SMONTIAMO UN PO’ DI MITI E LEGGENDE

Gli ospedali intasati
Luigi Cavanna ci spiega perché sono intasati, e perché non dovrebbero esserlo.

«Il covid si cura e si cura a casa. Svuotate gli ospedali»

In maggio conquistò la copertina del Time per la cura domiciliare del covid. Oggi il dottor Luigi Cavanna dell’ospedale di Piacenza è in prima linea per dire che «dobbiamo svuotare gli ospedali». «Prima capiamo che il coronavirus va curato a domicilio, prima risolveremo questa pandemia. La risposta ospedalo-centrica è sbagliata». La Bussola intervista l’oncoematologo: «I malati abbandonati chiamano il Pronto soccorso e gli ospedali si riempiono. È l’errore da evitare». I 5 stadi del covid e fin dove può spingersi il medico a casa. «Oggi si ricovera per polmoniti lievi, ma fino a livello tre si può gestire nelle abitazioni. Il governo ripensi l’assistenza sul territorio subito se non vuole trovarsi a curare nelle chiese». 

«Il covid si cura e si cura a casa. Il governo deospedalizzi i ricoverati, la situazione è critica perché si stanno riempiendo i reparti senza criterio e senza considerare che le stesse cure le possono ricevere a casa». Il dottor Luigi Cavanna, primario di oncoematologia all’ospedale di Piacenza fino a pochi giorni fa era un eroe. La copertina che gli aveva dedicato a maggio il Time per le sue cure domiciliari ai malati di covid lo proiettava nell’alveo dei “medici esemplari”. Ma è bastato che ricevesse le attenzioni stizzite del professor Burioni per essere coinvolto nelle stucchevoli polemiche tra scienziati. Ma Cavanna non è mai cambiato: ha continuato a fare quello che faceva dal 21 febbraio, da quando, come dirà in questa intervista alla Bussola «il covid ci ha sconvolto la vita». Ed è a Piacenza che la Bussola lo ha incontrato, col camice bianco e le chiavi della macchina pronte per partire da un nuovo malato. Rigorosamente a casa. 

Professore, si è fatto un’idea della polemica con Burioni?
Ma la polemica l’ha ingaggiata lui, non io. E comunque io non ho problemi, sono al mio posto a curare il covid, come sempre. 

Perché ce l’aveva con lei?
Senta, io faccio l’oncologo e Burioni è fuori dal mio ambito di comunità scientifica.

Eppure, si è lamentato per l’uso della idrossiclorochina perché lei non avrebbe – dice lui – mai pubblicato nulla.
Sciocchezze. Nessuno ha pubblicato ancora nulla. La comunità scientifica ha bisogno di tempi lunghi, di verifiche, di follow up, di comparazioni. E noi stiamo parlando di un virus che qui in Occidente non ha neanche un anno di vita.

E quindi quello che si dice del covid a livello scientifico?
Il 21 febbraio ci è arrivata in testa una condizione mai conosciuta prima, che ci ha stravolto la vita. Quindi applicare una metodologia di risposta ordinaria a una cosa straordinaria è assurdo e sbagliato dal punto di vista medico. Ma mi faccia dire una cosa sulle mie pubblicazioni scientifiche.

Prego.
Nella mia vita professionale e lavorando non a Houston, ma a Piacenza, sono riuscito a produrre più di 250 lavori scientifici censiti. Ma per il covid ho scelto un’altra strada, più diretta e concreta utilizzando i media generalisti.

Per dire cosa?
Che più velocemente ci rendiamo conto che il covid va curato a domicilio, prima risolveremo questa pandemia.

Veniamo allora alla sostanza.
Primo: il covid è una malattia infettiva che provoca come complicanza la polmonite. Più precocemente viene curata, più si hanno risultati buoni e meno le persone peggiorano e questo lo abbiamo toccato con mano.

Lapalissiano…
Non per tutti. In tv sento parlare di pronto soccorso e reparti che scoppiano.

I dati che ci forniscono sembrano quelli…
Ma se di fronte a una malattia virale dai una risposta ospedalo-centrica sbagli tutto. Noi ce ne siamo accorti.

