Noi che sapevamo come stavano le cose.
APRILE 2005
Intervista con una colona [non sarebbe meglio residente?] di Gush Katif
Il mensile in lingua tedesca edito a Gerusalemme, “Israel Heute”, nel suo numero di aprile pubblica un’intervista con Rachel Saberstein (64 anni, madre di 3 figli e nonna di 9 nipoti), una residente nel blocco di insediamenti di Gush Katif, nella striscia di Gaza.
– Shalom, signora Saberstein! Lei vive qui con suo marito, Moshe, a Neve Dekalim, nel blocco di insediamenti di Gush Katif. Da quando vive qui? E come si sente in questi giorni, sapendo dell’imminente sgombero della striscia di Gaza?
Siamo arrivati a Gush Katif nel 1997, dopo essere immigrati dagli USA in Israele nel 1968. Siamo venuti qui per motivi ideologici e per di più con il pieno sostegno del governo israeliano. Ma dal 2000 qui si vive sotto il fuoco continuo dei terroristi palestinesi. Nonostante questo, abbiamo tenuto duro. E adesso chi ci caccia è proprio il governo israeliano, cosa che ai terroristi finora non è riuscita…
– Che cosa pensa del piano di ritiro di Ariel Sharon?
Nessuno ci ha chiesto niente! Ed era stato proprio Ariel Sharon ad assicurarci che noi siamo la spina dorsale della nazione, eroi che combattiamo al fronte più avanzato, e che Gush Katif e Tel Aviv sono una stessa cosa. Fino a che, nell’ottobre scorso, alla radio sentiamo dire il contrario: che mettiamo in pericolo il paese. Personalmente, sono sconvolta nel vedere con quanta facilità si possano cacciare degli ebrei dalla loro terra ebraica, in spregio ad ogni convinzione che Israele sia la patria degli ebrei. C’è ancora qualche speranza per gli ebrei nel mondo?
– Crede ancora che qualcosa possa arrestare il ritiro in luglio?
Qui abbiamo vissuto ogni giorno con molti miracoli. Nei quattro anni e mezzo di intifada sono morti in tutto tre lavoratori esterni, due soldati e un colono, e questo sotto la continua grandine dei razzi. Avrebbero potuto essere centinaia! Se Dio avesse voluto cacciarci via di qui, avrebbe avuto abbastanza possibilità. Io continuo a credere che Dio troverà una via per farci uscire da questa situazione.
– Come reagirà allo sgombero? Con la violenza?
Noi dimostreremo, ma la violenza verrà dalle unità dell’esercito e della polizia. Hanno ricevuto per questo la necessaria autorizzazione. Zippi Livni ha perfino emanato una legge a questo scopo, con la quale sarà facilitato l’arresto dei dimostranti e i bambini potranno essere strappati ai loro genitori senza che ci si possa opporre. La fine di ogni democrazia!
– Distruggeranno la sua casa, come è avvenuto nel 1978 a Yamit, nel Sinai?
No, le nostre case saranno messe a disposizione dei leader di Hamas e delle autorità palestinesi come residenze invernali. I profughi palestinesi continueranno ad essere tenuti nei lager come capri espiatori. Le nostre sinagoghe saranno riciclate in moschee e le scuole in luoghi di addestramento per aspiranti terroristi [in realtà sono state immediatamente incendiate e distrutte non appena l’ultimo ebreo è uscito da Gaza]. Quanto ai cimiteri, i parenti dovranno prelevare le ossa dei loro morti e riseppellirli, cosa che secondo le leggi ebraiche halacha richiederà altri sette giorni di cordoglio Shiva. Dove e quando questo avverrà, fino ad ora non lo sa nessuno.
– Lei ritiene che la striscia di Gaza sia parte della Terra promessa?
