A PROPOSITO DI SERVIZI SOCIALI

Verrebbe da dire che questa piaga sociale che va sotto il bizzarro nome di “servizi sociali” sia un male comune con caratteristiche comuni ovunque e causa di disastri ovunque. Ricordo ancora con raccapriccio la storia raccontatami quasi trent’anni fa da una signora svizzera. Suo figlio, ancora giovanissimo, aveva messo incinta la fidanzata e l’aveva sposata. Quando il bambino aveva un paio di mesi, la madre era già in giro a scopare a destra e a manca, e poco dopo i due si sono separati. Un anno dopo ha preso il bambino, lo ha consegnato a un orfanotrofio ed è scomparsa per sempre. Informata di quanto accaduto, si è immediatamente presentata insieme al marito per chiederne l’affidamento, ma i servizi sociali hanno rifiutato con l’argomento che “i nonni sono vecchi e non possono dare una prospettiva futura al bambino”. La nonna, per inciso, in quel momento aveva quarantacinque anni. Il bambino è stato affidato a una famiglia, e veniva periodicamente visitato da padre e nonna. Ad un certo punto si sono accorti che il bambino aveva sempre le orecchie piene di croste, e ci è voluto un po’ prima che si rendessero conto che non era sporco bensì sangue: il bambino veniva sistematicamente seviziato. Informati i servizi sociali, hanno fatto togliere il bambino da quella famiglia e la nonna ha nuovamente richiesto l’affidamento: richiesta respinta. Il bambino è stato affidato a una seconda famiglia, in cui ha nuovamente trovato violenze di ogni sorta. Nuova denuncia, nuovo ritiro del bambino dalla famiglia affidataria, nuova richiesta della nonna, nuovo rifiuto, e l’odissea è andata avanti.
A vent’anni c’è stato il primo tentativo di suicidio da parte del ragazzo. Quando la signora mi ha raccontato la storia ne aveva ventiquattro, e i tentativi erano arrivati a quattro, sempre salvato in extremis, l’ultima volta dal padre, rientrato in anticipo rispetto al previsto. Pochi mesi dopo c’è stato il quinto, e quello gli è finalmente riuscito.
Ma in Svizzera hanno i treni puntuali.

barbara

IL CROCEFISSO E LA CARBONARA

Vi sembrano due cose del tutto estranee fra di loro? Ebbene, vi sbagliate.
(ora a quanto pare, grazie al clamore mediatico sollevato dall’incredibile vicenda, sembra che vi si sia posto rimedio; ritengo tuttavia che sia utile parlarne ugualmente)

Londra, bimba cristiana di 5 anni affidata a una famiglia islamica

Nemmeno le sue lacrime di bambina li ferma. Dal collo le hanno strappato la collanina con il crocefisso e durante il giorno la obbligano a studiare l’arabo.
Quando, poi, si siede a tavola deve uniformarsi ai diktat del Corano. Gli spaghetti alla carbonara, per esempio, sono banditi. Perché, come le è stato subito spiegato dalla famiglia a cui è stata affidata dai servizi sociali inglesi , “qui il maiale è vietato”. Ai nuovi genitori, entrambi di fede islamica, non importa che la bimba sia cristiana e tantomeno gli importa che abbia appena cinque anni. E così la vessano ogni giorno facendola piangere a dirotto e impartendole una violenza psicologica che sta indignando tutto il Regno Unito.
A rendere pubblica la clamorosa decisione dei servizi sociali del distretto di Tower Hamlets, uno dei più multiculturali della capitale britannica, è stato il quotidiano The Times. Nonostante l’opposizione dei genitori, la bambina è stata affidata a due famiglie di islamici osservanti. La notizia, che è stata ripresa in Italia dal Corriere della Sera, ha subito diviso l’Inghilterra scatenando un accesissimo dibattito e forte indignazione. Stando alle leggi inglesi, infatti, quando i servizi sociali sono chiamati a scegliere sull’affido di un bambino, dovrebbero tener presente “la religione, il background linguistico e culturale, la razza”. In questo preciso caso non lo hanno fatto creando una frattura senza precedenti. “La piccola è bianca, inglese, ama il calcio ed è stata battezzata in chiesa – racconta un amico della famiglia – ha già subito il trauma di essere separata dai genitori e ha bisogno di essere circondata da una cultura che conosce e ama. Invece – continua – è intrappolata in un mondo che non conosce e la spaventa”.
Da sei mesi la bambina vive con musulmani osservanti. Nella prima famiglia a cui è stata affidata la moglie indossava il niqab, mentre in quella attuale tutte le donne sono costrette a vestire il burqa per uscire di casa. A svelare il dramma di questa bambina è stato un supervisore dei servizi sociali che, ai microfoni del Times, ha raccontato le violenze a cui la piccola è sottoposta quotidianamente. “È molto provata – racconta la fonte che ha chiesto di rimanere anonima – e chiede di non tornare nella casa della famiglia affidataria perché non parlano inglese”. Non solo. Secondo la madre, le famiglie musulmane affidatarie starebbero cercando di plagiare la figlia. Recentemente la piccola le avrebbe confidato: “Pasqua e Natale sono feste stupide” e “Le donne europee sono alcolizzate e idiote”. (qui)