Quando?
Già ai primi di marzo ci siamo resi conto che in ospedale arrivavano centinaia di malati e questi erano tutti – e dico tutti – con una storia di tosse, febbre e mancanza di fiato che durava da giorni. La gente era a casa, non guariva e poi ad un certo punto non resisteva più e andava al Pronto Soccorso disperata. Così veniva ricoverata, intubata e poteva capitare che morisse.

È la storia di marzo e aprile.
Da lì per noi è scattato l’uovo di Colombo. Ci siamo chiesti: ma queste persone quando sono in ospedale che cura ricevono? Somministravamo inizialmente antivirale e idrossiclorochina mattina e sera, tre pastiglie e ci siamo detti: ma se noi queste pastiglie le diamo 15 giorni prima può cambiare qualcosa? Possono non intasare gli ospedali? Se portiamo queste cure a casa non è meglio? Così siamo partiti con una squadra.

Somministrazione precoce alla comparsa dei primi sintomi?
Fon-da-men-ta-le! I cinesi dicono che se gli antivirali sono somministrati precocemente molto facilmente non si innesca quel processo infiammatorio che si chiama “tempesta citochinica”. Abbiamo visto che se si interviene precocemente si blocca la risposta iper-immunitaria e i polmoni non vengono devastati. E quando poi abbiamo scoperto i benefici dell’eparina abbiamo chiuso il cerchio.

Arrivati nelle case?
Abbiamo cominciato ad andare nelle abitazioni a Piacenza con una metodica approvata: un medico e un’infermiera con un ecografo e il tampone: fatta la diagnosi di covid lasciavamo un saturimetro e i farmaci. In questo modo abbiamo curato tante persone con una risposta favorevole. Dopo 15 giorni, abbiamo rafforzato le equipe e siamo arrivati a sette su tutto il territorio di Piacenza.

Quanti pazienti avete raggiunto?
300.

E quanti morti?
Zero.

Zero?
Sì, stiamo monitorando il follow up dei 30 e 60 giorni per la pubblicazione scientifica, ma il risultato è quello.

Ha parlato dell’idrossiclorochina. A che punto è il blocco?
Ho visto che Panorama ha promosso una raccolta di firme, sono già 8000, di medici che chiedono all’AIFA di rivedere le proprie posizioni.

Quanto è importante la clorochina nella cura del covid?
Moltissimo perché ha anche una proprietà immunomodulante oltre che antinfiammatoria. Il nostro organismo reagisce al coronavirus provocando più anticorpi e questo crea la tempesta di cui parlavo prima ed è quella che porta all’aggravarsi della malattia, la clorochina aiuta a regolare la risposta autoimmunitaria del nostro corpo.

Perché allora l’hanno bloccata?
Sulla base di uno studio che si riferiva a complicanze da sovradosaggio, ma qualunque farmaco sovradosato è un veleno. Lo dice la parola stessa. Il nostro dosaggio non ha mai portato a complicanze.

È vero che il virus è più debole?
E’ verosimile, ma questo lo devo dire sottovoce perché non abbiamo ancora le prove. Però è un’evidenza che condividiamo tra medici e soprattutto tra radiologi. Quello che mi sento di dire è che oggi abbiamo una forma di covid che se curata in tempo con cortisone e antibiotico si guarisce.

Ecco, veniamo alle cure. Perché l’antibiotico se si tratta di un virus?
Anzitutto per evitare le conseguenze di sovra infezioni batteriche, ma anche per un altro motivo.

Quale?
Noi somministriamo azitromicina, che è un antibiotico con azione antivirale.

Veniamo alla domanda di questi giorni. Perché si arriva in ospedale?
Perché manca una linea guida a livello centrale che dica: se il malato ha febbre fino a 38 chi lo va a visitare a casa? Nella nostra realtà ci vanno le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), ma non è così in tutt’Italia. I medici di base non hanno protocolli dato che cambiano tutti i giorni. Allora i malati chiamano il Pronto soccorso. È questo l’errore da evitare. Lo ripeto: bisogna curarli a casa. Andando al Pronto Soccorso sa che succede?

