I BAMBINI DI THAILANDIA

L’ho trovato in rete, e mi sembra giusto proporlo a mia volta.

Prendo spunto da una riflessione analoga letta nel un post di un’amica per condividere lo stesso pensiero, con esempi e parole mie.
Non tutti i bimbi della Thailandia sono stati salvati come i piccoli calciatori finiti nella grotta.
Molti dei loro coetanei, maschi e femmine, non supereranno la maggiore età.
Sopravvivono nei bordelli dove devono “soddisfare” le esigenze di almeno una ventina di clienti al giorno. Uomini (e donne) che da ogni parte del mondo da anni scelgono (anche) la Thailandia come meta preferita per i propri scopi criminali.
Paese dove il tasso di hiv è ancora oggi tra i più alti al mondo, nonché causa del decesso di molti di questi esseri umani.
Insieme alla dipendenza da droghe, usate per reggere i “ritmi di lavoro”.
Un paio d’anni fa , se vi ricordate, denunciai nel periodo natalizio che là si teneva l’asta della vergine: lo scenario infernale il seguente. Un grande tavolo per formare una passerella. Sopra delle “donne” che dovevano sfilare e sotto i partecipanti all’asta che per poche manciate di dollari, cercavano di accaparrarsi la merce. “Donna” e “merce” la cui età, per poter essere ancora vergine, non superava i 6/7 anni….
Ecco cara Thailandia, emozionante (quanto impegnativo) il lavoro che hai fatto per recuperare i calciatori, bellissima la solidarietà che ha smosso i cuori e le coscienze. Ora però se vuoi davvero che il mondo tutto ti sia riconoscente, libera i tuoi schiavi. E punisci realmente i predatori.
Massimiliano Frassi

L’avevo lì da alcuni giorni, durante i quali altre urgenze hanno continuato a incalzare. Ora, in tema con il post di ieri, mi sembra il momento giusto per postarlo. Magari, se il cannocchiale esce dal coma, si potrebbe rileggere questo.

barbara

IL MANTRA DEL CELIBATO ECCLESIASTICO

come causa della pedofilia dei preti. Vorrei fare una domanda ai miei lettori maschi. Immaginate (magari qualcuno, se non in assoluto, almeno per qualche periodo della propria vita, non avrà neppure bisogno di immaginare troppo) di essere titolari di una vivace dotazione ormonale, e di non avere a disposizione una moglie che vi dia una mano a gestirla, e che la castità non sia il vostro sport preferito: potrebbe venirvi in mente di risolvere il problema inchiappettandovi un bambino? O appartandovi in macchina con una bambina di dieci anni – magari nell’innocente convinzione che ne abbia quattordici o quindici? Scusate, ma a me sembra un’enorme puttanata, soprattutto considerando il dato di fatto che la stragrande maggioranza dei pedofili sono sposati e padri di famiglia: coi bambini ci va chi è pedofilo, non chi sente la mancanza di una moglie. Quanto al protagonista dell’ultima vicenda venuta alla luce, la cosa più sconvolgente è l’assoluta mancanza non solo di pentimento, ma anche di una presa di coscienza di avere commesso un crimine, di avere abusato di una bambina, il tentativo di annacquare le responsabilità, di giocare con le parole, di recitare la parte dell’ingenuo svagato un po’ sconnesso, come possiamo sentire in queste due telefonate

e ancora di più in questa

Ma davvero qualcuno si immagina che con una moglie al suo fianco e nel suo letto questo essere sordido potrebbe essere una persona decente? Un errore, uno sgambetto del demonio (che adesso, grazie a Famiglia Cristiana sappiamo essere Salvini, e quindi anche per la bambina abusata, con maglietta alzata e mutande abbassate – “uno scambio di affetto” – abbiamo la consolante certezza che ha stato Salvini), ci penseranno Gesù e Maria, bisogna pregare che così si riceve tanta gioia… Io proporrei un clistere di cemento a presa rapida: dite che sono troppo severa?

PS: ma un pensierino su quei due genitori che lasciano scarrozzare la bambina dal prete settantenne, no?

barbara

A MARGINE

A margine dell’eclissi
Quella spettacolare dell’ottobre 1986, a Mogadiscio. E il baccano infernale, per tutta la città, della gente uscita in strada con pentole, coperchi o qualunque altro oggetto capace di produrre rumore, sbattuti freneticamente per spaventare il mostro che stava mangiando la luna e farlo scappare. E non ridacchiate voi moderni progrediti eruditi scientificizzati: si è sempre fatto così, e ha sempre funzionato. Dal che si desume che è scientificamente dimostrata la realtà del fatto che la causa dell’autismo sono i vaccini.

A margine dello smalto
Qualche anno fa un amico mi ha raccontato di una volta che era a pranzo al ristorante con la famiglia. Mentre erano lì è entrata la loro nuova vicina di casa (sposata) insieme a un uomo. Conoscevano pochissimo lei, e per niente le sue frequentazioni, quindi quell’uomo poteva essere chiunque: un parente, un amico, un collega con pausa pranzo in comune, un conoscente incontrato per caso. Se la signora li avesse salutati, avrebbero continuato a ignorarlo; senonché, non appena li ha visti, si è girata dall’altra parte, fingendo di non averli visti o riconosciuti, e a questo punto è stato chiaro chi era l’uomo in sua compagnia.
Se l’articolo sullo smalto fosse stato ignorato; se, a eventuale domanda specifica, si fosse risposto qualcosa come “E che ne so! Ma le pare che in mezzo a un naufragio abbiamo tempo e testa da badare a queste cazzate?!” il tutto sarebbe passato inosservato. Ma, come per la signora al ristorante, qualcuno ha sentito il bisogno di montare tutta una messinscena: nooooo! Non lo aveva quando l’abbiamo raccolta! Gliel’abbiamo messo noi a bordo per distrarla e farla parlare! Poteva bastare questa ridicola spiegazione? Ma neanche per sogno! Bisogna indagare sulla giornalista. La quale a quanto pare collabora anche con il giornale di Casa Pound, il che diventa automaticamente “pagata da Casa Pound” (se Francesco Schettino chiamasse i carabinieri per avvertire che il suo vicino sta massacrando di botte la moglie, è il caso di verificare se è vero o si rifiuteranno di prenderlo in considerazione e gli diranno “chiuda il becco, cazzo!” perché è un delinquente e quindi automaticamente non affidabile?), e poi collabora al sito di Luca Donadel, definito con disprezzo “noto sovranista” e anti immigrati. Ora, a parte il fatto che Donadel si è occupato di islam, brexit, Trump, Kekistan, spot pubblicitari, violenze all’università, Licia Colò, per quanto riguarda il tema in questione ha provveduto a dimostrare che i presunti salvataggi non sono affatto salvataggi, che non avvengono del Canale di Sicilia, e che le Ong non sono figlie degli angeli. Esternazioni contro i migranti, a quanto mi risulta, zero.
E qui, come si suol dire, la domanda sorge spontanea: perché tutto questo polverone sulla faccenda dello smalto, oltretutto alterando quanto scritto dalla giornalista? Perché questo attacco a 360° contro la persona e contro un onesto sbufalatore come Luca Donadel? A me tutto questo giochetto ricorda quello dei prestigiatori: guardate la mia mano destra guardate la mia mano sinistra niente nella mano destra niente nella mano sinistra, il cui unico scopo è quello di non farvi guardare là dove il trucco si sta svolgendo.