Ecco dunque la Londra multietnica del sindaco musulmano. Magari sono di quelli che fanno petizioni e manifestazioni contro gli esperimenti su cavie animali, ma quelli su cavie umane gli vanno benissimo. E, per inciso, non conosco esperimenti animali che consistano in sei mesi di tortura ininterrotta, ma farlo su una bambina di cinque anni – affidandola oltretutto a gente per la quale è perfettamente lecito prendere piacere sessuale anche da una bambina in età di allattamento – non è un problema.

Aggiungo qualche commento, che mi sembra particolarmente interessante. Inizio con due contenenti suggerimenti pratici.

Su, dai, ditemi che non è vero, e che si aveva bisogno di qualche notizia farlocca ma di effetto per vendere qualche copia in più. Vi vorrò bene lo stesso. Ma se la notizia è vera bisogna che si comici a contattare degli amici americani. Si chiamano Smith & Wesson. Sono famosi per risolvere problemi. E qui se ne è creato uno, che ci interessa moltissimo e ci tocca da vicino. “Dordolio”

@ Dordolio: Niente da eccepire per “quegli amici americani”, ma non serve andare tanto distante: Ne abbiamo tanti di NOSTRI, la maggioranza abita in Gardone Val Trompia, provincia di Brescia. Si chiamano Beretta, Bernardelli, Glisenti, Tanfoglio, Sabatti, FIOCCHI… E sono MOLTO AFFIDABILI nel risolvere le situazioni CRITICHE… Basta AVERE LE PALLE. “Menono Incariola”

Non sono sicura al 100% sui bersagli scelti da questi due signori, ma se posso dire la mia, io comincerei in ogni caso dagli operatori dei servizi sociali.
PS: splendido giocattolino la Beretta 22 a canna lunga: non troppo pesante, maneggevole, assolutamente precisa.
Beretta 22 L

Ma dopo i populisti fascisti xenofobi islamofobi eccetera eccetera, arrivano anche i saggi.

E se avessero affidato un bambino Musulmano a una famiglia cristiana? E se avessero affidato la bambina “cristiana” a una famiglia atea? Da quando in qua in uno Stato LAICO gli affidamenti di bambini soli si fanno in base alle confessioni religiose? “Omar El Mukhtar”

NOTA A MARGINE: Omar al Mukhtar, quello vero, è stato un eroe della resistenza libica contro l’invasione e la spietata occupazione coloniale italiana, catturato all’età di settant’anni e impiccato dopo un processo sommario con sentenza già stabilita. Questa gran testa di caprifoglio marinato invece non riesce a capire perché un bambino non possa essere affidato a gente che non parla e non capisce la sua lingua (gente che vive in Inghilterra – e chissà da quanto, visto che sono inseriti in un sistema e conosciuti dai servizi sociali – e non sa una parola di inglese: serve dire altro?) e la tortura in ogni modo possibile.

Sul fatto che le donne occidentali siano alcolizzate e stupide purtroppo non puoi darle tutti i torti…

Fanno eccezione, immagino, la mamma la sorella la moglie e la figlia dello scrivente.

Perché la Bambina è in affido? Un intervento dei Servizi Sociali fa supporre che il disagio della sua famiglia è talmente grave da comprometterne crescita fisica e morale. Quale bambino non piangerebbe nell’essere stato sottratto ai propri genitori. Questo è un esempio (l’ennesimo) di uso strumentale delle notizie. Notizie totalmente decontestualizzate e confezionate ad arte per creare il dissenso e alimentare il vostro odio!! Prima o poi l’avrete questa guerra con due miliardi e mezzo di musulmani.. Quando l’avrete brinderete al vostro disegno di odio e morte!

