NOI L’ABBIAMO SEMPRE SAPUTO

Noi che sapevamo come stavano le cose.

APRILE 2005 

Intervista con una colona [non sarebbe meglio residente?] di Gush Katif

Il mensile in lingua tedesca edito a Gerusalemme, “Israel Heute”, nel suo numero di aprile pubblica un’intervista con Rachel Saberstein (64 anni, madre di 3 figli e nonna di 9 nipoti), una residente nel blocco di insediamenti di Gush Katif, nella striscia di Gaza.

– Shalom, signora Saberstein! Lei vive qui con suo marito, Moshe, a Neve Dekalim, nel blocco di insediamenti di Gush Katif. Da quando vive qui? E come si sente in questi giorni, sapendo dell’imminente sgombero della striscia di Gaza?
Siamo arrivati a Gush Katif nel 1997, dopo essere immigrati dagli USA in Israele nel 1968. Siamo venuti qui per motivi ideologici e per di più con il pieno sostegno del governo israeliano. Ma dal 2000 qui si vive sotto il fuoco continuo dei terroristi palestinesi. Nonostante questo, abbiamo tenuto duro. E adesso chi ci caccia è proprio il governo israeliano, cosa che ai terroristi finora non è riuscita…

– Che cosa pensa del piano di ritiro di Ariel Sharon?
Nessuno ci ha chiesto niente! Ed era stato proprio Ariel Sharon ad assicurarci che noi siamo la spina dorsale della nazione, eroi che combattiamo al fronte più avanzato, e che Gush Katif e Tel Aviv sono una stessa cosa. Fino a che, nell’ottobre scorso, alla radio sentiamo dire il contrario: che mettiamo in pericolo il paese. Personalmente, sono sconvolta nel vedere con quanta facilità si possano cacciare degli ebrei dalla loro terra ebraica, in spregio ad ogni convinzione che Israele sia la patria degli ebrei. C’è ancora qualche speranza per gli ebrei nel mondo?

– Crede ancora che qualcosa possa arrestare il ritiro in luglio?
Qui abbiamo vissuto ogni giorno con molti miracoli. Nei quattro anni e mezzo di intifada sono morti in tutto tre lavoratori esterni, due soldati e un colono, e questo sotto la continua grandine dei razzi. Avrebbero potuto essere centinaia! Se Dio avesse voluto cacciarci via di qui, avrebbe avuto abbastanza possibilità. Io continuo a credere che Dio troverà una via per farci uscire da questa situazione.

– Come reagirà allo sgombero? Con la violenza?
Noi dimostreremo, ma la violenza verrà dalle unità dell’esercito e della polizia. Hanno ricevuto per questo la necessaria autorizzazione. Zippi Livni ha perfino emanato una legge a questo scopo, con la quale sarà facilitato l’arresto dei dimostranti e i bambini potranno essere strappati ai loro genitori senza che ci si possa opporre. La fine di ogni democrazia!

– Distruggeranno la sua casa, come è avvenuto nel 1978 a Yamit, nel Sinai?
No, le nostre case saranno messe a disposizione dei leader di Hamas e delle autorità palestinesi come residenze invernali. I profughi palestinesi continueranno ad essere tenuti nei lager come capri espiatori. Le nostre sinagoghe saranno riciclate in moschee e le scuole in luoghi di addestramento per aspiranti terroristi [in realtà sono state immediatamente incendiate e distrutte non appena l’ultimo ebreo è uscito da Gaza]. Quanto ai cimiteri, i parenti dovranno prelevare le ossa dei loro morti e riseppellirli, cosa che secondo le leggi ebraiche halacha richiederà altri sette giorni di cordoglio Shiva. Dove e quando questo avverrà, fino ad ora non lo sa nessuno.

– Lei ritiene che la striscia di Gaza sia parte della Terra promessa?
E’ una striscia di terra promessa da Dio alla tribù di Giuda. Questo è stato sempre un luogo di presenza ebraica. La storia di Sansone si è svolta qui, le zimrot per lo Shabbat di Israele Najjora sono state redatte qui. Dopo la distruzione del secondo Tempio molti ebrei sono venuti nella striscia di Gaza, e nel 1492, sotto l’inquisizione spagnola, è stata il punto di ritrovo di molti ebrei in fuga. [A parte questo, Gaza è stata “occupata” in una guerra di difesa, sottraendola all’Egitto che l’aveva illegalmente occupata nel ’48; diversi residenti, poi, si erano trasferiti qui dopo lo sgombero forzato dal Sinai regalato all’Egitto nel ’79 in cambio del trattato di pace. Fra questi c’era la famiglia Fogel, strappata dal Sinai, risistematasi a Gush Katif, strappata da Gush Katif e risistematasi in Giudea, e qui sterminata da un eroico resistente palestinese, compresa Hadas, di 3 mesi, sgozzata nella culla]