A margine e basta
Qui.

barbara

ISRAELE, LA COSTITUZIONE E DANIEL BARENBOIM

Ma prima di parlare della Costituzione israeliana, due parole su quella italiana. La seconda parte dell’articolo 1 recita: “La sovranità appartiene al popolo”. Domanda: a quale popolo? Quello mozambicano? Delle isole Salomone? Azzardo troppo se penso che chiunque risponderebbe “al popolo italiano”? Azzardo troppo se suppongo che non sia stato specificato per il semplice fatto che è scontato che lo stato italiano è la patria del popolo italiano? Ci sono minoranze etnico-linguistiche in Italia? Sì: albanesi, catalani, croati, francesi, francoprovenzali, friulani, germanici, greci, ladini, occitani, sardi, sloveni per un totale di circa due milioni e mezzo di persone, riconosciuti e tutelati; ma la lingua ufficiale è una: l’italiano. Qualcuno lo trova scandaloso? Discriminatorio? Razzista? Fascista?
L’Italia ha deciso di stabilire la sua capitale a Torino, poi l’ha spostata a Firenze e infine a Roma, dopo averla sottratta con le armi al Vaticano che vi risiedeva da oltre un millennio e che l’aveva dotata del più grande patrimonio artistico esistente al mondo: ha chiesto il permesso a qualcuno? Qualcuno ha messo in discussione il suo diritto di farlo?
E passiamo ora a quella israeliana.

Legge Fondamentale: Israele, Stato Nazione del Popolo Ebraico

1) Principi fondamentali

A. La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato.
B. Lo Stato di Israele  è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo naturale, culturale, religioso e storico diritto all’autodeterminazione.
C. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unico per il popolo ebraico.

2) Simboli dello Stato

A. Il nome dello Stato è “Israele.
B. La bandiera dello Stato è bianca con due strisce azzurre verso le estremità e una stella blu di David al centro.
C. Il simbolo dello Stato è una menorah a sette bracci con foglie d’ulivo ad entrambi i lati e la scritta  “Israele” sotto esso.
D. L’inno nazionale è l'”Hatikvah”.
E. Ulteriori dettagli sui simboli di stati saranno determinati da legge ordinaria.

3) La capitale dello Stato

Gerusalemme, integra e unita, è la capitale di Israele.

4) Lingua

A. La lingua ufficiale è l’ebraico.
B. La lingua araba gode di riconoscimento speciale nello stato. La legge regolamenterà l’impiego dell’arabo nelle istituzioni di stato.
C. Questa previsione non pregiudica lo status riconosciuto alla lingua araba dalle normative preesistenti.

5) Ritorno degli esuli

Lo Stato è aperto all’immigrazione ebraica e al ritorno degli esuli

6) Collegamento con il popolo ebraico

A. Lo Stato si impegnerà affinché sia garantita la sicurezza dei membri del popolo ebraico in pericolo o in cattività a causa della loro ebraicità o cittadinanza.
B. Lo Stato agirà nell’ambito della Diaspora per rafforzare l’affinità fra esso e i membri del popolo ebraico.
C. Lo Stato agirà per preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del popolo ebraico fra gli ebrei della Diaspora.

7) Insediamenti ebraici

A. Lo Stato considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento

8) Calendario ufficiale

Il calendario ebraico è il calendario ufficiale dello Stato, e sarà affiancato dal calendario gregoriano come calendario ufficiale. L’utilizzo del calendario ebraico e di quello gregoriano sarà disciplinato dalla legge.

9) Giornata dell’Indipendenza e commemorazioni

A. La Giornata dell’Indipendenza è la festività nazionale ufficiale dello Stato.
B. La Giornata della Memoria per i Caduti in tutte le Guerre di Israele, per le vittime dell’Olocausto, nonché la Giornata del Ricordo dell’Eroismo, sono giorni di commemorazione dello Stato.

10) Giorni del riposo e Shabbath

Lo Shabbath e le festività di Israele sono i giorni di riposo fissati per lo Stato. I non ebrei hanno diritto a rispettare i loro giorni di riposo e le loro festività. I dettagli di questo tema saranno fissati dalla legge.

11) Immutabilità

Questa legge fondamentale non può essere emendata che da un’altra legge fondamentale, approvata dalla maggioranza dei membri della Knesset. (Traduzione a cura di Il borghesino)

Forse può essere interessante dare un’occhiata ad alcuni articoli della costituzione palestinese, tenendo presente che per “Palestina” o “terre palestinesi” non si intende Giudea-Samaria (“Cisgiordania”) e Gaza, bensì tutto il territorio di Israele.

Articolo (2) Il popolo palestinese ha un’identità indipendente. Essi sono l’unica autorità che decide il proprio destino e hanno completa sovranità su tutte le loro terre.
Articolo (3) La rivoluzione palestinese ha un ruolo guida nella liberazione della Palestina.
Articolo (4) La lotta palestinese è parte integrante della lotta mondiale contro il sionismo, colonialismo e imperialismo internazionale.
Articolo (5) La liberazione della Palestina è un obbligo nazionale che ha bisogno del supporto materiale e umano della Nazione Araba.
Articolo (6) Progetti, accordi e risoluzioni dell’Onu o di singoli soggetti che minino il diritto del popolo palestinese nella propria terra sono illegali e rifiutati.
Articolo (9) La liberazione della Palestina e la protezione dei suoi luoghi santi è un obbligo arabo religioso e umano.
Articolo (17) La rivoluzione armata pubblica è il metodo inevitabile per liberare la Palestina.
Articolo (19) La lotta armata è una strategia e non una tattica, e la rivoluzione armata del popolo arabo palestinese è un fattore decisivo nella lotta di liberazione e nello sradicamento dell’esistenza sionista, e la sua lotta non cesserà fino a quando lo stato sionista non sarà demolito e la Palestina completamente liberata.  (Enfasi mia, qui, traduzione mia)

Tornando invece alle democrazie – democrazie autentiche, indiscusse, riconosciute come tali da tutti (la precisazione è d’obbligo, dato che per il signor Ovadia Salomone, in arte Moni – e non sghignazzino i veneti – “Arafat non è un terrorista e chi dice questo è un pazzo. Arafat è il democratico e legittimo rappresentante del suo popolo”), può essere il caso di dare un’occhiata qui.

E veniamo ora al nostro Cicciobello.

Barenboim: «Mi vergogno di essere israeliano»

La legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico

«Oggi mi vergogno di essere israeliano»: lo afferma il direttore d’orchestra Daniel Barenboim con un polemico intervento su Haaretz in seguito alla approvazione alla Knesset della legge che qualifica Israele come «lo Stato nazionale del popolo ebraico». Il significato di quella legge, sostiene, è che «gli arabi in Israele diventano cittadini di seconda classe. Questa è una forma molto chiara di apartheid». Barenboim sostiene che il parlamento ha tradito gli ideali dei Padri fondatori. Loro puntavano «alla giustizia, alla pace … promettevano libertà di culto, di coscienza, di lingua, di cultura». Ma 70 anni dopo, accusa, «il governo israeliano ha approvato una legge che sostituisce il principio di giustizia ed i valori universali con nazionalismo e razzismo». Barenboim conclude: «Non mi capacito che il popolo ebraico sia sopravvissuto duemila anni, malgrado le persecuzioni ed infiniti atti di crudeltà, per trasformarsi in un oppressore che tratta crudelmente un altro popolo».
(Il Messaggero, 24 luglio 2018)

Barenboim non si capacita e si vergogna. Non si capacita che Israele sia potuto sopravvivere duemila anni (in realtà sono molti di più), e quando un artista geniale non si capacita, non cerca di capacitarsi studiando e riflettendo un po’ di più, ma dà di piglio alla sua arte ed esprime ad alta voce il suo non aver capito niente. Poi aspetta gli applausi, che spesso, soprattutto quando si parla male di Israele, non tardano a venire. Ma oltre a non capacitarsi, lui si vergogna. Non del fatto di non aver capito niente, ma di essere israeliano. Nessuno gli dica che probabilmente in Israele sono molti di più quelli che si vergognano di lui.
Marcello Cicchese

E mi viene bene di riproporre questa cosetta a quattro mani fatta un po’ di anni fa.