E’ una striscia di terra promessa da Dio alla tribù di Giuda. Questo è stato sempre un luogo di presenza ebraica. La storia di Sansone si è svolta qui, le zimrot per lo Shabbat di Israele Najjora sono state redatte qui. Dopo la distruzione del secondo Tempio molti ebrei sono venuti nella striscia di Gaza, e nel 1492, sotto l’inquisizione spagnola, è stata il punto di ritrovo di molti ebrei in fuga. [A parte questo, Gaza è stata “occupata” in una guerra di difesa, sottraendola all’Egitto che l’aveva illegalmente occupata nel ’48; diversi residenti, poi, si erano trasferiti qui dopo lo sgombero forzato dal Sinai regalato all’Egitto nel ’79 in cambio del trattato di pace. Fra questi c’era la famiglia Fogel, strappata dal Sinai, risistematasi a Gush Katif, strappata da Gush Katif e risistematasi in Giudea, e qui sterminata da un eroico resistente palestinese, compresa Hadas, di 3 mesi, sgozzata nella culla]
– Lei sa già come andrà a finire?
No, qui nessuno lo sa. Non abbiamo un’altra residenza, non abbiamo case né posti di lavoro. Gli agricoltori del posto hanno fatto contratti per anni con l’Unione Europea, con importi anche di milioni di euro, e adesso non potranno mantenerli, cosa che alla fine danneggerà anche l’economia israeliana. Posso aggiungere anche un’altra cosa? I bambini di Gush Katif si incontrano una volta alla settimana con un Rabbi su un grande spiazzo erboso e pregano i salmi. Se qualcuno gli chiede perché lo fanno, rispondono: “Preghiamo Dio che il signor Sharon non ci cacci dalle nostre case.” Preghi anche lei per noi, che sia ebreo o no, affinché a nessun ebreo sia fatta una cosa simile!”
Molte grazie per questa intervista, signora Saberstein.
(Israel Heute, aprile 2005)
Prima il traditore Rabin, odiato, più che da ogni altro, dai palestinesi onesti, che lui ha fatto invadere dai “terroristi di Tunisi”, come li chiamavano loro, ossia tutta la cricca di Arafat: se agli israeliani gli accordi di Oslo hanno portato lo scatenamento di un terrorismo di dimensioni mai viste prima, ai palestinesi onesti hanno distrutto la vita, annientato il futuro, disintegrato ogni speranza di coesistenza pacifica con Israele. E dopo il traditore Rabin è arrivato il traditore Sharon, con la sua deportazione di ottomila ebrei da Gush Katif, la cui conseguenza, prima una sorta di guerra civile a Gaza e poi guerra terrorismo morte e distruzione in Israele, era prevedibile e prevista, dopo che il ritiro unilaterale dal Libano aveva fatto moltiplicare a dismisura il terrorismo sulla Galilea e la consegna dell’intero Libano nelle mani prima della Siria, poi dell’Iran tramite hezbollah (Clic, qualche ulteriore informazione nei commenti). E che il prezzo da pagare per questa criminale follia sarebbe stato altissimo, lo sapevano anche loro, i lavoratori palestinesi di Gush Katif.
GIUGNO 2005
Palestinesi contro il ritiro da Gaza
Un redattore di “Israel Heute” ha parlato con alcuni lavoratori palestinesi in Gush Katif sul piano di sgombero israeliano
Non sono soltanto i coloni ebrei di Gush Katif a temere il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza, ma anche i loro lavoratori palestinesi. Più di 3.000 palestinesi che lavorano ogni giorno nelle piantagioni israeliane pregano Allah di impedire a tutti i costi il piano di ritiro di Ariel Sharon. «Se gli ebrei lasciano la striscia di Gaza, io perdo il mio posto di lavoro», dice a “Israel Heute” Dscherbil (34 anni) di Chan Yunis, nel sud della striscia di Gaza. «Da più di 12 anni lavoro nelle piantagioni israeliane, dirigo più di 30 operai. Dal mio datore di lavoro israeliano ricevo 20 euro al giorno, tre volte di più di quello che riceverei da un datore di lavoro palestinese in Gaza.» Dschebril e i suoi colleghi di lavoro ci comunicano quanto è depresso lo stato d’animo tra i lavoratori palestinesi alla vigilia dello sgombero.