– Lei sa già come andrà a finire?
No, qui nessuno lo sa. Non abbiamo un’altra residenza, non abbiamo case né posti di lavoro. Gli agricoltori del posto hanno fatto contratti per anni con l’Unione Europea, con importi anche di milioni di euro, e adesso non potranno mantenerli, cosa che alla fine danneggerà anche l’economia israeliana. Posso aggiungere anche un’altra cosa? I bambini di Gush Katif si incontrano una volta alla settimana con un Rabbi su un grande spiazzo erboso e pregano i salmi. Se qualcuno gli chiede perché lo fanno, rispondono: “Preghiamo Dio che il signor Sharon non ci cacci dalle nostre case.” Preghi anche lei per noi, che sia ebreo o no, affinché a nessun ebreo sia fatta una cosa simile!”

Molte grazie per questa intervista, signora Saberstein.

(Israel Heute, aprile 2005)

Prima il traditore Rabin, odiato, più che da ogni altro, dai palestinesi onesti, che lui ha fatto invadere dai “terroristi di Tunisi”, come li chiamavano loro, ossia tutta la cricca di Arafat: se agli israeliani gli accordi di Oslo hanno portato lo scatenamento di un terrorismo di dimensioni mai viste prima, ai palestinesi onesti hanno distrutto la vita, annientato il futuro, disintegrato ogni speranza di coesistenza pacifica con Israele. E dopo il traditore Rabin è arrivato il traditore Sharon, con la sua deportazione di ottomila ebrei da Gush Katif, la cui conseguenza, prima una sorta di guerra civile a Gaza e poi guerra terrorismo morte e distruzione in Israele, era prevedibile e prevista, dopo che il ritiro unilaterale dal Libano aveva fatto moltiplicare a dismisura il terrorismo sulla Galilea e la consegna dell’intero Libano nelle mani prima della Siria, poi dell’Iran tramite hezbollah (Clic, qualche ulteriore informazione nei commenti). E che il prezzo da pagare per questa criminale follia sarebbe stato altissimo, lo sapevano anche loro, i lavoratori palestinesi di Gush Katif.

GIUGNO 2005

Palestinesi contro il ritiro da Gaza

Un redattore di “Israel Heute” ha parlato con alcuni lavoratori palestinesi in Gush Katif sul piano di sgombero israeliano

Non sono soltanto i coloni ebrei di Gush Katif a temere il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza, ma anche i loro lavoratori palestinesi. Più di 3.000 palestinesi che lavorano ogni giorno nelle piantagioni israeliane pregano Allah di impedire a tutti i costi il piano di ritiro di Ariel Sharon. «Se gli ebrei lasciano la striscia di Gaza, io perdo il mio posto di lavoro», dice a “Israel Heute” Dscherbil (34 anni) di Chan Yunis, nel sud della striscia di Gaza. «Da più di 12 anni lavoro nelle piantagioni israeliane, dirigo più di 30 operai. Dal mio datore di lavoro israeliano ricevo 20 euro al giorno, tre volte di più di quello che riceverei da un datore di lavoro palestinese in Gaza.» Dschebril e i suoi colleghi di lavoro ci comunicano quanto è depresso lo stato d’animo tra i lavoratori palestinesi alla vigilia dello sgombero.
Molti di loro lavorano già da molti anni negli insediamenti ebraici che dovranno essere evacuati nei prossimi due mesi. «Quando i coloni ebraici perderanno le loro case, noi perderemo il nostro posto di lavoro», ci confida Mohammed (30 anni), che abita non lontano dal suo amico e collega di lavoro Dschebril. «Sono cresciuto in queste piantagioni e non posso immaginarmi una vita senza il mio lavoro. In Gaza non c’è lavoro e se veramente le case e le piantagioni non verranno distrutte dopo il ritiro, è garantito che noi non riceveremo niente. [Facile profeta: un miliardario ebreo americano le aveva acquistate dagli israeliani, per un miliardo di dollari se ricordo bene, per regalarle ai palestinesi, in modo che potessero conservare il lavoro e magari, i più esperti, diventare imprenditori al posto degli israeliani. Immediatamente dopo il ritiro-deportazione degli israeliani, sono state completamente distrutte] Andrà a finire tutto sotto le grinfie della direzione dell’OLP», spiega Mohammed.
Mohammed, Dschebril, Adel e altri palestinesi che da anni possono testimoniare di una pacifica collaborazione con i coloni ebrei, hanno perso fiducia nella direzione palestinese e israeliana. Contro il fatto che la direzione palestinese è corrotta, non possono farci niente. Della situazione di crisi in cui si trova oggi la popolazione palestinese, attribuiscono tutti la responsabilità a Israele. «Se Israele non avesse fatto accordi con il defunto Rais, Führer Yasser Arafat, la nostra sofferenza non sarebbe stata così grande», dichiara Adel, che ha lavorato quasi 20 anni nell’agricoltura ebraica in Gush Katif. «Ebrei e arabi possono vivere insieme; ci ricordiamo tutti degli anni ’70 e ’80, fino allo scoppio della prima intifada nel 1987. La direzione OLP di Tunisi ci succhia il sangue e la popolazione è delusa di lei.»
Poiché la direzione dell’OLP è così corrotta, il popolo cerca un rifugio alternativo e per la frustrazione cade nelle spire di Hamas. «Invece di parlare con il popolo, avete trattato con un uomo di nome Arafat che ha mandato tutto in rovina», dice Dschebril. «Oggi l’OLP paga fino a 200 euro se si vota lui e non Hamas. Ma adesso nessuno si fida più dell’OLP. Dove sono tutti i soldi che la direzione dell’OLP ha ricevuto negli ultimi 10 anni da USA, Europa, Giappone e Cina per lo sviluppo dell’Autonomia? E’ sparito tutto nelle casse dell’OLP a Tel Aviv.»
Per i lavoratori agricoli palestinesi nella enklave ebraica Gush Katif soltanto un miracolo può impedire l’evacuazione degli insediamenti ebraici. «Non appena i miei datori di lavoro ebrei saranno evacuati, i miei figli ed io mangeremo la polvere», dice Mohammed, che incolpa Ariel Sharon per il furto del suo lavoro e del suo stipendio mensile. Di una cosa sono sicuri tutti e tre i palestinesi: il piano di ritiro di Sharon non cambierà in meglio la vita dalla parte israeliana e da quella palestinese. Adesso i coloni e i palestinesi sperano in un miracolo, perché tutti dipendono dal successo dell’agricoltura in Gush Katif, nella striscia di Gaza. «Ci completiamo a vicenda, il mio datore di lavoro ebreo ha bisogno di me nella sua piantagione e io ho bisogno di lui nella striscia di Gaza», ci dichiara Adel sorridendo, ma con voce triste. A.S.

