Uno stupendo articolo del grande Toni Capuozzo. Da leggere. Da stampare. Da incorniciare. Da imparare a memoria.
In genere, nel vocabolario che i media utilizzano nelle cronache del terrorismo, la cosa che più mi infastidisce è l’uso della parola “kamikaze” per definire un terrorista suicida. I kamikaze erano combattenti in divisa, che sacrificavano se stessi per uccidere nemici anch’essi in divisa, nel corso di una guerra: etica estrema, ma rispettabile. Stavolta, dopo Barcellona, mi è sembrato di cogliere, qua e là, nel ripetuto uso del termine “ragazzi” per definire la cellula di Ripoll una povertà linguistica di noi cronisti, ma anche una sorta di pietà malriposta, un malcelato tentativo, da assistenti sociali o psicologi delle devianze, di trovare anche nel colpevole una traccia di disperata umanità.
Trattiamoli da ragazzi, allora (termine che per me, invece, dalla via Pal in poi, ha una sua sacralità). Cosa c’è di nuovo, nella vicenda di Barcellona? Che stavolta non erano lupi solitari, ma neanche una cellula carbonara e assortita pescando qua e là dalle periferie di Bruxelles o di Parigi o del Medio Oriente. Era un gruppo di amici al Locutorio, il call center del paese, gestito da un marocchino. Si conoscevano sin da bambini. Tre coppie di fratelli : la ‘ndrangheta ci ha insegnato come i vincoli famigliari rendano impenetrabili le organizzazioni criminali. Tutti tra i 17 e i 24 anni, tranne l’imam Es Satty, 42 anni, e il gestore del call center, quell’El Karib di 34 anni. Alcuni erano nati in Spagna, tutti avevano frequentato la scuola dell’obbligo. Alcuni un istituto professionale. Avevano trovato lavoro. Le loro vite,per come le descrivono parenti e amici erano della più scontata normalità: discoteche, il bar dell’angolo, qualche spino e un po’ di birra, la moto che Younes si è lasciato alle spalle, l’Audi che li ha portati all’ultima scorribanda. Doppia nazionalità, passaporto, un paesotto . Forse il paese era un po’ noioso, ma a poco più di cento chilometri, un’ora e mezza, c’è Barcellona, città aperta. Insomma, nessuna emarginazione, nessuna ingiustizia, nessun trauma, nessuna ribellione apparente. Le madri, avvolte nei loro vestiti larghi e nei loro veli, lamentano: “Erano bravi ragazzi”. Che cosa è successo? I media mainstream e anche quelli alternativi non se lo chiedono, perché gli unici indizi, portano a due risposte scomode. La prima è che lo ius soli è un totem della correttezza politica, tarlato e vuoto: non è l’anagrafe a integrarti, se non lo vuoi. La seconda è che la religione – fior di intellettuali non credenti, di pensatori marxisti e naturalmente di devoti cristiani corrono ad assolverla – ha avuto un peso determinante.
Stiamo al primo indizio: l’integrazione mancata. Questi non erano ribelli, non avevano rotto con il padre, uno ha addirittura lasciato un testamento di scuse, non erano scappati di casa. Erano cresciuti in un ambiente quieto, di padri che pensavano a lavorar e di madri che pensavano a far da mangiare e portare il velo. Della Spagna avevano colto l’integrazione dei consumi: i fumetti, la moto, i jeans, il gel, la discoteca. Ma i valori, quelli che fanno di noi cittadini critici, figli della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo, cultori del dubbio e di diritti di donne e individui? E la cultura, quella che fa di uno spagnolo un lettore di Javier Marias o di Cervantes, un conoscitore del male – guerre civili o franchismo, terrorismo basco o Inquisizione – e del bene – le autonomie, la pacata transizione alla democrazia – che cosa sapevano? Mi sono chiesto se almeno tifassero per il Barca, ma mi sono chiesto anche se quei volenterosi spagnoli che sbarcano da noi i migranti abbiano qualche volta guardato dietro casa loro, nei Pirenei. Erano cresciuti in una cultura di separatezza, innocua e micidiale. Non vi si sono ribellati, l’hanno portata alle estreme conseguenze: bravi ragazzi.
L’ultimo viaggio alcuni tra loro l’hanno fatto in Marocco, come per un congedo. I parenti, nel villaggio sperduto tra i monti dell’Atlante, gente antica e tradizionale ma senza terrore nella testa, dicono che quel qualcosa che li ha cambiati è successo in Spagna, loro si sono solo accorti che stavolta, inaspettati, non davano più la mano alle donne. A Ripoll le madri dicono solo che avevano iniziato a pregare, e Younes aveva tappezzato la stanza di versetti del Corano, e compitava il Libro sacro, lui che faceva fatica a leggerlo, l’arabo. Da due anni Moussa, cioè Mosè, scriveva su Facebook che i cristiani devono essere uccisi: un po’ di cristiano fobia, per dire. Che cosa era successo? Da due anni era arrivato a Ripoll, come un incantatore, l’imam Es Satty. Il suo nome porta lontano, indietro fino alla strage di Nassirija (cosa devono pensare, adesso, se pensano, quelli che urlavano 10-100-1000 Nassirija, adesso il filo si è snodato fino a morire sulle Ramblas multi culti, non in una caserma di carabinieri?) e allarga la scena: contatti a Marsiglia, e in Belgio. Ma riporta anche il mistero alla sua rinnegata risposta: la religione. Malintesa, va da sé. Ma intesa fino in fondo, se Younes, morendo, nel momento della verità, ripete: Allah è il più grande.
