÌ BEDUINO)

Tre anni dopo, il fante Carmine Iorio era ancora lì. A chiedersi quanto tempo ancora sarebbe passato prima che il regio esercito italiano, che non gli aveva mai dato una licenza («Mai, signor tenente!») per tornare da sua madre e da Lorenzina, lo liberasse finalmente dal giogo che lo teneva schiavo «come il bove è schiavo dell’aratro». A domandarsi che senso c’era a stare lì, dopo avere amaramente scoperto che la Libia era sabbia, sabbia, sabbia. E non era affatto «la terra promessa» con «mezzo milione di chilometri quadrati coltivabili» e «grano che matura tre o quattro volte l’anno».
Se lo ricordava bene, il giorno in cui a Verona il sergente Gagliasso, un acceso nazionalista cuneese, aveva tirato fuori di tasca un giornale ritagliato: «Sentite cosa scrive il grande Giuseppe Bevione. Sentite cosa scrive, della Libia: “Ho veduto gelsi grandi come faggi, ulivi più colossali che le querce. L’erba medica può essere tagliata dodici volte all’anno. Gli alberi da frutta prendono uno sviluppo spettacoloso. Il grano e la meliga danno, negli anni medi, tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa coltivati razionalmente. L’orzo è il migliore che si conosca ed è accaparrato dall’Inghilterra per la sua birra. Il bestiame prospera, e anche nello spaventoso abbandono odierno, è esportato a centinaia di migliaia di capi per Malta e l’Egitto. La vigna dà grappoli di due o tre chili l’uno. I poponi crescono a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto. I datteri sono i più dolci e opimi che l’Africa produca!”. Oh, dico, lo scrive Bevione! Mica uno qualsiasi! Bevione! Della “Stampa” di Torino! Che penna! Che penna!».

È un gioiello, come tutto ciò che esce dalle mani di Gian Antonio Stella, siano saggi storici o denunce degli immani sprechi della pubblica amministrazione, critiche ai politici (sia di destra che di sinistra: Stella non guarda in faccia nessuno, quando c’è da tirar bastonate) o articoli,  romanzi o racconti. Questa di “Carmine Pascià” è la storia vera, leggermente romanzata ma rigorosamente documentata, di Carmine Iorio,
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buttero analfabeta del profondo Sud, mandato a conquistare la Libia per la gloria dell’Italia, una vita semplice travolta e stravolta da una politica di cui niente sapeva e niente capiva. E se non lo avete letto, secondo me dovreste provvedere. Sul serio.
Post scriptum: anch’io, se fossi stata lì a quel tempo, sarei stata dalla parte di Omar al-Mukhtar.
carmine-pascia
Gian Antonio Stella, Carmine Pascià (che nacque buttero e morì beduino), Rizzoli

barbara