Dolorose concessioni in nome della pace

La pace, obiettivo fondamentale della tradizione ebraica, è da sempre l’obiettivo politico esplicito dello Stato di Israele. Israele ha cercato a lungo di arrivare alla pace con i suoi vicini arabi e in particolare con i palestinesi. La grande sfida nel fare la pace risiede nel fatto che si tratta di un processo che si auspica non si concluda semplicemente con la cessazione delle ostilità tra ex nemici, bensì con l’inizio di un nuovo rapporto di coesistenza. L’obiettivo ultimo di Israele è stabilire relazioni di buon vicinato con il futuro stato palestinese.
Sullo sfondo di più di quattro anni di stragi terroristiche, Israele ha avviato il suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale allo scopo sia di migliorare la propria sicurezza [e abbiamo visto quanto sia migliorata], sia di rimettere in moto [RImettere? Perché, quand’è che era stato in moto?] il processo di pace con i palestinesi. Affinché abbia la possibilità di funzionare, il piano richiede un considerevole sacrificio da parte di circa 1.700 famiglie, per un totale di circa 8.000 persone, che dovranno lasciare le case e le attività che si erano costruite nell’arco di vari decenni [e questo è stato il criminale errore di tanti governi israeliani: la pace si dà in cambio di pace, non di terra, perché se sei pronto a cedermi terra, io ne chiederò sempre di più – considerando oltretutto che TUTTA la tua terra è esattamente il mio obiettivo. In secondo luogo si fa con chi la vuole, non con chi la usa come strumento di ricatto, perché chi cede una volta al ricatto, ne resterà schiavo per sempre. In terzo luogo si fa con chi ha in mano la situazione ed è in grado di far funzionare gli accordi stipulati. Con l’Egitto, anche se sempre di pace freddissima si è trattato, ha funzionato perché Sadat comandava, e comandava solo lui. Quando hai a che fare con un’accozzaglia di tribù e capitribù, nessuno ha il diritto di essere così stupido da illudersi che funzionerà. E meno ancora quando hai a che fare con una cultura in cui la pace col nemico non esiste e i contratti che stipulo valgono fintanto che mi fa comodo e non un minuto di più].
Nell’immediato, sono questi israeliani delle colonie che dovranno pagare gran parte del prezzo per la pace. Erano stati incoraggiati dai precedenti governi israeliani ad insediarsi su terre aride e trascurate per trasformarle in case, giardini e fattorie con lo stesso spirito pionieristico che a suo tempo contribuì a creare le basi dello Stato di Israele. Ora viene chiesto loro di abbandonare queste realizzazioni in nome di un bene più grande.
Molti di loro, arrivati nella striscia di Gaza come giovani coppie, devono ora affrontare il trauma di lasciare le proprie case insieme a figli e nipoti per i quali la striscia di Gaza è stata terra natale e unico luogo di residenza in tutta la loro vita.
Ecco a che cosa gli israeliani stanno rinunciando in nome della pace [in nome della favola della pace, a cui nessuno di loro, nessuno dei deportati ha creduto, perché l’età delle favole e della befana e della fata dei dentini è passato da un pezzo]. Complessivamente lo sgombero dei 25 villaggi ebraici israeliani dalla striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania settentrionale significa che:

  • devono essere chiusi 42 centri assistenziali day-care, 36 asili, sette scuole elementari e tre scuole superiori;
  • 5.000 scolari devono inserirsi in altre scuole;
  • devono essere smantellate 38 sinagoghe;
  • 166 aziende agricole israeliane devono essere chiuse, con la perdita di posti di lavoro anche per 5.000 palestinesi;
  • 48 sepolture del cimitero ebraico di Gush Katif devono essere riesumate e trasferite in Israele, comprese quelle di sei abitanti uccisi da terroristi.

“Come si può vedere – conclude il ministero degli esteri israeliano – Israele sostiene con i fatti i propri impegni verbali ed è pronto a pagare un prezzo doloroso in nome della pace” [sulla pelle dei propri cittadini. Vaffanculo].

(MFA, 28 luglio 2005)

barbara

CHI NON CREDE NEI MIRACOLI NON È REALISTA

Così affermava David Ben Gurion. E questo è ciò che è accaduto l’altro ieri:

Michi Nazrolai

INCREDIBILE!!!
Tutti abbiamo sentito ieri del grande miracolo: un autobus che trasportava dozzine di soldati israeliani (che Hashem protegga) arrivato a Gaza è saltato in aria a causa di un missile, ma pochi minuti prima i soldati erano scesi trovando così la salvezza.
Ma ascoltate nel video cosa cantavano poco prima, cantavano AL HANNISSIM quella preghiera che cantiamo a Chanukah nel quale elogiamo e benediciamo Dio per i suoi miracoli, al tempo dei nostri padri e ai giorni nostri.

OK, pura coincidenza… Ma non lo sentiamo un brividino lungo la schiena?

Nel frattempo, sotto i missili, la vita continua. Nel senso più letterale: questo è il reparto di neonatologia dell’ospedale di Ashkelon, spostato in un bunker a prova di missile.
neonatologia Ashkelon
Qui, in mezzo al cemento armato, i bambini continuano a nascere, e i prematuri a essere accolti nelle culle termiche.

Ma vorrei anche ricordare il peccato originale, che ha portato alla tragedia che da tredici anni si è abbattuta sui kibbutz e villaggi al confine di Gaza – peccato originale perpetrato da un Ariel Sharon passato ormai da falco a pollo, irretito da un illustre demografo di sinistra che per mezzo di cifre palesemente false lo ha terrorizzato con lo spettro del sorpasso demografico, inducendolo a deportare da Gaza gli ottomila ebrei che vi risiedevano

barbara

IL SIGNOR EMERGENCY SÌ CHE È BRAVO!

costi-emergency
Interessante, ma prima di sentenziare è necessario far capire ai common la differenza tra costo e tariffa. Mi piacerebbe inoltre capire come emergency calcola i costi fissi e variabili della SVA o della SVM, visto che solo la valvola costa circa duemila euri.
Da ultimo il solone equoesolidale si dimentica del fatto che la tariffa copre i costi dell’intero ricovero, secondo gli standard di accreditamento italiani, ivi compresa la permanenza in terapia intensiva cardiochirurgica.
Ma quante sostituzioni valvolari fa Emergency? Con quali protesi e secondo quali standard organizzativi e logistici?
Che tipo di politiche adotta per il contenimento dei costi? Me lo insegni, per favore!

(Source: soldan56)

D’altra parte sappiamo bene chi è il signor Gino Strada, catanghese in gioventù e culo e camicia coi terroristi in vecchiaia, con le letterine firmate dalla moglie che accusava Israele di assassinare deliberatamente i neonati palestinesi per ragioni razziali – e non un solo “a” ad Arafat e al suo terrorismo con diffusione planetaria. Sappiamo, oh se lo sappiamo.

barbara

GIUSTO PER CAPIRCI

Chi, dei leader israeliani e palestinesi, è nato in Palestina?