LETTERA APERTA A DANIEL BARENBOIM

Stimatissimo e veneratissimo Maestro,
abbiamo appreso con dolore, con mestizia e anche, dobbiamo dirlo, con un po’ di vergogna, che un deplorevolissimo attacco mediatico è stato scatenato contro di Lei da parte di vari personaggi israeliani e anche da parte di altri ebrei del mondo libero. Questo è ciò che ci ha spinti a scriverLe questa lettera aperta, che cercheremo di pubblicizzare il più possibile: esprimerLe la nostra totale, incondizionata solidarietà. E la nostra sconfinata ammirazione per tutto ciò che Lei sta facendo, per la Sua coraggiosa opera a favore del meraviglioso popolo di Gaza, non ultimo mettendo a disposizione di questo popolo generoso la Sua sublime musica – tutte qualità, queste del popolo di Gaza, che i Suoi nemici non vogliono riconoscere. Che dire, per esempio, del fatto che da cinque anni stanno ospitando quel sionista, Gilad: cinque anni, cinque anni che gli provvedono vitto e alloggio e mai, mai una volta in cinque anni hanno chiesto un centesimo di rimborso spese? E sì che ne avrebbero bisogno, di contributi: basti pensare a quel missile teleguidato che hanno tirato sullo scuolabus: duecentoottantamila dollari per eliminare un unico, giovanissimo nemico! Quanti miliardi ci vorranno prima di liberare la Palestina dal fiume al mare? Eppure quelle anime generose continuano a ospitare il sionista completamente gratis! E i compatrioti di quel loro ospite cosa fanno invece di ringraziarli? Li criticano. E criticano Lei che generosamente si esibisce, immaginiamo gratis, di fronte a loro e di fronte agli eroici combattenti di Hamas che si dedicano senza risparmio alla loro lotta di liberazione – e sembra che la Sua presenza sia stata foriera di benefici effetti, visto che subito dopo Hamas e Fatah hanno trovato la forza di mettere una pietra sopra alle loro quotidiane carneficine reciproche occasionali piccoli dissidi e decidere uno storico accordo per combattere uniti contro l’unico vero, eterno nemico comune. Abbiamo saputo che questa volta, in questa Sua magnanima spedizione di pace, non ha potuto dirigere la Sua orchestra storica, la Divan – pare che ci fosse qualche difficoltà a far entrare nella Striscia i musicisti israeliani – ma ciò che conta è il risultato, no? E il risultato indiscutibile è stato l’entusiasmo di Hamas. Lei è talmente bravo, Maestro, da occultare persino i Suoi difetti congeniti: “Non sapevo che fosse ebreo”, pare abbia infatti detto un ragazzo palestinese per giustificare la propria presenza al concerto. Ed è vero: Lei è talmente bravo, talmente buono, talmente generoso, che non sembra neppure ebreo. E tanta è la nostra ammirazione per Lei che ci permettiamo di darLe due consigli: stracci il suo passaporto israeliano, Maestro: quegli ingrati sionisti non La meritano, non meritano di avere un concittadino come Lei. E si converta il più presto possibile alla religione di pace: non vorremmo davvero che ci dovesse capitare, dopo avere pianto il povero Juliano Mer-Khamis e il povero Vittorio Arrigoni, che ai loro e Suoi comuni amici avevano dedicato tutta intera la propria vita, di ritrovarci a piangere anche Lei.

Barbara Mella
Emanuel Segre Amar

07/05/2011

Sì, direi che ci sta proprio bene.

barbara

CIÒ CHE LORO STANNO CERCANDO DI DISTRUGGERE

E poi c’è questa cosa, improvvisamente emersa dai miei sterminati archivi, e io lo so che non dovrei perché si tratta di una tragedia, ma quando l’ho riletta non ho potuto fare a meno di ridere come una matta.

Il popolo Palestinese è ancora una volta soggetto ad una sanguinosa e furiosa aggressione  da parte dell’entità sionista. Fin dall’usurpazione della Palestina più di mezzo secolo fa, il popolo palestinese è stato sottoposto ad una sistematica campagna di terrore e di usurpazione dei propri diritti. Essi sono stati e vengono uccisi, mutilati e rimossi dalla loro terra. L’ultimissimo capitolo di questa tragedia umana è rappresentato dall’uso contro il popolo palestinese della potente macchina militare sionista, equipaggiata con apparati di repressione, distruzione e terrore. Macchina militare usata per far fronte ad uomini, donne e bambini indifesi nei territori occupati.
L’obiettivo è quello di distruggere il morale e lo spirito di resistenza del popolo palestinese per forzarlo ad arrendersi e terminare la propria legittima lotta per la liberazione della propria terra, diritto scolpito nello statuto delle leggi internazionali dell’ONU.
E’ deplorevole che questa nuda aggressione sia condotta con impunità davanti allo sguardo di tutta la comunità internazionale, che sembra aver girato lo sguardo alle atrocità perpetrate dal regime sionista, e davanti alla tacita approvazione di quella superpotenza dispotica che dichiara di essere protettrice dei diritti umani e della democrazia nel mondo.
Nella sua flagrante aggressione contro il popolo palestinese, il regime sionista ha commesso gravi abusi dei diritti umani, dimostrando totale disdegno per qualsiasi norma, trattato o convenzione internazionale.
I paesi Arabi ed i governi dei paesi musulmani, anche essi testimoni di tutto quanto sta accadendo, hanno dimostrato una totale carenza di senso di responsabilità, di comando e di iniziativa nel prendere misure adeguate e decisioni efficaci contro l’entità sionista ed i suoi sostenitori.
Nel chiamare la libera gente del mondo a far sentire le loro voci di protesta e di condanna per i crimini commessi contro il popolo palestinese, li esortiamo ad aiutare e sostenere questo popolo oppresso, sia materialmente che moralmente.
Chiamiamo in particolare i Musulmani, a riunire le loro forze ed unirsi contro la minaccia sionista. Nessuna energia deve essere risparmiata nel venire in aiuto dei fratelli palestinesi e tutte le forze a disposizione devono essere usate.
Questo è il minimo che si può fare come dovere religioso quando un fratello è soggetto all’oppressione, figuriamoci se poi si parla di pura aggressione.
Chiediamo a coloro che sono responsabili nel prendere decisioni nei paesi islamici di:

1- Prendere provvedimenti ben definiti e posizioni a livello pratico in tutte le possibili direzioni affinché si possa far pressione sull’entità sionista ed i suoi sostenitori allo scopo di porre fine all’aggressione del popolo palestinese.  Pressione  politica, economica e militare deve essere fatta senza ritardo. I paesi islamici devono impegnarsi al massimo per raggiungere quest’obbiettivo. Il minimo che si potrà fare è il seguente:

  1. Paesi musulmani e arabi che hanno rapporti diplomatici ed economici con l’entità sionista devono immediatamente troncare questi rapporti.
  2. Abrogazione da parte dei paesi arabi di quei progetti economici intrapresi con gli Stati Uniti sotto la loro pressione. Progetti che hanno dissipato i diritti del popolo palestinese. L’opzione di guerra contro il regime sionista deve essere tenuta aperta.
  3. Boicottaggio di prodotti americani, e prevenzione dell’entrata di questi prodotti in paesi arabi e musulmani, come conseguenza dell’appoggio dell’amministrazione americana all’aggressione sionista.