Cosa?
Che vengono ricoverati mentre non andranno in ospedale quelli che hanno il cancro o l’infarto o l’ictus con gravi ripercussioni su una fetta di patologia umana.

Quanti malati avete in ospedale a Piacenza?
Pochi, comunque gestibili perché cerchiamo di evitare che arrivino nei nostri reparti, non ce ne sono tanti. Il nostro Pronto Soccorso nello scorso fine settimana non ha ricevuto malati, è la fortuna di lavorare sul territorio.

Per curare a casa però ci vorrebbe un protocollo che non c’è.
Non è vero. I decisori al governo devono smetterla di continuare a parlare di terapie intensive, devono cominciare a dire “curiamoli a casa” altrimenti dovremo riempire le chiese per curarli.

Come si fa a capire se uno può essere curato a casa?
I cinesi hanno codificato cinque stadi. Il primo è quello di della forma asintomatica o paucisintomatica chiamata Mild (blanda).

Cura?
Nessuna.

Il secondo stadio?
Polmonite semplice. Qui si interviene con idrossiclorochina, quando finalmente tornerà possibile e spero presto. In più azitromicina e cortisone, che può essere desametasone o prednisone.

Niente ossigeno?
No. Quello è previsto col terzo stadio, che è la polmonite di moderata gravità.

E si va in ospedale?
No! Ossigeno a domicilio, è sufficiente avere un care giver che si prenda cura del malato a casa. Solo col IV e V stadio, rispettivamente forma severa e quella di pre-collasso, allora si va in ospedale. Come vede la diagnosi medica è fondamentale, non stiamo parlando di automedicazione.

Quindi lei cura a domicilio fino al terzo stadio?
Sì.

E oggi in Italia a che stadio di arriva in ospedale?
Già al secondo stadio. Capisce perché così non si può continuare? In ospedale arrivano malati che possono e devono essere curati a casa. Bisogna invertire immediatamente la tendenza e domiciliare il più possibile il malato.

Che cosa ha detto la comunità scientifica della vostra terapia domiciliare?
I dati devono ancora essere pubblicati, ma posso solo dire che nel mio ambito, l’AIOM, l’associazione italiana di oncologia medica, mi premierà per aver fatto questa attività. È un  premio che mi fa onore, alla memoria di un grande oncologo, Dino Amadori uno dei padri dell’oncologia italiana.

Come si giustifica questo incremento di contagi?
Fisiologico, è la stagione.

Non c’entrano i nostri comportamenti di quest’estate?
No

Perché?
Perché i tempi di incubazione sono di massimo 15 giorni, deve essere stata un’estate molto lunga se i contatti di luglio e agosto si manifestano adesso, non trova?

Andrea Zambrano, 29/10/2020, qui.

Come diceva Bassetti già mesi fa, il governo ha fatto di tutto per terrorizzare la gente, e la conseguenza sarà che al primo raffreddore si precipiteranno tutti all’ospedale e in brevissimo tempo tutti gli ospedali saranno sull’orlo del collasso: fin troppo facile profeta. E a che livello possano arrivare gli effetti di questo terrorismo di stato accuratamente pianificato e meticolosamente attuato da mesi, lo possiamo vedere in questa testimonianza di Angela Francesca Molina, neuropsichiatra infantile, che ci dice anche alcune altre cose interessanti

QUINDI non è vero che la situazione sta ridiventando drammatica, e non è vero che gli ospedali si riempiono a causa di questa presunta drammaticità della situazione: si riempiono perché il governo, con la complicità dei mass media di regime, hanno terrorizzato la popolazione, e le personalità più fragili – come mostrato nel video della cartella verde – si lasciano portare dalla corrente (per quanto mi riguarda, se mi dovessi ammalare, fino a quando riuscirò a respirare da sola mi chiudo in casa, mi prendo le dosi adeguate di antibiotici e cortisone, non dico a nessuno che sono ammalata perché in quel tritacarne non ci voglio finire, e resterò qui fino a quando non sarò guarita. Per tornare a uscire userò il criterio che vale in tutto il mondo civile – e dunque non in Italia – e cioè dopo il quinto giorno senza sintomi mi considererò non più contagiosa e tornerò a uscire). E non solo non è vero che il divieto di praticare sport porterà un miglioramento della situazione sanitaria ma, al contrario, farà solo danni immensi.