LEADER ISRAELIANI:

BENJAMIN NETANYAHU,
Nato il 21 Ottobre 1949 a Tel Aviv 

EHUD BARAK,
Nato il 12 Febbraio 1942 a Mishmar HaSharon,
Mandato britannico di Palestina

ARIEL SHARON,
Nato il 26 Febbraio 1928 a Kfar Malal,
Mandato britannico di Palestina

EHUD OLMERT,
Nato il 30 Settembre 1945 a Binyamina-Giv’at Ada,

Mandato britannico di Palestina

ITZHAK RABIN,
Nato il 1° Marzo 1922 a Gerusalemme,

Mandato britannico di Palestina  

ITZHAK NAVON,
Presidente della Repubblica 1977-1982. Nato il 9 Aprile 1921 a Gerusalemme, Mandato britannico di Palestina  

EZER WEIZMAN,
Presidente della Repubblica 1993-2000. Nato il 15 Giugno 1924 a Tel Aviv, Mandato britannico di Palestina


LEADER ARABI “PALESTINESI”
:


YASSER ARAFAT
,
Nato il 24 Agosto 1929 al Cairo, Egitto 

SAEB EREKAT,
Nato il 28 Aprile 1955, in Giordania. Ha la cittadinanza giordana.  

FAISAL ABDEL QADER AL-HUSSEINI,
Nato nel 1948 a Bagdad, Iraq.  

SARI NUSSEIBEH,
Nato nel 1949 a Damasco, Siria. 

MAHMOUD AL-ZAHAR,
Nato nel 1945, al Cairo, Egitto. 

E così i leader israeliani nati in Palestina sarebbero “coloni” o “invasori”, mentre i leader arabi palestinesi nati in Egitto, Siria, Iraq e Giordania sarebbero “nativi palestinesi”?!?!?

barbara

SABRA E CHATILA

Ritengo utile riproporre oggi questo mio post di quasi otto anni fa. Non perché mi immagini che fra gli antisemiti odiatori di Israele esista ancora qualche disnformato in buona fede da provvedere a informare, ma unicamente per sbattere loro in faccia la loro schifosa malafede, la loro schifosa disonestà, la loro schifosa ignominia.