Qui, mi dispiace per i più sensibili fra i miei lettori, ma proprio non ce la faccio a usare fantasiosi eufemismi: questo qua è una mastodontica testa di cazzo, e temo che il mio vocabolario non contenga parole sufficienti a commentarlo. Interessante il numero dei musulmani, tra l’altro (wishful thinking?)

E infine arriva il più furbo di tutti:

ho letto un articolo. Sarebbero gli ebrei che stanno cercando di scatenare una guerra tra occidente e islam per tirare l’occidente dalla loro parte. E c’è bisogno di scatenare tutto sto casino? certo che l’occidente sta con gli ebrei. Qualche dubbio?

Ma no, perché mai dovremmo avere dubbi? Lo sappiamo benissimo che gli ebrei hanno il vizio cronico di scatenare guerre: hanno scatenato la prima guerra mondiale per il gusto di farla perdere alla Germania, hanno scatenato la seconda per precipitare il mondo nel bolscevismo, come aveva lucidamente profetizzato un tizio con dei baffetti ridicoli, e adesso stanno organizzando la terza fra l’occidente e l’islam: tutto come da programma. Se poi è anche scritto in un articolo, sarebbe davvero follia avere qualche dubbio.

La bambina comunque, dopo sei mesi di tortura, è stata finalmente tolta ai suoi aguzzini e affidata alla nonna (ah, ma c’era una nonna? Una nonna in grado di prendersene cura? Una nonna disponibile a prendersene cura? Ma allora…)

barbara

BATTIGIA

Un’onda. Un’altra onda. Un’altra onda. Un’altra onda… Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono. Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono. Arrivano, battono contro le mie caviglie e si sciolgono… Tutte uguali. Tutte con la stessa forza. Tutte con lo stesso ritmo. Un’onda. Un’altra onda. Un’altra onda. Un’altra onda… E in questo susseguirsi di onde sempre uguali, di ritmi sempre uguali, finisco per perdere la dimensione del tempo. Cammino, lentamente, al di fuori della dimensione del tempo, con lo sguardo sfocato sull’orizzonte mentre le onde lontane che vanno a morire sulla sabbia sfiorano distrattamente la retina, e finiscono per farmi perdere anche la dimensione dello spazio. E mentre continuo ad avanzare fuori dal tempo, fuori dallo spazio, percepisco, per un istante, la dimensione dell’assoluto. Divento, per un istante, l’ASSOLUTO.
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barbara

ANCORA TONI CAPUOZZO

E naturalmente, come sempre, un grande, straordinario Toni Capuozzo, che scrive con testa cuore e pancia, con la passione che sempre lo contraddistingue, con l’onestà che mai gli manca. Questo articolo è del gennaio 2009. Leggiamolo, o rileggiamolo, con attenzione, con devozione, con amore. Perché con amore è stato scritto, e con amore merita di essere letto.