E per oggi mi fermo qui; il seguito a domani.

barbara

QUANDO FARSI MALE FA BENE

Un esempio per la pace: un calciatore israeliano e uno iraniano si fanno fotografare insieme

di Nathan Greppi
calciatori-pace
Grande scalpore ha suscitato una foto pubblicata sui social in cui, a essere seduti insieme, sono calciatori di due paesi nemici: Maor Buzaglo, attaccante della Nazionale Israeliana, e Askhan Dejagah, capitano della Nazionale Iraniana.
“Nel calcio esistono regole diverse, e vi è una lingua priva di pregiudizi e di guerre,” ha scritto Buzaglo, che è anche un attaccante del Maccabi Haifa, pubblicando la foto su Facebook, Twitter e Instagram.
Secondo il Jerusalem Post, tutto è successo a Londra, dove entrambi i giocatori erano ricoverati per ferite riportate in campo. Sebbene non abbia condiviso anche lui la foto, Dejagah l’ha commentata sul profilo Instagram di Buzaglo: “Ti auguro di guarire presto, amico mio.”
Nel 2007 Dejagah si rifiutò di giocare contro Israele nei campionati Under 21 in Germania, ma in seguito spiegò che l’ha fatto per paura che il regime lo mandasse in prigione. Infatti, l’Iran proibisce a tutti i suoi atleti e allenatori di competere contro i loro omologhi israeliani.
Proprio questo mese, il capo della Federazione di Wrestling Iraniana ha dato le dimissioni per protestare contro questa politica del suo paese. A febbraio, invece, un judoka israeliano vinse una medaglia di bronzo in un campionato a Dusseldorf perché l’iraniano con il quale doveva misurarsi ha messo su peso apposta per gareggiare in un’altra sezione. Ad agosto, invece, due calciatori iraniani furono espulsi dalla nazionale dopo che, con la squadra greca Panionios, avevano gareggiato contro una squadra israeliana.
Quando, nel 2014, Dejagah venne intervistato dal The Guardian su ciò che avvenne nel 2007, ha dichiarato che è stato tanto tempo fa, e che “mi ha aiutato a crescere. Ma ora guardo solo al futuro.”
(Bet Magazine Mosaico, 26 marzo 2018)

Dato che ci sono alcuni frequentatori recenti di questo blog, che forse non sono a conoscenza dei dettagli che rendono eccezionale questa foto, spiego che agli atleti dei Paese arabi o musulmani è vietato dalla legge dei loro Paesi di gareggiare con atleti israeliani. E che regolarmente in occasione di competizioni internazionali in Europa gli stati arabi chiedono, e molto spesso ottengono, che lo stato di Israele non sia ammesso a gareggiare. Non è perché abbiano paura di essere da loro sconfitti, dato che in caso di rifiuto di battersi la sconfitta viene comunque decretata a tavolino, ma perché gareggiare contro Israele significherebbe riconoscerne l’esistenza, e questo non è ammesso. La legislazione di diversi paesi vieta anche qualunque contatto o vicinanza con cittadini israeliani, come dimostrano le scomuniche di alcune miss comparse in fotografie accanto a una miss israeliana, e come racconta Sharon Nizza in questo fresco resoconto di un incontro di giovani dal Medio Oriente (leggibile se il Cannocchiale funziona, cosa che non sempre accade) e della sua amicizia, dopo un esordio burrascoso, con il rappresentante libanese, della quale l’unica testimonianza possibile, per non far correre a lui seri rischi, è questa foto.
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barbara