Se dico Sabra e Chatila tutti sapete di che cosa sto parlando, vero? Magari non sapete che a perpetrarla sono stati i cristiani maroniti guidati da Ely Hobeika e credete che siano stati gli israeliani. Magari non sapete che delle tre commissioni d’inchiesta (del governo libanese, della Croce Rossa, del governo israeliano) quella israeliana è stata la più severa. Magari non sapete che 400.000 israeliani (circa il 10% dell’intera popolazione israeliana dell’epoca) sono scesi in piazza per protestare contro la sia pure indiretta responsabilità israeliana e non un solo arabo è sceso in piazza per protestare contro la diretta responsabilità dei maroniti al soldo della Siria. Forse non sapete che Sharon, a causa della strage di Sabra e Chatila, è stato allontanato dalla politica attiva e ne è rimasto fuori per quasi un ventennio mentre Ely Hobeika, per merito della strage di Sabra e Chatila, è stato premiato con un importante ministero. Forse non sapete che Robert Hatem, guardia del corpo di Hobeika, ha scritto un libro intitolato From Israel to Damascus in cui rivela tutti i retroscena sull’azione e sui mandanti e che il libro è stato bandito dai paesi arabi ed in particolare dal Libano con un’ordinanza del ministro per l’informazione Anwar El Khalil. Forse non sapete queste cose ma sapete comunque, se dico Sabra e Chatila, di che cosa stiamo parlando.
Bene. E se ora dico l’«altra» Sabra e Chatila, quanti di voi mi sanno dire di che cosa stiamo parlando? Perché c’è stata un’altra Sabra e Chatila, di cui nessuno parla mai: lo sapevate? Naturalmente non mi permetto di insinuare che il motivo per cui nessuno ne parla abbia a che fare con la circostanza che Israele questa volta non vi ha avuto niente a che fare: sarebbe stupida dietrologia; forse, anche, sarebbe disonestà intellettuale, come dice ogni tanto qualcuno da queste parti. Sta di fatto che quella volta Israele non c’entrava e che nessuno parla dell’altra Sabra e Chatila. Al punto che anche in internet le notizie sono scarsissime (e ringrazio il prof. Emanuele Ottolenghi che mi ha cortesemente aiutata a trovare alcuni dettagli che mi mancavano per costruire questo post). Informo dunque chi non lo sa e ha voglia di saperlo che le milizie sciite filosiriane di Amal hanno bombardato i campi di Sabra, Chatila e Burj el-Barajneh per tre anni, in quella che è ricordata come la guerra dei campi. Il culmine venne raggiunto nel corso di tre cruentissime battaglie: la prima il 19 maggio 1985, in cui praticamente tutte le case nei campi vennero ridotte in macerie e si riporta che alcuni abitanti si ridussero a mangiare ratti, cani e gatti. Vi furono persino richieste di permessi alle autorità religiose di mangiare i morti (e non ricordiamo, all’epoca, vignette satiriche sui responsabili della fame dei palestinesi). Scrisse il corrispondente di Pity the Nation, Robert Fisk: «La distruzione di Sabra è così grande che fra chi non viveva nel sottosuolo, ben pochi sono sopravvissuti. Il modo in cui Amal e i palestinesi hanno combattuto nei corridoi dell’ospedale per anziani mentre i pazienti erano ancora lì indica che nessuna delle due parti si preoccupa troppo per i civili presi nel fuoco incrociato. Il modo in cui i palestinesi costruiscono le loro case sopra i bunker rende inevitabile la morte di civili. […] Se chiedete quanti combattenti hanno, rispondono che tutti i palestinesi sono combattenti, uomini, donne e bambini. Ma poi strillano se una donna o un bambino viene ucciso». Si ignora il numero esatto dei morti, ma si ritiene che sia stato molto alto. La seconda cruenta battaglia (preceduta e seguita da altri scontri di minore entità e dall’assedio di Burj el-Barajneh, che impediva agli abitanti di uscire e alle provviste di entrare) si svolse un anno esatto dopo la prima, il 19 maggio 1986 e la terza il 29 settembre 1986. Alla fine della guerra il governo libanese ha riportato che il numero totale di vittime di queste battaglie è stato di 3.781 morti e 6.787 feriti, cui vanno aggiunti circa 2.000 palestinesi uccisi nelle lotte interne fra le varie fazioni, ma si ritiene che il numero reale sia più alto perché migliaia di palestinesi non erano registrati in Libano, e nessun ufficiale poteva entrare nei campi, cosicché non tutte le vittime potevano essere contate.
Può forse valere la pena, visto che siamo in tema, di ricordare anche che cosa ne è stato dei profughi palestinesi nei campi del Libano dopo la fine della guerra civile (guerra, non dimentichiamolo, scatenata dai palestinesi, che ha provocato – si calcola – circa 160.000 morti, la cancellazione di moltissime comunità cristiane e la distruzione della più bella, ricca e civile nazione del Medio Oriente). Ce lo racconta Stefano Liberti in un reportage pubblicato sul Diario di Enrico Deaglio: «Al termine di questa guerra l’agglomerato di Sabra non esisteva più e il governo libanese decise di proibire ogni costruzione al di fuori del perimetro originario di Chatila, impedendo quindi alle migliaia di abitanti delle zone esterne di rimettere in piedi le proprie case. […] Nel 1996 il governo libanese ha varato un’ulteriore legge che vieta l’ingresso in tutti i campi profughi di qualsiasi materiale da costruzione: mattoni, vetri, cemento. I più disperati si sono ridotti a vivere sotto le macerie o nei garage sotterranei distrutti». Quello instaurato dal governo filosiriano di Beirut nei confronti dei quattrocentomila rifugiati palestinesi è, secondo il Diario, un «regime di apartheid»: ai profughi è proibito di esercitare ben settantacinque tipi di professione («da quella di ingegnere ad altre meno qualificate come lavavetri o muratore») ed è negato il diritto di voto. Pochi mesi fa è stata approvata una legge che permette a tutti gli stranieri di avere proprietà in Libano. Tutti, tranne i palestinesi. «È nel loro interesse – sostengono le autorità di Beirut -, non vogliamo che perdano la spinta a tornare nella loro terra».
Non ricordiamo risoluzioni Onu contro la politica antipalestinese del Libano. Non ricordiamo marce di protesta contro questo regime di apartheid. Non ricordiamo bandiere libanesi bruciate. Non ricordiamo boicottaggi contro università e istituzioni libanesi. Non ricordiamo movimenti studenteschi mobilitati a impedire di parlare a diplomatici o studiosi libanesi. Non ricordiamo mobilitazioni internazionali per impedire a questi palestinesi di morire di fame.

barbara

OTTO ANNI DI COMA

Poiché non è bello parlare male dei morti, soprattutto quando sono appena morti, ho deciso di pubblicarlo adesso, finché è ancora vivo.