Che la quarta settimana di guerra sarebbe stata differente, lo si è capito nel week end. La stazione di servizio che è il retrovia di tutto quanto si è riempita di parenti in visita al fronte. E una buona parte erano parenti di riservisti. Hanno fatto dei pic nic sui tavolini all’aperto, perché c’era il sole e i posti all’interno erano tutti occupati dalla solita clientela di giornalisti, producer, abitanti dei dintorni. E anche perché erano, quei gruppi familiari, gli unici disinteressati alle notizie che la televisione snocciolava, all’interno. Volevano stare per conto loro, attorno a grandi contenitori di plastica con il cibo portato da casa. C’erano madri, padri, sorelle, fratelli, figli, fidanzate, fidanzati. E da come si sono salutati si capiva che era giunto il momento dei riservisti.. Ho cercato di rimanere freddo, e di pensare che qualcuno di quegli uomini andava a macchiarsi di qualche morte di civile, e che non vuol dire nulla se hanno volti per bene e buone maniere, anche i nazisti stavano ad ascoltare musica classica accarezzando un cane lupo. In realtà li conosco abbastanza per sapere che faranno di tutto per evitare morti civili, anche se in guerra poi comanda la paura, l’incertezza, la fretta. E rimane, pur nell’orrore che noi anestetizziamo quando parliamo di “danni collaterali”, una bella differenza tra il colpo sbagliato da un carro, da un elicottero, da un aereo, e il colpo sparato a vista, deliberatamente, alla morte del civile come obbiettivo, come succede per i terroristi suicidi, o per i Qassam. Una cosa è chiara, nei mozziconi di parole che scambiamo: che vanno al fronte per difendere le loro vite, e quelle di chi gli è caro. Messi tutti insieme, quei mozziconi di parole dicono che Israele non si fermerà fino a quando la capacità di lancio dei Qassam non sarà azzerata, e fino a quando la capacità di rifornirne gli arsenali non sarà distrutta. Sono obbiettivi chiari, ed elementari. Il bilancio che noi facciamo è innanzitutto il bilancio delle vittime. Il bilancio che Israele sta facendo è un altro: oggi, martedì, a metà giornata i missili caduti su Israele sono 6. Non so quale sarà il bilancio a fine giornata, ma il numero dei missili, tre settimane fa, era di 50/60 al giorno. Ed erano lanci più precisi. Hamas li lancia di giorno, perché di notte sarebbero più facilmente individuate le postazioni di lancio, e perché di giorno è più facile colpire i passanti israeliani. Ma adesso ha dovuto arretrare le proprie postazioni, e cambiarle. Spara – l’ho visto con i miei occhi- da zone abitate, e cambiando postazioni ogni volta. Ciò vuol dire che deve cambiare ogni volta le coordinate di lancio, rinunciando al know how consolidato da correzioni che aveva accumulato prima del conflitto. E deve farlo in fretta: si calcola che adesso i lanci vengano effettuati in 91 secondi, e poi, via, corrono al riparo: l’imprecisione è massima. Quanto agli arsenali, sono molti i tunnel bombardati, ma ne restano decine e decine. Da quando gli israeliani hanno abbandonato la Striscia – nessuno lo ricorda, ma è successo, no?- quella dei tunnel è diventata una vera industria. C’è chi ne ha scavati gestendoli come si gestisce un ponte privato: ogni kalashnikov passato costava 5 dollari, ogni stecca di sigarette tot dollari, ogni gallone di benzina tot dollari (l’unico prezzo che mi ricordo, nelle fluttuazioni di mercato era quello dei kalashnikov, appunto). C’è chi si è rifatto dell’investimento in pochi giorni, chi è diventato ricco e poi ha dovuto pagare tasse ad Hamas, chi si è specializzato in certi articoli, chi ha venduto il tunnel a qualche fazione combattente, e chi se ne è visto espropriare dal più forte. E le armi da