ANCORA UNA VOLTA LA POLITICA INFANGA LO SPORT

“La mia famiglia minacciata”
Il ciclista turco lascia la Academy

“Una decisione che ci ha spezzato il cuore”.
Con queste letterali parole la Israel Cycling Academy ha comunicato, nel tardo pomeriggio di ieri, la risoluzione del contratto con il corridore turco Ahmet Orken.
Ad interrompersi è un sodalizio davvero speciale, che prometteva di andare ben oltre la dimensione agonistica. Un atleta turco (e musulmano) ingaggiato dalla prima squadra professionistica israeliana, alla vigilia dell’anno che porterà il Giro d’Italia a Gerusalemme (e con la Academy in lizza per una wild card, che molto probabilmente otterrà). In un Medio Oriente sempre più in frantumi, un messaggio in controtendenza che aveva avuto un forte impatto sull’opinione pubblica.
La richiesta di risoluzione è arrivata da Orken ed è stata motivata, così ha sostenuto l’atleta, “dall’effetto che i recenti eventi hanno avuto su di me e sulla mia famiglia”. Dove per “recenti eventi”, spiega la Academy in una nota, va inteso lo scenario di crisi che si è aperto dopo l’annuncio di Trump su Gerusalemme delle scorse settimane. Tra i paesi più apertamente ostili proprio la Turchia, con il premier Erdogan che si è lasciato andare a dichiarazioni di estrema gravità guidando tra l’altro il fronte che ieri alle Nazioni Unite ha fatto sì che fosse rigettata dall’assemblea (con il sì dell’Italia, insieme ai principali paesi europei) l’iniziativa dell’inquilino della Casa Bianca.
Non a caso, senza entrare troppo nel dettaglio ma lasciando intendere scenari particolarmente inquietanti, Orken ha riferito di “situazioni terribili” che hanno riguardato la madre e il fratello (che vivono in una città dell’Anatolia, Konya).
Ci ha provato in tutti i modi, la Academy, a far cambiare idea all’atleta. Addirittura inviando il proprio general manager Ran Margaliot a casa Orken, dove ha avuto luogo un confronto con i familiari. “La decisione ci rattrista, naturalmente – commenta Margaliot – ma le porte della Academy rimarranno sempre aperte in caso di un suo ripensamento. La nostra sfida andrà comunque avanti, e così il messaggio di dialogo e coesistenza che vogliamo promuovere attraverso lo sport”.
Proprio Orken era stato uno dei protagonisti della cerimonia al Centro Peres per la Pace di Tel Aviv nel corso della quale, lo scorso novembre, i corridori della Academy (tra cui l’italiano Kristian Sbaragli) erano stati insigniti del titolo di “ambasciatore per la pace”.
Il volto sorridente e disteso. La voglia di lanciare messaggi di normalità. “Entrare a far parte di una squadra israeliana non l’ho mai visto come un problema. Al contrario tutti intorno a me hanno sostenuto questa decisione con entusiasmo” raccontava Orken a Pagine Ebraiche, invitata dalla squadra a prender parte al raduno con cui ha preso avvio la più importante stagione di sempre per il ciclismo israeliano.
Aggiungeva Orken: “Aspettavo da tempo la possibilità di gareggiare con un team in crescita e con delle ambizioni. La più grande motivazione che mi ha spinto qui è stata quella di aggiudicarmi delle corse, ma sono anche consapevole dell’importanza di questa iniziativa su un altro piano: lanciare un segnale di pace e fratellanza”.
I suoi occhi parlavano chiaramente. Era una sfida che sentiva, non uno slogan privo di contenuti. Cercava l’abbraccio dei compagni, e i compagni cercavano lui.
Una bella storia, ora drammaticamente interrotta. E una triste pagina per tutto il mondo del ciclismo.