Otto anni di coma. Quasi uno per ogni mille ebrei deportati da Gush Katif: qualcuno parla di punizione divina per il crimine commesso, e vista la coincidenza numerica viene quasi voglia di crederlo. Dieci anni fa ti amavo, Arik, ti veneravo come un eroe per tutto ciò che avevi fatto per il tuo popolo e per la tua terra; se fossi morto allora ti avrei pianto come una vedova. Certamente niente e nessuno potrà mai cancellare gli immensi meriti che hai acquisito. Ma, altrettanto, niente e nessuno potrà cancellare il crimine della deportazione di ottomila ebrei dalle loro case, dalle loro terre, dai campi che avevano dissodato e coltivato e fatto fiorire – quelle case, quelle terre, quei campi da cui erano stati cacciati nel 1948 all’inizio dell’illegale occupazione egiziana, e a cui erano potuti tornare nel 1967 – e mai avrebbero potuto immaginare che a cacciarli di nuovo sarebbe stato un loro correligionario, un loro compatriota.
Ti sei lasciato irretire da un losco figuro che, accecato dall’ideologia, ha scelto di credere alle cifre demografiche ammannite dai palestinesi, nonostante tutti sapessero che erano false quanto un biglietto da sette euro; ti ha terrorizzato con lo spettro del sorpasso demografico – che non è avvenuto né mai avverrà perché, appunto, quelle cifre e quelle proiezioni erano FALSE – e tu ci sei caduto come un pollo, da falco che eri. E ora hai le mani sporche di sangue, Arik, tu e il tuo suggeritore: il sangue dei Fogel, il sangue delle vittime delle migliaia di razzi sparati dopo la deportazione degli ebrei da Gush Katif, il dolore dei loro parenti e amici, i feriti, i mutilati, gli invalidi permanenti, il terrore dei bambini di Sderot, i soldati persi nelle operazioni per arginare il terrorismo rinvigorito dalla tua sciagurata iniziativa.
Prima è venuto Rabin, con il disastro di Oslo, poi tu, a completare l’opera con la deportazione da Gush Katif. Avete pagato entrambi, ma le devastazioni che avete provocato rimangono.
Riposa in pace, tu, se puoi; ma le ferite che hai aperto continuano e continueranno a sanguinare.

barbara

MITI DEL MEDIORIENTE

Questo articolo di Josef Farah, giornalista arabo americano, è di dieci anni fa.

Ho mantenuto il silenzio da quando in Israele è iniziata la battaglia sulla spianata del Tempio.
Finora mi sono trattenuto dal dire “Ve l’avevo detto”, ma non posso più resistere: devo citare l’articolo scritto 2 settimane prima dello scoppio.
Sì, l’ho previsto, ma non importano gli applausi. Magari mi fossi sbagliato.
Più di 80 persone sono state uccise nella battaglia intorno a Gerusalemme: per quale motivo?
Se credete alla maggior parte delle fonti di informazione, i palestinesi vogliono una patria e i musulmani vogliono avere il controllo di un posto che considerano sacro.
Semplice, vero?
Ebbene, come giornalista arabo americano, che ha passato un lungo periodo in medioriente, schivando pietre e schegge di mortai, vi devo dire che queste sono false scuse, falsi pretesti per una rivolta, per creare disordini e accaparrarsi della terra.
Come si spiega che prima della guerra del ‘67 non c’era nessun movimento serio per una patria palestinese?
Mi direte, “questo era prima che gli israeliani occupassero la Cisgiordania e Gerusalemme”.
Questo è vero. Nella guerra dei 6 giorni Israele ha conquistato la Giudea , la Samaria e Gerusalemme. Ma non le ha conquistate da Arafat. Le ha portate via al re Hussein di Giordania. Non rimane che chiedermi come mai tutti questi palestinesi hanno scoperto improvvisamente la loro identità nazionale dopo che Israele ha vinto la guerra. La verità è che la Palestina è vera come l’Isola che non c’è. La prima volta che il nome Palestina è stato usato era nel 70 AD, quando i romani hanno commesso un genocidio degli ebrei, distrutto il loro tempio e dichiarato che lo Stato di Israele non esisterà mai più. Da allora, hanno promesso i romani, sarà chiamata Palestina.
Questo nome derivava dai Filistei, il popolo di Golia sconfitto dagli ebrei secoli prima. Era il modo dei romani di aggiungere un insulto alla ferita inferta. Hanno provato anche a cambiare il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina, senza grande successo.
La Palestina non è mai esistita né prima né dopo come entità autonoma.
È stata governata dai romani, dagli islamici, dai crociati cristiani, dall’impero ottomano e, per un breve periodo, dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale.
I britannici hanno stabilito di restituire una parte di questa terra al popolo ebraico perché potesse farne la propria patria.
Non esiste una lingua palestinese. Non esiste una cultura palestinese specifica. Non c’è mai stato uno stato palestinese governato dai palestinesi. I palestinesi sono arabi, indistinguibili dai Giordani (un’altra recente invenzione), dai siriani, dai libanesi, dagli iracheni ecc…
Dovete tenere a mente che gli arabi controllano il 99,9% della terra del Medioriente; Israele rappresenta lo 0,1% di questa terra.
Ma questo è troppo per gli arabi. loro vogliono tutto. Ed è per questo che si combatte oggi in Israele: avidità, orgoglio, invidia, cupidigia. Non importa quante concessioni territoriali farà Israele, non saranno mai sufficienti.
E i posti sacri all’Islam? Non ce ne sono a Gerusalemme!
Stupìti? Dovreste esserlo. Non penso che sentirete mai questa brutale verità da nessun altro dei media internazionali. Non è “politically correct“.
So quello che state per dirmi: “Farah, la moschea di Al Aqsa e il Tempio della Roccia rappresentano il terzo luogo sacro dell’Islam.”
Falso. In realtà il Corano non dice nulla su Gerusalemme. Menziona la Mecca centinaia di volte, Medina è nominata innumerevoli volte, ma non menziona mai Gerusalemme, e per buone ragioni. Non c’è nessuna evidenza storica che suggerisce che Maometto abbia mai visitato Gerusalemme.
Allora come è che Gerusalemme è diventato il terzo luogo sacro dell’Islam?
I musulmani oggi citano un vago passaggio del Corano, la 17 sura, intitolata “il viaggio notturno”. Questo si riferisce a un sogno o una visione in cui Maometto è stato portato di notte “dal tempio sacro al tempio più remoto, il cui recinto abbiamo benedetto, che possiamo mostrargli i nostri segni…”
Nel 7° secolo, alcuni musulmani identificavano i 2 templi menzionati in questo testo come quello della Mecca e quello di Gerusalemme. E questa è la relazione più stretta che si può trovare tra l’Islam e Gerusalemme. Miti, fantasie, credenze basate sui desideri, ma non sui fatti. Mentre le tracce delle radici degli ebrei a Gerusalemme risalgono ai giorni di Abramo.
L’ultimo giro di violenze è scoppiato quando il leader del Likud Ariel Sharon è andato a visitare la spianata dei templi, sopra al tempio costruito da Salomone. È il posto più sacro per gli ebrei. Sharon e il suo seguito sono stati affrontati con sassate e minacce.
Io so come è stato, io ero lì. Potete immaginarvi cosa significa per un ebreo essere preso a sassate, minacciato e fisicamente impedito di entrare nel posto più sacro al giudaismo? (*)
Allora quale è la soluzione per il medioriente? Francamente non penso che l’uomo abbia trovato la soluzione alla violenza, ma se c’è una soluzione deve partire dalla verità: fingere porterà solo a più caos. Mettere sullo stesso piano un diritto di nascita vecchio di 5000 anni, sostenuto da prove storiche ed archeologiche schiaccianti, contro pretese e desideri illegittimi dà alla diplomazia e a certi negoziatori una pessima fama.