dove venivano? Dall’Iran, attraverso le rotte dei beduini. E i funzionari, e le frontiere? I soldi comprano tutto. A proposito di frontiere, e di ipocrisia delle guerre: in questo conflitto senza profughi, poco rilievo al fatto che l’Egitto non ha aperto la sua frontiera alla popolazione di Rafah. A proposito di ipocrisia delle guerre: nessuno ha raccontato che due terzi dei coloni che dovettero abbandonare i settlements della Striscia – sì, se ne andarono, torno a ricordarlo- non hanno ancora ricevuto una sistemazione abitativa, in Israele. Se ne andarono spesso distruggendo quel che si lasciavano alle spalle, perché non ne godesse più nessun altro. Mi è tornato in mente quando ho sentito di case, nella Striscia, abbandonate dagli abitanti in fuga, con il rubinetto del gas aperto, perché i soldati di Tsahal esplodessero, entrandovi. Ma credo fossero i miliziani di Hamas ad averlo fatto, perché gli abitanti se ne vanno sperando di tornare, diversamente dai coloni. La domenica è stata animata, a Sderot, dall’arrivo di uno strano cronista. Vi ricordate Joe the Plumber, l’idraulico che animò per un po’ le presidenziali americane? E’ arrivato qui, da inviato di un network dell’Ohio. Non si è smentito: ha visitato i luoghi colpiti da Qassam, ha assistito a qualche allarme (io ci sono abituato, quello cui non riesco ad abituarmi, nonostante pensi continuamente a Gaza, è che gli alunni di Sderot, diversamente da quelli di Ashqelon ed altri, sono recordman della corsa nei rifugi: loro hanno fatto l’abitudine, sono bravissimi) e ha rimproverato la stampa internazionale di non capire nulla, di fare propaganda, di castigare il diritto all’autodifesa. In Israele c’è un bel dibattito, le Israel Defence Forces sono al terzo posto su You Tube, nel mondo, per clic sui loro filmati, Amira Has racconta le sofferenze dei palestinesi, la designazione di un corrispondente di guerra di Al Jazeera come “eroe” personale di Gydeon Levi ha suscitato reazioni. Da quel che riesco a vedere io, Al Jazeera si trova la propaganda servita sul vassoio d’argento, e più in là non sa e non vuole andare. Ma può darsi che invece abbia dato notizia, e a me sia sfuggito, dei volantini distribuiti a Ramallah in cui si denuncia l’esecuzione sommaria di membri di Al Fatah nella Striscia in questi giorni, come della richiesta di un dirigente palestinese di processare Hamas per “crimini di guerra”. Credo che i riservisti andranno a presidiare quella linea che dal confine porta a Netzarim, ex settlement, e al mare, che taglia la Striscia in due e impedisce il rifornimento degli arsenali. Impiegarli significa che ci sarà anche una quarta settimana. Perché sono professioni, posti di lavoro che restano vuoti, e il loro impiego significa che il paese, pure in misura minima, è entrato in guerra. Avrebbero potuto finire il lavoro con la grossolanità dell’aviazione, degli elicotteri, dei thanks. Avrebbero potuto fare il lavoro sporco come fecero i libanesi attorno al campo profughi palestinese, o i siriani per reprimere un complotto sunnita fondamentalista in una loro provincia. Se ci mettono i riservisti è per tentare di fare le cose con minuzia, senza fretta. Con la consapevolezza di un paese democratico: lo sanno tutti che i riservisti sono i primi a denunciare qualcosa che non va, a raccontare ai reporter, a fare foto e filmini. Molte cose non sono andate, finora. D’ora in poi sapremo meglio, se, quali e come. Quando, nel piazzale della stazione di servizio, hanno salutato le famiglie sono stati saluti sobri, senza lacrime. Ma la cura che le donne mettevano nel confezionare quel che era avanzato, del pasticcio o del dolce, perché venisse portato al fronte, diceva tutto.