2- Implementazione di provvedimenti pratici allo scopo di sostenere il popolo palestinese nella sua resistenza al furioso attacco sionista. Tra le azioni più importanti includiamo:

  1. Formazione di una riserva di fondi per il sostegno dei palestinesi. Tali fondi saranno messi a disposizione per l’acquisto non solo di materiali per far fronte alla situazione d’emergenza attuale ma anche per aiutare i palestinesi nel continuare la loro resistenza contro le forze di occupazione sioniste.
  2. Sostenere il Jihad palestinese con forniture di armi per i combattenti affinché possano difendersi e resistere e, se Dio vorrà, sconfiggere le forze di occupazione. L’apertura delle frontiere con la Palestina per permettere, ai volontari che lo desiderano, di unirsi alla lotta contro i sionisti allo scopo di scacciarli dalla Palestina e liberare quelle terre considerate care e sacrosante.
  3. Usare tutti i mezzi politici e di propaganda (media) nella guerra contro l’entità sionista con conseguente mobilitazione delle masse.

Per finire come conseguenza del nostro dovere religioso chiediamo a tutti i religiosi Imam di moschee e centri islamici che sono attivi nell’arena islamica in tutta Europa di :

1- Pregare Iddio affinché conceda la vittoria agli oppressi e a coloro che sono considerati deboli ed allevi la situazione dei nostri fratelli e sorelle  palestinesi intenti a liberarsi dal gioco sionista.

2- Designare questo Venerdì (12-4-2002) come: il giorno della solidarietà per il popolo palestinese.

3- Organizzare proteste, dimostrazioni, marce, ecc. che condannino il terrorismo praticato dal regime sionista.

Preghiamo Allah il Sublime affinché unifichi le voci dei musulmani e li renda capaci di serrare i ranghi davanti all’aggressione sionista.
Preghiamo Allah di alleviare la pena e la sofferenza dei nostri fratelli e sorelle palestinesi e di portare alla distruzione i nostri nemici ed i nemici dell’umanità.
“Allah è un eccellente patrono ed aiuto”

L’Associazione di Ulama Musulmani in Europa

Londra 26 Muharram 1423 (11- 4-2002) qui

Ci sono lupi che perdono il pelo ma non il vizio, e ci sono lupi che non perdono né l’uno né l’altro. Chiagne e fotte, dicono a Napoli.

barbara

IN MEMORIA DI SERGIO MARCHIONNE

Sergio Marchionne ha salvato la Fiat e modernizzato l’Italia più di tutte le leggine sul lavoro. Certo, ha mandato a quel paese i sindacati e anche Confindustria, inimicandosi non pochi salottini e l’establishment. La sua Fiat era diventata nemica a sinistra, sebbene abbia salvato il posto di lavoro di 4700 lavoratori di Pomigliano D’arco, 3800 lavoratori di Mirafiori, 7500 lavoratori di Melfi, 4300 lavoratori di Cassino e 3000 lavoratori di Grugliasco. Ma non avrei mai pensato che il Manifesto, questo rottame del giornalismo, avrebbe mai potuto gioire per la sua malattia mortale. (Giulio Meotti)
ManifMarchionne
Traduzione: Marchionne ha salvato la Fiat ma a noi del Manifesto non ha mai dato una lira, a differenza dei suoi predecessori. Sembriamo impietosi? Business is business. (Marco Taradash)

E sciacalli is sciacalli: privi, a differenza di leoni tigri giaguari, della forza e del coraggio di procurarsi il nutrimento onestamente e autonomamente, preferiscono nutrirsi di cadaveri dopo che qualcun altro – in questo caso la malattia – ha fatto il lavoro sporco. Possano imputridire nel loro putridume.

barbara

USO SPROPORZIONATO DELLA FORZA

Condanne

Tra cento milioni di anni, quando l’umanità si sarà ormai estinta da tempo immemorabile – niente è eterno, per fortuna -, una civiltà di extraterrestri scenderà sulla Terra, scoprirà il nostro mondo scomparso e, mossa da curiosità, inizierà a studiarlo. E si produrranno così ricerche, libri, documentari, tesi di laurea sulla vita dei terrestri.
Un giorno un professore di logica e linguaggio terrestre chiamerà a colloquio un suo laureando, incaricato di svolgere un elaborato sul tema: “Condanne dell’uso sproporzionato della forza”. Il professore chiederà informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori:
“Allora, come procediamo?”
“Spero bene, Prof., sono un po’ indietro, ma spero di laurearmi in tempo. Seguendo il Suo consiglio, ho fatto una ricerca su tutte queste strane condanne, che i terrestri facevano a cadenza ritmica, denunciando questo presunto uso sproporzionato della forza, chiedendo il rispetto della proporzionalità. Nessuno, pare, ha mai capito che senso avessero, a cosa servissero, spero di trovare qualche risposta.”
“Quante condanne hai trovato?”
“Molte, Prof., anche se, certamente, ancora di più sono andate distrutte.”
“Allora, forse, l’argomento è troppo impegnativo, non ce la farai a laurearti in tempo, se devi leggere tutte queste condanne…”
“Questo non dovrebbe essere un problema, Prof., perché le condanne, in realtà, sembrano tutte uguali. Dicevano sempre la stessa cosa: condanniamo l’uso sproporzionato della forza, condanniamo l’uso sproporzionato della forza ecc. ecc.”
“Ma hai capito che cosa sarebbe, secondo loro, un uso proporzionato? Da noi non esiste un concetto analogo, pare.”
“Non è proprio chiaro, sembrerebbe voler dire questo: se due litigano, e uno dà una botta all’altro, quello che è colpito deve rispondere in modo proporzionale. Chi riceve la botta, ne deve restituire solo una, non due.”
“Strano, da noi questo non c’è mai stato, i terrestri facevano così?”
“No, Prof., assolutamente mai, facevano sempre l’esatto contrario, per questo questa storia delle condanne suona strana. Un’ipotesi che sto contemplando è che, per un certo periodo, ci sia stato sulla terra un popolo grandissimo, potentissimo, fortissimo, che avrebbe angariato e vessato tutti gli altri, disarmati, piccoli e deboli, colpendoli di continuo. Per questo ci sarebbero state tutte queste condanne, come a dire: popolo grandissimo, potentissimo e fortissimo, fai un uso proporzionato della tua immensa grandezza, potenza e forza, per favore, non approfittarne per vessare di continuo tutti gli altri, che sono innocui, inermi e indifesi.”
“Interessante. Potrebbe trattarsi di uno di quei grandi imperi, forti e potenti, che hanno dominato per tanto tempo: quelli che si chiamavano, mi pare, babilonesi, persiani, romani… Hai controllato se c’è qualche riscontro?”
“Ho cercato, Prof., ma non ho trovato nessuna traccia di condanne nei confronti di questi qua, e neanche di tutte le altre grandi potenze venute dopo.”
“Ma allora, queste condanne all’uso sproporzionato della forza a chi si riferivano?”
“Non è chiaro, Prof., perché i documenti sono lacunosi, molte parole sono saltate… Ho trovato molte volte la frase ‘condanniamo l’uso sproporzionato della forza…’, ma non si capisce da parte di chi, nei confronti di chi.”
“Ma allora siamo in un vicolo cieco…”
“In verità, Prof., avrei trovato un piccolo frammento, da cui sembrerebbe potersi risalire al destinatario delle condanne… Solo un piccolo ritaglio, e danneggiato, ma potrebbe essere una traccia.”
“Ah, e cosa dice?”
“In realtà, è strano, ma, in questo frammento sembrerebbe che il destinatario delle condanne sarebbe stato un Paese piccolissimo, circondato da molti vicini, infinitamente più grandi e numerosi, che lo aggredivano continuamente…”
“Ma forse vuoi dire il contrario, ossia che i terrestri condannavano i molti vicini, grandi e potenti, per la loro aggressività verso il piccolo Paese…”
“No, Prof., il frammento sembrerebbe affermare proprio quello che ho detto: la condanna sembra essere rivolta solo contro il piccolo aggredito, non contro i numerosi grandi aggressori.”
“Ma sei sicuro?”
“Beh, così sembrerebbe dal documento.”
“Ma allora è impossibile, deve esserci uno sbaglio, una corruzione del testo. Senti, lascia stare, secondo me abbiamo sbagliato a scegliere questo argomento. È vero che i terrestri erano una civiltà primitiva, ma, a modo loro, una forma di logica, sia pure allo stato embrionale, ce l’avevano (come ho scritto in quel mio libro, avevano probabilmente conosciuto quello che noi chiamiamo il “pre-proto-pensiero”). Questa tua ipotesi, perciò, non regge, le condanne resteranno un quesito insoluto, forse erano dei messaggi cifrati in codice, che non ci è dato decrittare. Scegliamo un altro tema, ne ho uno per le mani molto interessante, sul valore del silenzio nel linguaggio dei terrestri. Ti piace?”
“Che vuol dire, Prof.?”
“Vuol dire che i terrestri, in genere, hanno dato il meglio di sé quando sono stati zitti. Si tratta di spiegare come mai, quando parlavano, dicevano, quasi sempre, fesserie, mentre, quando tacevano, sembravano più intelligenti. Ti va, come argomento?”
“Ottimo, Prof., grazie, Prof.”.