Josef Farah
da World Net Daily

Questo invece è recentissimo.

(*) In realtà, come è stato documentato in seguito, fra la visita di Sharon al Monte del Tempio e l’inizio della cosiddetta seconda intifada, non c’è alcuna relazione (addirittura neppure temporale, dal momento che i primi disordini erano iniziati qualche giorno prima). Fra i commenti lasciati in quel post, ritengo utile riportare questa preziosa testimonianza:

Piccola testimonianza personale sulla lunga (e capillare) preparazione della II Intifada. Confesso che, nel 1999 (febbraio), ho incontrato Arafat a Ramallah (delegazione sindacale unitaria). Era periodo di Ramadam e, nel pomeriggio, girammo per le stradine piene di ragazzini. Erano organizzati per bande, ognuna con un capetto sui 12/13 anni che parlava inglese. Erano parecchie, queste bande. Il capetto ti interrogava: da dove vieni? sei amico della Palestina? sei contro l’occupazione? Noi rispondevamo, con la sensazione che si dovesse accettare questa mini-polizia locale e stare al gioco. Ad un certo punto, però, domandai ad uno di questi mini-boss “Ma a scuola non ci andate?” Si mise a ridere e la risposta testuale fu “Nooo, we are the boys of Intifada!”. Gli feci notare che l’intifada era finita e che si stava facendo la pace. Mi guardò con schifo e mi disse “The next one”. La sera commentai questo episodio con un amico palestinese e gli dissi che mi sembrava, anche dai colloqui che avevo avuto con diversi dirigenti sindacali, che tutti dormissero col coltello o con le pietre sotto il cuscino. E lui mi rispose lapidario: “No, col kalashnikov”. Mancavano molti molti mesi alla “passeggiata” di Sharon.
Misi tutto per iscritto per i miei capi. Mi dissero: sei la solita pessimista.

“Cassandre”, vengono spregiativamente chiamate le persone che segnalano il pericolo. Dimenticando un piccolo particolare: che Cassandra non ha mai sbagliato una profezia.

barbara