Ho cercato anche un video, che sapevo di avere conservato, di cui ricordavo l’inizio, in cui mostrava, commentandole, immagini di due funerali, uno in Palestina, “dove anche un funerale è una buona occasione per sparare”, e uno in Israele, “dove anche i soldati piangono”. Il documento l’ho trovato (ho molte migliaia di documenti, ma riesco quasi sempre a trovare quello che cerco), ma il video non è più disponibile. Accontentiamoci quindi di questo gioiello di un giornalista che rende onore a un mestiere fin troppo prostituito.
Tra l’altro, io mi trovavo in Israele quando è iniziata quella guerra.

 

barbara

I RAGAZZI DELLA VIA GAUDÌ

Uno stupendo articolo del grande Toni Capuozzo. Da leggere. Da stampare. Da incorniciare. Da imparare a memoria.

In genere, nel vocabolario che i media utilizzano nelle cronache del terrorismo, la cosa che più mi infastidisce è l’uso della parola “kamikaze” per definire un terrorista suicida. I kamikaze erano combattenti in divisa, che sacrificavano se stessi per uccidere nemici anch’essi in divisa, nel corso di una guerra: etica estrema, ma rispettabile. Stavolta, dopo Barcellona, mi è sembrato di cogliere, qua e là, nel ripetuto uso del termine “ragazzi” per definire la cellula di Ripoll una povertà linguistica di noi cronisti, ma anche una sorta di pietà malriposta, un malcelato tentativo, da assistenti sociali o psicologi delle devianze, di trovare anche nel colpevole una traccia di disperata umanità.
Trattiamoli da ragazzi, allora (termine che per me, invece, dalla via Pal in poi, ha una sua sacralità). Cosa c’è di nuovo, nella vicenda di Barcellona? Che stavolta non erano lupi solitari, ma neanche una cellula carbonara e assortita pescando qua e là dalle periferie di Bruxelles o di Parigi o del Medio Oriente. Era un gruppo di amici al Locutorio, il call center del paese, gestito da un marocchino. Si conoscevano sin da bambini. Tre coppie di fratelli : la ‘ndrangheta ci ha insegnato come i vincoli famigliari rendano impenetrabili le organizzazioni criminali. Tutti tra i 17 e i 24 anni, tranne l’imam Es Satty, 42 anni, e il gestore del call center, quell’El Karib di 34 anni. Alcuni erano nati in Spagna, tutti avevano frequentato la scuola dell’obbligo. Alcuni un istituto professionale. Avevano trovato lavoro. Le loro vite,per come le descrivono parenti e amici erano della più scontata normalità: discoteche, il bar dell’angolo, qualche spino e un po’ di birra, la moto che Younes si è lasciato alle spalle, l’Audi che li ha portati all’ultima scorribanda. Doppia nazionalità, passaporto, un paesotto . Forse il paese era un po’ noioso, ma a poco più di cento chilometri, un’ora e mezza, c’è Barcellona, città aperta. Insomma, nessuna emarginazione, nessuna ingiustizia, nessun trauma, nessuna ribellione apparente. Le madri, avvolte nei loro vestiti larghi e nei loro veli, lamentano: “Erano bravi ragazzi”. Che cosa è successo? I media mainstream e anche quelli alternativi non se lo chiedono, perché gli unici indizi, portano a due risposte scomode. La prima è che lo ius soli è un totem della correttezza politica, tarlato e vuoto: non è l’anagrafe a integrarti, se non lo vuoi. La seconda è che la religione – fior di intellettuali non credenti, di pensatori marxisti e naturalmente di devoti cristiani corrono ad assolverla – ha avuto un peso determinante.
Stiamo al primo indizio: l’integrazione mancata. Questi non erano ribelli, non avevano rotto con il padre, uno ha addirittura lasciato un testamento di scuse, non erano scappati di casa. Erano cresciuti in un ambiente quieto, di padri che pensavano a lavorar e di madri che pensavano a far da mangiare e portare il velo. Della Spagna avevano colto l’integrazione dei consumi: i fumetti, la moto, i jeans, il gel, la discoteca. Ma i valori, quelli che fanno di noi cittadini critici, figli della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo, cultori del dubbio e di diritti di donne e individui? E la cultura, quella che fa di uno spagnolo un lettore di Javier Marias o di Cervantes, un conoscitore del male – guerre civili o franchismo, terrorismo basco o Inquisizione – e del bene – le autonomie, la pacata transizione alla democrazia – che cosa sapevano? Mi sono chiesto se almeno tifassero per il Barca, ma mi sono chiesto anche se quei volenterosi spagnoli che sbarcano da noi i migranti abbiano qualche volta guardato dietro casa loro, nei Pirenei. Erano cresciuti in una cultura di separatezza, innocua e micidiale. Non vi si sono ribellati, l’hanno portata alle estreme conseguenze: bravi ragazzi.
L’ultimo viaggio alcuni tra loro l’hanno fatto in Marocco, come per un congedo. I parenti, nel villaggio sperduto tra i monti dell’Atlante, gente antica e tradizionale ma senza terrore nella testa, dicono che quel qualcosa che li ha cambiati è successo in Spagna, loro si sono solo accorti che stavolta, inaspettati, non davano più la mano alle donne. A Ripoll le madri dicono solo che avevano iniziato a pregare, e Younes aveva tappezzato la stanza di versetti del Corano, e compitava il Libro sacro, lui che faceva fatica a leggerlo, l’arabo. Da due anni Moussa, cioè Mosè, scriveva su Facebook che i cristiani devono essere uccisi: un po’ di cristiano fobia, per dire. Che cosa era successo? Da due anni era arrivato a Ripoll, come un incantatore, l’imam Es Satty. Il suo nome porta lontano, indietro fino alla strage di Nassirija (cosa devono pensare, adesso, se pensano, quelli che urlavano 10-100-1000 Nassirija, adesso il filo si è snodato fino a morire sulle Ramblas multi culti, non in una caserma di carabinieri?) e allarga la scena: contatti a Marsiglia, e in Belgio. Ma riporta anche il mistero alla sua rinnegata risposta: la religione. Malintesa, va da sé. Ma intesa fino in fondo, se Younes, morendo, nel momento della verità, ripete: Allah è il più grande.