Francesco Lucrezi, storico, Moked, ‍‍23/05/2018

Meglio di così non si potrebbe dire. Poi, per completare il discorso, penso valga sempre la pena di rileggere questo pezzo di nove anni e mezzo fa parole in libertà.

barbara

ERANO RAGAZZI IN BARCA

La barca è quella del canottaggio; i ragazzi sono quelli che, sfida vinta dopo sfida vinta, finiscono per approdare a Berlino, nel ’36. Che cos’è che fa di questo libro un libro eccezionale? Pagine come questa, per esempio

Il canottaggio agonistico è un’impresa di straordinaria bellezza preceduta da un crudele castigo. A differenza di molti sport che si concentrano su specifici gruppi muscolari, il canottaggio fa un uso massiccio e reiterato praticamente di ogni muscolo del corpo, anche se un rematore, per dirla con Al Ulbrickson, «si dimena sulla sua appendice posteriore». E il canottaggio impone questi sforzi muscolari non a intervalli saltuari ma in rapida sequenza, per un periodo di tempo prolungato, ripetutamente e senza tregua. Una volta, dopo aver guardato allenarsi le matricole della Washington, Royal Brougham del «Seattle Post-lntelligencer» si meravigliò di quanto fosse implacabile questo sport: «Nessuno chiede mai il time out in una gara di canottaggio» osservò. «Non c’è un posto dove fermarsi per bere un’appagante sorsata d’acqua o prendere una boccata d’aria fresca e corroborante. Devi tenere sempre gli occhi fissi sul collo rosso e sudato del compagno davanti a te e vogare finché ti dicono che è finita.  Ragazzi, non è uno sport per rammolliti.»
Durante la voga, i principali muscoli di braccia, gambe e schiena – in particolare quadricipiti, tricipiti, bicipiti, deltoidi, grandi dorsali, addominali, ischiocrurali e glutei – svolgono gran parte del lavoro più duro, spingendo in avanti la barca contro la resistenza implacabile di acqua e vento. Al tempo stesso, svariati muscoli più piccoli del collo, dei polsi, delle mani e perfino dei piedi sincronizzano in continuazione gli sforzi del corpo, garantendogli un bilanciamento costante per assicurare il delicato equilibrio necessario a mantenere stabile un’imbarcazione larga 60 centimetri, pressappoco quanto il girovita di un uomo. Il risultato di tutto questo sforzo muscolare, in grande e in piccolo, è che il corpo brucia calorie e consuma ossigeno a un ritmo che non ha eguali quasi in nessun’altra attività umana. Per l’esattezza, i fisiologi hanno calcolato che una gara di canottaggio di 2000 metri – lo standard olimpico – richiede lo stesso costo fisiologico di giocare due partite di basket consecutive. E lo richiede in circa sei minuti.
Un vogatore o una vogatrice in buone condizioni che gareggia ai massimi livelli deve essere in grado di incamerare e consumare fino a 8 litri di ossigeno al minuto; un uomo medio è in grado di incamerarne dai 4 ai 5 litri al massimo. In proporzione, i vogatori olimpici possono incamerare e processare tanto ossigeno quanto un purosangue da corsa. Va precisato che questo straordinario apporto di ossigeno è utile fino a un certo punto. Mentre il 75-80 percento dell’energia prodotta da un vogatore in una gara sui 2000 metri è energia aerobica alimentata dall’ossigeno, tutte le gare cominciano, e di solito terminano, con sprint durissimi. Questi scatti rendono necessaria una produzione di energia che eccede di gran lunga la capacità del corpo di generare energia aerobica, a prescindere dall’apporto di ossigeno. Pertanto, il corpo deve immediatamente produrre energia anaerobica. Questa, a sua volta, genera grandi quantitativi di acido lattico, che si accumula rapidamente nel tessuto muscolare. La conseguenza è che spesso i muscoli cominciano a fare un male terribile all’inizio di una gara e continuano fino alla fine. (pp.49-50)