Adam Smulevich, 21/12/2017, Moked

(Foto di Brian Hodes – Velo Images)
Ahmet Orken

E nel frattempo la famiglia della povera miss Iraq, a causa di questa foto
miss Israel-Iraq
voluta in nome dell’amicizia e della pace, è costretta alla fuga per le minacce ricevute.

barbara

L’ODIO CONTRO ISRAELE È L’OPPIO DEGLI ARABI

Più che arabi direi musulmani (l’Iran non è arabo), ma mi pare che la definizione sia perfettamente adeguata. Stavolta parliamo di sport, ambito in cui l’odio islamico per Israele regna sovrano, come abbiamo ampiamente e ripetutamente constatato anche in occasione delle ultime olimpiadi, lo scorso anno. Impossibile riportare non dico tutti, ma anche solo un numero significativo di esempi di queste manifestazioni di odio, per cui mi limiterò a riportarne alcuni, cominciando da questo articolo del 2011 (l’articolo non riporta la data, l’anno lo desumo dagli eventi citati).

di Anna Momigliano

Una giornalista egiziana lo ha definito “l’oppio degli arabi.” Ovvero l’odio incondizionato che «impedisce di parlare di Israele in qualsiasi altro termine che non sia “il nemico”». E, per estensione, di interagire con un israeliano in qualsiasi altro termine che non sia la guerra, il rifiuto, il «con te non parlo». Con te non faccio neppure dello sport, soltanto perché sei un cittadino di Israele. La logica che ha spinto l’atleta tunisina Azza Besbes a rifiutare, di fatto, di gareggiare contro l’israeliana Noam Mills ai mondiali di scherma a Catania. [la Besbes in effetti sale sulla pedana ma rimane immobile. Ricordo il video, che oggi non trovo, di lei che dopo avere obbedito agli ordini buttando nella spazzatura anni di allenamento, piange disperata nel suo angolo, ndb]
Certo, i boicottaggi sportivi contro Israele non sono nuovi. Qualcuno ricorderà forse il caso di Shahar Pe’er, la tennista israeliana a cui fu impedito di partecipare al Campionato di Dubai nel 2009 solo per il fatto di essere israeliana. Oppure la vicenda di Mohamed Alirezaei, il nuotatore iraniano che la scorsa estate si è rifiutato di partecipare ai cento metri stile dorso perché tra gli atleti partecipanti c’era anche un israeliano. In quell’occasione il commento della squadra israeliana fu: «Se uno vuole comportarsi come un bambino, è libero di farlo».
Quello che forse andava preso in considerazione, nel caso del nuotatore Alirezaei, è che probabilmente la sua era una scelta obbligata. Infatti: il regime di Teheran è antisemita (ricordate quando Ahmadinejad negava l’Olocausto?) e ferocemente anti israeliano, ed è arrivato a porre fine alle carriere di atleti “colpevoli” di avere gareggiato contro avversari israeliani. È capitato al sollevatore di pesi Hossein Khodadadi, che è stato espulso dalla nazionale iraniana per avere partecipato a una competizione insieme a colleghi israeliani.
La Tunisia però non è l’Iran. È un Paese che sta percorrendo la difficile strada della democratizzazione , visto che elezioni democratiche sono attese alla fine di questo mese. È il Paese che, lo scorso anno, ha dato il là alla Primavera araba , ossia a quell’ondata di proteste che hanno portato alla deposizione di una serie di dittatori: a cominciare dall’algerino Ben Alì, passando per l’egiziano Hosni Mubarak , fino al libico Muhammar Gheddafi. Difficile insomma pensare che, a differenza dei colleghi iraniani, la Besbes potesse temere ripercussioni da parte del comitato atletico della sua nazione. [con tutto il rispetto, l’acutezza non sempre appare la dote più spiccata di Anna Momigliano, come dimostra anche la sua fiducia nelle cosiddette primavere arabe, ndb]
Allora perché la schermidrice tunisina ha deciso di boicottare la sua avversaria israeliana? Probabilmente, perché era la cosa più facile da fare. Un modo per ottenere velocemente una fama nel mondo arabo, senza dovere accettare alcuna sfida: né in senso atletico, né in senso etico. Perché, in fondo, l’odio senza se e senza ma per Israele, tanto incondizionato da estendersi alle gare sportive, si basa su questo: sul rifiuto del confronto, delle sfumature, sul crogiolarsi nel proprio “essere vittime.”
Lo ha spiegato meglio di ogni altri la giornalista egiziana Mona Elthawy, che ha creato la teoria dell’«oppio degli arabi», e che tra l’altro è stata una delle voci più forti durante la rivoluzione egiziana. Elthawy sostiene che Israele, che pure meriterebbe critiche per molte azioni, è diventato un capro espiatorio per evitare di fare i conti con la realtà nel mondo arabo: «Fino a quando abbiamo Israele che ci permette di sentirci vittime, gli orrori che abbiamo perpetrato tra di noi rimarranno irrilevanti».
La giornalista egiziana accusava il dittatore Mubarak, che pure manteneva sul piano politico un trattato di pace con Israele, di avere utilizzato la retorica anti-israeliana per distogliere il suo popolo dalle colpe della dittatura, installando attraverso le TV di Stato «un odio contro Israele tra i cittadini egiziani che rasenta l’isteria collettiva». Oggi, come l’Egitto si è liberato del suo Mubarak, anche la Tunisia si è liberata del suo dittatore. Ma comportamenti come quelli della schermidrice Serra Besbes dimostrano che purtroppo alcuni algerini non si sono ancora liberati dell’oppio dei regimi arabi.