Il gruppo di ragazzi della via Antoni Gaudi pensava in grande, se aveva pensato di far saltare in aria la cattedrale del genio cui era intitolata la via in cui vivevano a Ripoll. Pensava metodicamente, se pensate al tempo che ci vuole a radunare cento e passa bombole. Lavorava maldestramente: nessun esplosivo è mai stato benedetto come quello che ha ucciso l’imam e altri due, e ferito quello che, rinsavito, sta collaborando. Ma lavorava da soldato dello Stato Islamico: a cosa servivano i finti giubbotti esplosivi? Sì, a spaventare i poliziotti, un po’. Ma di più a trovare morte certa, e appuntarsi al petto, alla lettera, l’elemento distintivo dello shahid (noi traduciamo martire, ma nella nostra tradizione il martire è uno che sacrifica se stesso, non chi fa strage di altri). Dritti nel paradiso delle vergini, e il bonus di garantirlo anche a un po’ di famigliari, quei vecchi bonaccioni, islamici da cortile, noi siamo andati più in là: c’è nelle loro vite una continuità, non una rottura.
I nostri politici e i nostri media continueranno a spiegarci che lo ius soli è cosa buona e giusta, che la religione non c‘entra, che l’accoglienza è un dovere e un piacere, che l’integrazione dipende da noi, che le colpe dell’Occidente (come la minigonna delle stuprate o i loro orari insoliti) spiegano tutto, che anche il cristianesimo ha combinato i suoi guai, che l’islam è religione di pace: un tè nel deserto. Non è così: l’integrazione vuol dire lavoro e condivisione di valori, rispetto dei diritti e riduzione della religione a una libera sfera di fede personale, senza pretese di giurisdizione erga omnes e governo delle istituzioni. Dovremmo essere inflessibili su questo (a mio modestissimo parere anche il Papa che invoca lo ius soli invade un campo non suo, che non appartiene alla religione. Tu vuoi il matrimonio per sempre? Applicalo nella tua vita, non imporlo per legge agli altri. Vale lo stesso per l’aborto o il fine vita, per la cittadinanza o l’accoglienza: ascolto i tuoi richiami morali, ma debbono restare tali, non dettare regole per tutti. E se no fai come la metropolitana tedesca che non sa più se addobbarla con piastrelle che raccontino la genesi, perché teme di offendere gli islamici. A la guerre comme à la guerre, salvando la nostra cultura di diritti, la nostra umanità, cercando alleati – i curdi, mica il Qatar o l’Arabia Saudita – ma sapendo che ci sono nemici. Ad esempio: voglio illustrare con una fotografia queste righe dissestate. Ho forte la tentazione di metterci Younees morto, con un occhio aperto e uno chiuso. E’ il boia delle Ramblas, quello che andava a zig zag sulle vite altrui. Ma no, non lo faranno neppure i siti dell’Isis loro mettono i propri morti acconciati da un sorriso, chè hanno intravisto il paradiso, e invece Younees ha una smorfia. Metterei la foto di Julian, che ai nostri occhi è morto lentamente, perché non si sapeva dov’era finito. Il volto d’angelo, e un simbolo dei cittadini del mondo: nato in Gran Bretagna, residente in Australia, tratti asiatici. Troppo facile. Sarei tentato di metterci la foto, ritratto di spalle mentre i colleghi lo applaudono, del poliziotto dei Mossos de Esquadra che ha ucciso, con la pistola, quattro terroristi. E’ stato bravo, adesso è seguito da uno psicologo perché noi non siamo fatti per uccidere facile, e quattro persone, lo viviamo come un dovere tormentoso, non un trionfo. E allora ci metto la foto di Pau Perez Villan, 34 anni, la quindicesima vittima. L’ha ucciso Younees, a coltellate, per impadronirsi della sua auto, che Perez parcheggiava in periferia per non pagare i parcheggi, e andare a lavorare nell’azienda vinicola dove, ingegnere elettronico, era responsabile dei macchinari. Lui sì, amava il calcio, e gli amici ne parlano come di uno buono e simpatico. La sua generosità l’aveva portato a fare il volontario ad Haiti. La polizia si è avvicinata con molta prudenza al suo corpo riverso sul sedile posteriore, pensavano fosse un terrorista. Non è un simbolo per nessuno, e allora va bene per me.
Pau Perez Villan
E va bene anche per me.

barbara

IL DOLORE DELLA SINDACAZZA

alla cerimonia di commemorazione delle vittime dell’attentato condotto da terroristi islamici a Barcellona.
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Spain Attacks
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Ci manca solo la distribuzione di dolci per festeggiare la felice riuscita dell’impresa, in puro stile palestinese.
(Certo che anche quelli che a una commemorazione per una simile mattanza non trovano di meglio che stare a scattare foto…)

barbara