Molti di loro lavorano già da molti anni negli insediamenti ebraici che dovranno essere evacuati nei prossimi due mesi. «Quando i coloni ebraici perderanno le loro case, noi perderemo il nostro posto di lavoro», ci confida Mohammed (30 anni), che abita non lontano dal suo amico e collega di lavoro Dschebril. «Sono cresciuto in queste piantagioni e non posso immaginarmi una vita senza il mio lavoro. In Gaza non c’è lavoro e se veramente le case e le piantagioni non verranno distrutte dopo il ritiro, è garantito che noi non riceveremo niente. [Facile profeta: un miliardario ebreo americano le aveva acquistate dagli israeliani, per un miliardo di dollari se ricordo bene, per regalarle ai palestinesi, in modo che potessero conservare il lavoro e magari, i più esperti, diventare imprenditori al posto degli israeliani. Immediatamente dopo il ritiro-deportazione degli israeliani, sono state completamente distrutte] Andrà a finire tutto sotto le grinfie della direzione dell’OLP», spiega Mohammed.
Mohammed, Dschebril, Adel e altri palestinesi che da anni possono testimoniare di una pacifica collaborazione con i coloni ebrei, hanno perso fiducia nella direzione palestinese e israeliana. Contro il fatto che la direzione palestinese è corrotta, non possono farci niente. Della situazione di crisi in cui si trova oggi la popolazione palestinese, attribuiscono tutti la responsabilità a Israele. «Se Israele non avesse fatto accordi con il defunto Rais, Führer Yasser Arafat, la nostra sofferenza non sarebbe stata così grande», dichiara Adel, che ha lavorato quasi 20 anni nell’agricoltura ebraica in Gush Katif. «Ebrei e arabi possono vivere insieme; ci ricordiamo tutti degli anni ’70 e ’80, fino allo scoppio della prima intifada nel 1987. La direzione OLP di Tunisi ci succhia il sangue e la popolazione è delusa di lei.»
Poiché la direzione dell’OLP è così corrotta, il popolo cerca un rifugio alternativo e per la frustrazione cade nelle spire di Hamas. «Invece di parlare con il popolo, avete trattato con un uomo di nome Arafat che ha mandato tutto in rovina», dice Dschebril. «Oggi l’OLP paga fino a 200 euro se si vota lui e non Hamas. Ma adesso nessuno si fida più dell’OLP. Dove sono tutti i soldi che la direzione dell’OLP ha ricevuto negli ultimi 10 anni da USA, Europa, Giappone e Cina per lo sviluppo dell’Autonomia? E’ sparito tutto nelle casse dell’OLP a Tel Aviv.»
Per i lavoratori agricoli palestinesi nella enklave ebraica Gush Katif soltanto un miracolo può impedire l’evacuazione degli insediamenti ebraici. «Non appena i miei datori di lavoro ebrei saranno evacuati, i miei figli ed io mangeremo la polvere», dice Mohammed, che incolpa Ariel Sharon per il furto del suo lavoro e del suo stipendio mensile. Di una cosa sono sicuri tutti e tre i palestinesi: il piano di ritiro di Sharon non cambierà in meglio la vita dalla parte israeliana e da quella palestinese. Adesso i coloni e i palestinesi sperano in un miracolo, perché tutti dipendono dal successo dell’agricoltura in Gush Katif, nella striscia di Gaza. «Ci completiamo a vicenda, il mio datore di lavoro ebreo ha bisogno di me nella sua piantagione e io ho bisogno di lui nella striscia di Gaza», ci dichiara Adel sorridendo, ma con voce triste. A.S.