O questa

La soffitta era luminosa e ariosa, con la luce del mattino che si diffondeva da una schiera di ampie finestre sulla parete in fondo. L’aria era densa della fragranza dolce e pungente di vernice marina. Sul pavimento c’erano cumuli di segatura e trucioli di legno. Una lunga trave a doppia T percorreva la stanza quasi in tutta la sua lunghezza, e sopra era appoggiata l’intelaiatura di un otto in costruzione.
Pocock si mise a spiegargli i vari attrezzi che usava. Gli mostrò le pialle, con i manici di legno usurati dai decenni di utilizzo e le lame talmente affilate e precise da affettare trucioli di legno sottili e trasparenti come carta velina. Gli porse una sfilza di vecchi raschietti, verrine, scalpelli, lime e mazzole che aveva portato con sé dall’Inghilterra. Alcuni, disse, avevano almeno un secolo. Spiegò che ogni tipo di strumento aveva molte varianti, che ogni lima, per esempio, era leggermente diversa dall’altra, che ciascuno aveva una funzione diversa ma erano tutti indispensabili per realizzare una barca di prima qualità. Condusse Joe a uno scaffale di legname e tirò fuori campioni dei diversi tipi di legno che usava: il Pinus lambertiana, morbido e malleabile; il duro peccio rosso; il cedro fragrante; il candido frassino bianco. Li tenne sollevati a uno a uno e li esaminò, rigirandoli tra le mani e parlando delle proprietà peculiari di ciascuno e di come servissero tutte le loro qualità individuali per costruire una barca da competizione capace di prendere vita in acqua. Afferrò una lunga asse di cedro da uno scaffale e fece notare gli anelli di accrescimento annuali. Joe aveva imparato parecchio sulle qualità del cedro e sugli anelli nel periodo passato a tagliare scandole con Charlie McDonald, ma era completamente assorbito mentre Pocock spiegava quel che significavano per lui.
Joe si accovacciò accanto al costruttore e lo ascolto con attenzione, studiando il legno. Pocock disse che gli anelli svelavano più della semplice età di un albero; ne raccontavano l’intera storia, che talvolta tornava indietro di duemila anni. La successione di anelli spessi e sottili rimandava ad anni difficili di dura lotta alternati ad anni prosperi di crescita improvvisa. I colori diversi rimandavano ai vari tipi di terreno e di minerali incontrati dalle radici: alcuni secchi, che ne avevano arrestato lo sviluppo, altri ricchi e nutritivi. I difetti e le irregolarità erano segno che gli alberi avevano sopportato incendi, fulmini, tempeste di vento e infestazioni, eppure avevano continuato a crescere.
Mentre Pocock parlava, Joe era incantato. Ad attrarlo non erano soltanto le parole dell’inglese o la sua cadenza schietta e soave, ma anche la pacata riverenza con cui parlava del legno, come se avesse qualcosa di sacro e inviolabile. Il legno, mormorò Pocock, ci insegna a sopravvivere, a superare le difficoltà, a vincere le avversità, ma ci insegna anche qualcosa sul motivo implicito della stessa sopravvivenza. Qualcosa sulla bellezza infinita, sulla grazia eterna, su cose più grandi e importanti di noi. Sui motivi per cui ci troviamo tutti qui.
«lo posso creare una barca, certo» disse. Poi aggiunse, citando il poeta ]oyce Kilmer: «”Ma solo Dio può creare un albero”». A quel punto tirò fuori una sottile lamina di cedro dello spessore di appena 9 millimetri e mezzo, di quelle che rivestivano le barche. Fletté il legno e disse a Joe di fare altrettanto. Parlò della bombatura e della vitalità che il legno impartiva a una barca quando era in tensione. Parlò della forza innata delle singole fibre di cedro che, abbinata alla loro resilienza, conferiva al legno la capacità di scattare e recuperare la forma, intero e intatto, o di come le fibre, esposte al vapore e alla pressione, potessero assumere una nuova conformazione e mantenerla per sempre. La capacità di cedere, di piegarsi, di mollare, di adattarsi, disse, talvolta era una fonte di forza anche per gli uomini oltre che per il legno, a patto che fosse governata da una fermezza interiore e da saldi principi.
Portò Joe a un’estremità della lunga trave a doppia T sulla quale stava costruendo l’intelaiatura per una nuova barca da competizione. Pocock scrutò la chiglia di legno per il lungo e invitò Joe a fare lo stesso. Doveva essere perfettamente rettilinea, spiegò, per tutti i suoi 18 e più metri, non un centimetro di differenza da un capo all’altro, altrimenti la barca non sarebbe mai andata dritta, una volta in acqua. E quella precisione poteva derivare soltanto dal suo costruttore, dalla cura con cui esercitava la sua arte, da quanto cuore vi metteva.
Pocock si interruppe, indietreggiò dall’intelaiatura e mise le mani sui fianchi, osservando con attenzione il lavoro compiuto sino ad allora. Disse che per lui l’arte di costruire una barca era come una religione. Non era sufficiente padroneggiarne i dettagli tecnici. Bisognava dedicarvisi spiritualmente, abbandonarvisi totalmente. Quando il lavoro era finito e ci si allontanava dalla barca, bisognava avere la sensazione di averle lasciato una parte di sé per sempre, un pezzetto del proprio cuore. Si rivolse a Joe. «Per il canottaggio» disse «vale lo stesso. E anche per molte cose della vita, perlomeno i momenti che contano davvero. Capisci cosa intendo, Joe?» Joe annuì con esitazione, un po’ nervoso e non del tutto convinto, poi tornò di sotto e riprese a fare gli addominali, sforzandosi di capirci qualcosa. (pp.259-261)

O questa

Anche Bobby Moch ebbe un’improvvisa rivelazione. Successe mentre sedeva all’ombra di un albero in un campo a Travers Island e apriva una busta. Conteneva una lettera del padre, quella che Bobby gli aveva chiesto, con gli indirizzi dei parenti che sperava di visitare in Europa. Ma conteneva anche una seconda busta sigillata sulla quale era scritto: «Leggila in privato». Ora, mentre sedeva allarmato sotto l’albero, Moch aprì la seconda busta e ne lesse il contenuto. Quando ebbe finito, aveva il viso rigato di lacrime.
La notizia era abbastanza innocua per gli standard del Ventunesimo secolo, ma considerando le tendenze sociali nell’America degli anni Trenta fu un profondo shock. Quando avesse incontrato i parenti in Europa, spiegò Gaston Moch al figlio, sarebbe venuto a sapere per la prima volta che lui e la sua famiglia erano ebrei.
Bobby rimase seduto a lungo sotto l’albero a meditare, non perché si era improvvisamente scoperto membro di quella che all’epoca era ancora una minoranza molto discriminata, ma perché, assimilando la notizia, aveva compreso per la prima volta l’atroce sofferenza che il padre doveva essersi portato dentro in silenzio per tutti quegli anni. Per decenni il padre si era convinto che per tirare avanti in America fosse necessario nascondere una parte fondamentale della sua identità ad amici, vicini di casa e perfino ai suoi figli. Bobby era stato educato a trattare gli altri sulla base delle loro azioni e del loro carattere, non di stereotipi. Era stato proprio il padre a insegnarglielo. Adesso era devastante scoprire che non si era sentito abbastanza al sicuro da seguire quel semplice suggerimento, che aveva tenuto dolorosamente nascosto il suo retaggio, come un segreto di cui vergognarsi, perfino in America, perfino con l’amato figlio. (pp.352-353)

O questa

Gli sembrò uno dei posti più pacifici che avesse mai visto.
Non poteva conoscere il segreto sanguinoso che si celava dietro Köpenick e le sue placide acque. (p.376)