Quest’altra invece è storia di questi giorni.

Giocano contro una squadra israeliana: radiati dall’Iran

Due giocatori iraniani del Panionios non giocheranno più con la loro Nazionale. Motivo? Essere scesi in campo contro il Maccabi Tel Aviv in E. League.
Nella tesa situazione internazionale di questi tempi, anche una partita giocata può costare caro. E’ quello che è successo a Ehsan Hajsafi e Masoud Shojaei, rispettivamente difensore e centrocampista della Nazionale iraniana e della squadra greca del Panionios, sorteggiata con gli israeliani del Maccabi Tel Aviv nel secondo turno preliminare di Europa League.
Ehsan Hajsafi-Masoud Shojaei
Stante la pesantissima tensione esistente da anni tra Israele e Iran (per l’Iran, giocare contro Israele o squadre israeliane equivale a riconoscere lo Stato ebraico), i due giocatori iraniani per scelta personale avevano deciso di non seguire la loro squadra nella gara d’andata a Tel Aviv, rendendosi però disponibili a giocare la gara di ritorno in Grecia, cosa che effettivamente era poi avvenuta. Nonostante la doppia sconfitta per 0-1 e la conseguente eliminazione, la loro partecipazione all’incontro si era guadagnata il plauso del ministro degli esteri israeliano, che aveva lodato il gesto di distensione con un tweet in lingua farsi.
La cosa però non è stata accolta allo stesso modo dalle autorità iraniane. Il ministro dello sport Mohammed Reza Davarzani ha infatti dichiarato alla TV di Stato:
“Ehsan Hajsafi e Masoud Shojaei non hanno più il loro posto in seno alla nazionale dell’Iran in quanto hanno violato una grave regola interna riguardante il loro paese. Negli ultimi 38 anni, da quando è stata creata la Repubblica Islamica, nessuno dei nostri sportivi aveva mai accettato di affrontare dei rivali del regime sionista (Israele), nemmeno ai Giochi Olimpici […] Due giocatori hanno ignorato questa politica per il fatto che hanno un contratto in essere con un club, ma come la mettiamo con il loro impegno nei confronti della grande nazione iraniana?”.
Le conseguenze per i due giocatori consistono così nell’esclusione perpetua dalla propria Nazionale. In Iran intanto il Ministro degli Esteri ha proposto di far introdurre nei contratti dei calciatori iraniani all’estero una clausola che vieti esplicitamente la loro partecipazione a partite contro squadre israeliane. La strada per la pace, o quantomeno per un po’ di ragionevolezza, è insomma ancora molto lontana.
(Goal.com, 11 agosto 2017)

Qualche altro esempio, per arricchire un po’ la collezione, si trova in questo articolo, che si chiude con l’unica domanda ragionevole – qualunque sia la posizione di ciascuno nei confronti del conflitto arabo-israeliano – da porsi di fronte a questo atteggiamento.
E concludo con un fermo immagine, prima di postare anche il video, che mostra la disperazione del giovanissimo atleta iraniano
Peyman Yarahmadi
Peyman Yarahmadi
nel momento in cui gli viene comunicato che dovrà immolarsi per il Bene della Patria.

barbara