Dolorose concessioni in nome della pace
La pace, obiettivo fondamentale della tradizione ebraica, è da sempre l’obiettivo politico esplicito dello Stato di Israele. Israele ha cercato a lungo di arrivare alla pace con i suoi vicini arabi e in particolare con i palestinesi. La grande sfida nel fare la pace risiede nel fatto che si tratta di un processo che si auspica non si concluda semplicemente con la cessazione delle ostilità tra ex nemici, bensì con l’inizio di un nuovo rapporto di coesistenza. L’obiettivo ultimo di Israele è stabilire relazioni di buon vicinato con il futuro stato palestinese.
Sullo sfondo di più di quattro anni di stragi terroristiche, Israele ha avviato il suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale allo scopo sia di migliorare la propria sicurezza [e abbiamo visto quanto sia migliorata], sia di rimettere in moto [RImettere? Perché, quand’è che era stato in moto?] il processo di pace con i palestinesi. Affinché abbia la possibilità di funzionare, il piano richiede un considerevole sacrificio da parte di circa 1.700 famiglie, per un totale di circa 8.000 persone, che dovranno lasciare le case e le attività che si erano costruite nell’arco di vari decenni [e questo è stato il criminale errore di tanti governi israeliani: la pace si dà in cambio di pace, non di terra, perché se sei pronto a cedermi terra, io ne chiederò sempre di più – considerando oltretutto che TUTTA la tua terra è esattamente il mio obiettivo. In secondo luogo si fa con chi la vuole, non con chi la usa come strumento di ricatto, perché chi cede una volta al ricatto, ne resterà schiavo per sempre. In terzo luogo si fa con chi ha in mano la situazione ed è in grado di far funzionare gli accordi stipulati. Con l’Egitto, anche se sempre di pace freddissima si è trattato, ha funzionato perché Sadat comandava, e comandava solo lui. Quando hai a che fare con un’accozzaglia di tribù e capitribù, nessuno ha il diritto di essere così stupido da illudersi che funzionerà. E meno ancora quando hai a che fare con una cultura in cui la pace col nemico non esiste e i contratti che stipulo valgono fintanto che mi fa comodo e non un minuto di più].
Nell’immediato, sono questi israeliani delle colonie che dovranno pagare gran parte del prezzo per la pace. Erano stati incoraggiati dai precedenti governi israeliani ad insediarsi su terre aride e trascurate per trasformarle in case, giardini e fattorie con lo stesso spirito pionieristico che a suo tempo contribuì a creare le basi dello Stato di Israele. Ora viene chiesto loro di abbandonare queste realizzazioni in nome di un bene più grande.
Molti di loro, arrivati nella striscia di Gaza come giovani coppie, devono ora affrontare il trauma di lasciare le proprie case insieme a figli e nipoti per i quali la striscia di Gaza è stata terra natale e unico luogo di residenza in tutta la loro vita.
Ecco a che cosa gli israeliani stanno rinunciando in nome della pace [in nome della favola della pace, a cui nessuno di loro, nessuno dei deportati ha creduto, perché l’età delle favole e della befana e della fata dei dentini è passato da un pezzo]. Complessivamente lo sgombero dei 25 villaggi ebraici israeliani dalla striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania settentrionale significa che:
- devono essere chiusi 42 centri assistenziali day-care, 36 asili, sette scuole elementari e tre scuole superiori;
- 5.000 scolari devono inserirsi in altre scuole;
- devono essere smantellate 38 sinagoghe;
- 166 aziende agricole israeliane devono essere chiuse, con la perdita di posti di lavoro anche per 5.000 palestinesi;
- 48 sepolture del cimitero ebraico di Gush Katif devono essere riesumate e trasferite in Israele, comprese quelle di sei abitanti uccisi da terroristi.
“Come si può vedere – conclude il ministero degli esteri israeliano – Israele sostiene con i fatti i propri impegni verbali ed è pronto a pagare un prezzo doloroso in nome della pace” [sulla pelle dei propri cittadini. Vaffanculo].
(MFA, 28 luglio 2005)
barbara