L’indomani, dopo pranzo, i ragazzi gironzolarono per la città scherzando, curiosando nei negozi, usando le loro nuove macchine fotografiche, comprando qualche souvenir, esplorando angoli di Köpenick che non avevano ancora visto. Come gran parte degli americani a Berlino quell’estate, erano giunti alla conclusione che la nuova Germania fosse un luogo molto gradevole. Era pulita, la gente era fin troppo cordiale, tutto funzionava a dovere e con efficienza, e le ragazze erano carine. Köpenick era piacevolmente pittoresca; Grünau era verde, frondosa e con un fascino rustico. Erano cittadine amene e pacifiche quasi quanto quelle nello Stato di Washington.
Ma c’era una Germania che i ragazzi non potevano vedere, una Germania nascosta ai loro occhi, di proposito o per questioni di tempo. Non si trattava solo dei cartelli rimossi – FÜR JUDEN VERBOTEN, JUDEN SIND HIER UNERWÜNSCHT -, degli zingari radunati e portati via o del violento «Der Stürmer» ritirato dagli scaffali delle tabaccherie di Köpenick. C’erano segreti più grandi, oscuri e pervasivi tutt’intorno a loro. Non sapevano nulla dei rivoli di sangue che avevano macchiato le acque del fiume Spree e del Langer See nel giugno 1933, quando le squadre d’assalto delle SA avevano radunato centinaia di ebrei, socialdemocratici e cattolici di Köpenick, torturandone novantuno fino alla morte: ne avevano pestato qualcuno fino a spaccargli i reni o a squarciargli la pelle, poi avevano versato catrame rovente sulle ferite prima di gettare i corpi mutilati nei tranquilli corsi d’acqua della cittadina. Non potevano vedere il vasto campo di concentramento di Sachsenhausen in costruzione quell’estate a nord di Berlino, dove di lì a poco sarebbero stati rinchiusi oltre duecentomila ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, zingari e infine prigionieri di guerra sovietici, civili polacchi e studenti universitari cechi, e dove decine di migliaia di loro avrebbero trovato la morte. (pp. 404-405)

O questa cronaca mozzafiato

Le barche si stavano avvicinando al segnale dei 500 metri, il primo quarto di gara, con Svizzera, Gran Bretagna e Germania in lotta serrata per la prima posizione, seguite a distanza da Stati Uniti e Italia. L’Ungheria era ultima. Eccetto i britannici, il gruppo di testa si stava avvicinando alla zona riparata a ridosso della sponda meridionale, dove l’acqua era quasi piatta. La barca americana aveva solo una lunghezza di ritardo ma era ancora nel punto più ampio del lago, in lotta contro il vento implacabile e massacrante, con l’acqua che schizzava dai remi a ogni rilascio. Un dolore lento e bruciante cominciò a pulsare nelle braccia e nelle gambe dei ragazzi, irradiandosi lungo la schiena. Molto lentamente iniziarono a perdere terreno. Ai 600 metri avevano una lunghezza e mezzo di ritardo. Agli 800 erano di nuovo ultimi. Le loro pulsazioni si alzarono a 160 o 170 battiti al minuto.
Nelle acque protette della seconda corsia, d’un tratto l’Italia rimontò e conquistò un leggero vantaggio sulla Germania. Mentre la prua della barca italiana superava il segnale dei 1000 metri a metà del tracciato, una campana informo gli spettatori al traguardo che i concorrenti si stavano avvicinando. Settantacinquemila persone si alzarono in piedi, e per la prima volta intravidero le barche che avanzavano verso di loro lungo la grigia distesa del Langer See come tanti ragni lunghi e sottili. Sulla balconata della Haus West, Hitler, Goebbels e Göring si premettero il binocolo contro gli occhi. Sulla balconata della rimessa lì accanto, Al Ulbrickson vide la Husky Clipper avanzare nella corsia più esterna accanto alla barca britannica. Alberi e edifici gli impedivano di vedere le corsie e le barche più vicine. Per un momento, dal punto in cui si trovava, sembrava che i suoi ragazzi e i britannici fossero soli al comando, in fuga. Poi sentì l’addetto stampa annunciare i parziali sui 1000 metri. La folla esplose. L’Italia era al comando, ma aveva un solo secondo di vantaggio sulla Germania, al secondo posto. La Svizzera era in terza posizione, a un secondo dalla Germania. L’Ungheria era quarta. La Gran Bretagna era finita in coda al gruppo, contendendosi sostanzialmente l’ultimo posto con gli Stati Uniti. I ragazzi di Ulbrickson avevano quasi cinque secondi di ritardo dal gruppo di testa.
[…]
Al segnale dei 1500 metri, la Germania riconquistò il primo posto superando l’Italia. Un altro enorme ruggito si levò dalla folla ormai vicina. Poi le grida si tramutarono in un coro – «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» – sincronizzato con il ritmo della barca tedesca. In balconata, Hitler guardava da sotto la visiera del cappello e si dondolava avanti e indietro a tempo con la cantilena. Finalmente, Al Ulbrickson riuscì a vedere la squadra tedesca e quella italiana, che sfrecciavano a ridosso della sponda, chiaramente in testa, ma le ignorò e puntò gli occhi grigi sulla barca americana, all’estremità opposta del lago, cercando di leggere nella mente di Bobby Moch. Quella gara cominciava a somigliare a Poughkeepsie. Ulbrickson non sapeva se fosse un buon segno o un brutto segno.
[…]
Moch tornò a urlare: «Dobbiamo recuperare ancora una lunghezza, seicento metri!». I ragazzi si piegarono sui remi. La frequenza salì a trentasei, poi a trentasette. Quando il gruppo superò il segnale dei 1500 metri, la Husky Clipper era passata dal quinto al terzo posto. A riva, sulla balconata della rimessa, le speranze di Al Ulbrickson si riaccesero in silenzio vedendo la barca rimontare, ma la rimonta sembrò esaurirsi quando i ragazzi erano ancora lontani dalla testa della gara.
A 500 metri dal traguardo avevano ancora quasi una lunghezza piena di ritardo su Germania e Italia. Svizzeri e ungheresi avevano completamente mollato. l britannici stavano tornando all’attacco, ma anche questa volta Ran Laurie, con il suo remo a pala stretta, non aveva abbastanza presa sull’acqua per aiutare i compagni a contrastare il vento e le onde. Moch ordinò a Hume di aumentare appena la frequenza. Dalla parte opposta del campo, Wilhelm Mahlow, il timoniere della Germania, diede l’identico comando a Gerd Völs, il capovoga. Il trentenne Cesare Milani, sulla barca italiana, gridò la stessa direttiva al suo capovoga, Enrico Garzelli. L’Italia guadagnò qualche altro centimetro.
Mentre il Langer See si restringeva verso la dirittura d’arrivo, la Husky Clipper entrò in un punto più riparato dal vento, protetto sui due lati da alti alberi e edifici. La partita era aperta. Bobby Moch rimise il timone parallelo allo scafo, e finalmente la Clipper non ebbe più freni. Ora che il tracciato era lo stesso per tutti e Don Hume era di nuovo in vita, i ragazzi tornarono alla carica a 350 metri dal traguardo, recuperando il gruppo di testa un carrello dopo l’altro. A 300 metri, la prua della barca americana era quasi alla pari con quella tedesca e quella italiana. In prossimità degli ultimi 200 metri, i ragazzi passarono in testa di un terzo di lunghezza. Un fremito di apprensione scosse la folla.
Bobby Moch diede un’occhiata all’enorme cartello bianco e nero con la scritta ZIEL al traguardo. Si mise a calcolare quanto avrebbe dovuto chiedere ai ragazzi per essere sicuro di precedere le barche alla sua sinistra. Era tempo di cominciare a mentire.
Moch gridò: «Altri venti colpi!». Si mise a contarli: «Diciannove, diciotto, diciassette, sedici, quindici… Venti, diciannove…». Ogni volta che arrivava a quindici ripartiva da venti. Storditi, convinti di essere ormai giunti al traguardo, i ragazzi misero tutti se stessi in ogni palata, vogando come forsennati, impeccabili e straordinariamente eleganti. I remi si piegavano come archi, le pale entravano e uscivano dall’acqua pulite, lisce, efficienti, lo scafo unto d’olio di balena avanzava silenzioso tra un colpo e l’altro, la prua appuntita di cedro fendeva le acque scure, barca e uomini procedevano uniti, scattando furiosamente in avanti come una creatura vivente.
Poi entrarono in un mondo caotico. Erano in piena volata, vicino ai quaranta colpi al minuto, quando sbatterono contro un muro di suono. D’un tratto si trovarono di fianco alle enormi gradinate di legno sulla sponda nord del tracciato, a non più di tre metri dalle migliaia di spettatori che urlavano all’unisono: «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!». Il boato si rovesciò addosso ai ragazzi, riverberandosi da una sponda all’altra e soffocando del tutto la voce di Bobby Moch. Nemmeno Don Hume, che sedeva ad appena mezzo metro da lui, riusciva a capire cosa stesse sbraitando. Il rumore li assalì, li disorientò. Dall’altra parte del campo, la barca italiana tentò un’altra rimonta. Lo stesso fece quella tedesca, ed entrambe superarono i quaranta colpi al minuto. Guadagnarono faticosamente terreno, portandosi alla pari con gli americani. Bobby Moch li vide e gridò in faccia a Hume: «Accelera! Accelera! Dovete dare tutto quello che avete!». Nessuno riuscì a sentirlo. Stub McMillin non capiva cosa stesse succedendo, ma qualunque cosa fosse non gli piaceva. Lancio un’imprecazione nel vento. Neanche Joe sapeva cosa stesse succedendo, sentiva solo un dolore mai provato prima in barca: lame roventi penetravano nei tendini di braccia e gambe e fendevano la sua larga schiena a ogni colpo; ogni respiro disperato gli bruciava i polmoni. Fisso gli occhi sulla nuca di Hume e si concentrò sulla semplice, crudele necessità di dare un’altra palata.
Sulla balconata della Haus West, Hitler abbassò il binocolo lungo il fianco. […] Sulla balconata accanto, l’impassibile Al Ulbrickson era immobile e inespressivo, con una sigaretta in bocca. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe visto Don Hume crollare sul remo. […]
Moch guardò a sinistra, vide i tedeschi e gli italiani tornare alla carica e capì che in qualche modo i ragazzi avrebbero dovuto aumentare ancora il ritmo e dare ancora più di quanto stavano dando, anche se sapeva che era già il massimo. Lo capiva dai loro volti, dalla smorfia contorta di Joe, dagli occhi sgranati e attoniti di Don Hume, che sembravano guardare oltre, verso un vuoto insondabile. Afferrò gli agugliotti di legno legati ai cavi del timone e cominciò a sbatterli contro le assi di eucalipto fissate ai due lati dello scafo. Anche se i ragazzi non potevano sentirlo, forse avrebbero avvertito le vibrazioni.
Le avvertirono. E ne colsero subito il significato: erano il segnale che avrebbero dovuto fare l’impossibile, aumentando ancora il ritmo. Da qualche parte, nel profondo, ognuno di loro si aggrappò agli ultimi brandelli di energia e volontà che non sapeva neppure di avere. l loro cuori pompavano a quasi 200 battiti al minuto. Erano andati oltre la spossatezza, oltre quello che i loro corpi avrebbero potuto sopportare. Il minimo errore di uno di loro avrebbe portato a prendere un granchio, e sarebbe stata una catastrofe. Nella grigia oscurità sotto le tribune piene di volti urlanti, le loro pale bianche guizzavano dentro e fuori dall’acqua.
Era un testa a testa, adesso. Sulla balconata, Al Ulbrickson spezzò in due la sigaretta con i denti, la sputò, saltò su una sedia e  si mise a gridare a Moch: «Oral Ora! Oral». Da qualche parte una voce strillava isterica da un altoparlante: «ltalien! Deutschland! Italien! Achh… Amerika! Italien!». Le tre barche sfrecciarono verso la linea del traguardo, alternandosi al comando. Moch batté sulle assi di eucalipto più forte e più in fretta che poteva, sparando una raffica di colpi sulla poppa della barca come una mitragliatrice. Hume portò la frequenza sempre più in alto, finché i ragazzi non raggiunsero i quarantaquattro. Non avevano mai vogato così forte, non credevano nemmeno che fosse possibile. Passarono leggermente in vantaggio, ma gli italiani si avvicinarono di nuovo. I tedeschi erano alla pari con loro. «Deutsch-land! Deutsch-land! Deutsch-land!» rimbombava nelle orecchie dei ragazzi. Bobby Moch si mise a cavalcioni della poppa e si sporse in avanti, battendo il legno e gridando parole che nessuno poteva sentire. I ragazzi diedero un’ultima, potente palata e spinsero la barca oltre la linea. Nell’arco di un unico secondo tedeschi, italiani e americani tagliarono il traguardo.
[…]
Qualcuno sussurrò: «Chi ha vinto?». Roger Morris gracchiò: «Be’… noi… credo». (pp.420-426)