Il gruppo di ragazzi della via Antoni Gaudi pensava in grande, se aveva pensato di far saltare in aria la cattedrale del genio cui era intitolata la via in cui vivevano a Ripoll. Pensava metodicamente, se pensate al tempo che ci vuole a radunare cento e passa bombole. Lavorava maldestramente: nessun esplosivo è mai stato benedetto come quello che ha ucciso l’imam e altri due, e ferito quello che, rinsavito, sta collaborando. Ma lavorava da soldato dello Stato Islamico: a cosa servivano i finti giubbotti esplosivi? Sì, a spaventare i poliziotti, un po’. Ma di più a trovare morte certa, e appuntarsi al petto, alla lettera, l’elemento distintivo dello shahid (noi traduciamo martire, ma nella nostra tradizione il martire è uno che sacrifica se stesso, non chi fa strage di altri). Dritti nel paradiso delle vergini, e il bonus di garantirlo anche a un po’ di famigliari, quei vecchi bonaccioni, islamici da cortile, noi siamo andati più in là: c’è nelle loro vite una continuità, non una rottura.
I nostri politici e i nostri media continueranno a spiegarci che lo ius soli è cosa buona e giusta, che la religione non c‘entra, che l’accoglienza è un dovere e un piacere, che l’integrazione dipende da noi, che le colpe dell’Occidente (come la minigonna delle stuprate o i loro orari insoliti) spiegano tutto, che anche il cristianesimo ha combinato i suoi guai, che l’islam è religione di pace: un tè nel deserto. Non è così: l’integrazione vuol dire lavoro e condivisione di valori, rispetto dei diritti e riduzione della religione a una libera sfera di fede personale, senza pretese di giurisdizione erga omnes e governo delle istituzioni. Dovremmo essere inflessibili su questo (a mio modestissimo parere anche il Papa che invoca lo ius soli invade un campo non suo, che non appartiene alla religione. Tu vuoi il matrimonio per sempre? Applicalo nella tua vita, non imporlo per legge agli altri. Vale lo stesso per l’aborto o il fine vita, per la cittadinanza o l’accoglienza: ascolto i tuoi richiami morali, ma debbono restare tali, non dettare regole per tutti. E se no fai come la metropolitana tedesca che non sa più se addobbarla con piastrelle che raccontino la genesi, perché teme di offendere gli islamici. A la guerre comme à la guerre, salvando la nostra cultura di diritti, la nostra umanità, cercando alleati – i curdi, mica il Qatar o l’Arabia Saudita – ma sapendo che ci sono nemici. Ad esempio: voglio illustrare con una fotografia queste righe dissestate. Ho forte la tentazione di metterci Younees morto, con un occhio aperto e uno chiuso. E’ il boia delle Ramblas, quello che andava a zig zag sulle vite altrui. Ma no, non lo faranno neppure i siti dell’Isis loro mettono i propri morti acconciati da un sorriso, chè hanno intravisto il paradiso, e invece Younees ha una smorfia. Metterei la foto di Julian, che ai nostri occhi è morto lentamente, perché non si sapeva dov’era finito. Il volto d’angelo, e un simbolo dei cittadini del mondo: nato in Gran Bretagna, residente in Australia, tratti asiatici. Troppo facile. Sarei tentato di metterci la foto, ritratto di spalle mentre i colleghi lo applaudono, del poliziotto dei Mossos de Esquadra che ha ucciso, con la pistola, quattro terroristi. E’ stato bravo, adesso è seguito da uno psicologo perché noi non siamo fatti per uccidere facile, e quattro persone, lo viviamo come un dovere tormentoso, non un trionfo. E allora ci metto la foto di Pau Perez Villan, 34 anni, la quindicesima vittima. L’ha ucciso Younees, a coltellate, per impadronirsi della sua auto, che Perez parcheggiava in periferia per non pagare i parcheggi, e andare a lavorare nell’azienda vinicola dove, ingegnere elettronico, era responsabile dei macchinari. Lui sì, amava il calcio, e gli amici ne parlano come di uno buono e simpatico. La sua generosità l’aveva portato a fare il volontario ad Haiti. La polizia si è avvicinata con molta prudenza al suo corpo riverso sul sedile posteriore, pensavano fosse un terrorista. Non è un simbolo per nessuno, e allora va bene per me.

E va bene anche per me.
barbara