Che non può non richiamare alla memoria la mitica, indimenticabile telecronaca di Giampiero Galeazzi a Seul, 1988. 

E infine questa nota personale dell’autore

Nell’agosto del 2011 andai a Berlino per vedere il luogo in cui i ragazzi avevano vinto l’oro settantacinque anni prima.
[…]
Mentre ero lì a guardare quei ragazzi, mi resi conto che settantacinque anni prima Hitler, osservando Joe e i compagni rimontare dal fondo del gruppo fino a superare Italia e Germania, aveva intravisto senza riconoscerli i segnali della sua condanna. Non poteva sapere che un giorno centinaia di migliaia di ragazzi come quelli, ragazzi che condividevano la loro stessa indole – onesti e modesti, non privilegiati né favoriti da qualcosa in particolare, semplicemente leali, impegnati e perseveranti -, sarebbero tornati in Germania con uniformi verde oliva per dargli la caccia.
Se ne sono andati quasi tutti, ormai, i tantissimi giovani che hanno salvato il mondo prima che io nascessi. Ma quel pomeriggio, sulla balconata della Haus West, provai un moto di gratitudine per la loro bontà e la loro grazia, per l’umiltà e l’onore, per la loro semplice civiltà e per tutte le cose che ci hanno insegnato prima di solcare le acque della sera e, finalmente, svanire nella notte. (pp.445-446)

È un libro di quelli che lasciano il segno, questo. Di quelli che li chiudi e poi ci mediti sopra. Di quelli che dopo un anno e dopo dieci ricordi perfettamente, e ricordi ogni singolo personaggio, ogni sua caratteristica, ogni suo segreto nascosto.
Ah, stavo quasi per dimenticare: in questo libro bisogna leggere anche i ringraziamenti; non lo faccio mai, ma qui bisogna proprio farlo, e se leggerete il libro e poi i ringraziamenti, capirete perché.

Daniel James Brown, Erano ragazzi in barca, Mondadori
ragazzi in barca
barbara